io a colori

Simone Consorti a tutto spiano: a un passo dai vent’anni di attività artistica (esordì giovanissimo per la Baldini & Castoldi, nel 1999), lo scrittore e insegnante romano, classe 1973, si racconta, libro per libro, in questa intervista esclusiva: parleremo della sua creatività e dei suoi black-out, di scrittura e di fotografia, di teatro e di cani sciolti.

Roma, 1998. Hai venticinque anni, la sindrome dello scrittore esordiente e soffri di ipocondria. Ti sei laureato da poco. Chiudi gli occhi e raccontami com’era la scena romana, raccontata dalla tua prospettiva di ragazzino. Con chi parlavi? Quali erano le riviste di riferimento? Quali le case editrici romane più vivaci o carismatiche? Internet, praticamente, non esisteva…

Appena laureato, sono partito per Londra. Un anno in cui ho cambiato 4 alloggi, 3 scuole e 6 lavori. A Zypangu, un ristorante giapponese all’incrocio tra Soho e Charing Cross, dovevo lavorare in kimono. Facevo anche il bagarino per un russo. Si trattava di comprare i biglietti dei musical che lui avrebbe rivenduto al doppio e che, ai teatri del West end, non gli vendevano più. Dopo qualche giorno, il russo mi dotò di baffi posticci per mascherarmi alle casse dei teatri. In ogni caso a Londra, quando non ero impegnato in queste attività en travesti, frequentavo un pub verso Liverpool Street dove prendevo appunti veloci, soprattutto dialoghi inventati, dal titolo provvisorio di MI FA MALE IL FISICO, che poi sarebbero confluiti nel mio primo libro. Tornato a Roma per disastri sentimentali e licenziamenti in serie, ho preso a frequentare le sedute della rivista “Liberatura” dove c’era il mio amico Christian Raimo. La rivista era finanziata dal dipartimento di Filologia Romanza. Eravamo un bel gruppo eterogeneo, unito solo da una passione smodata per il racconto e da tantissimo narcisismo. Ci leggevamo i nostri racconti tutti i venerdì e poi proseguivamo a San Lorenzo, in genere al “32” o al “Baffo della Gioconda”, parlando di Salinger, Carver, DeLillo o Bukowski. Il mercoledì, invece, si proponevano le poesie a “Tutti Frutti”, a Testaccio, in una sorta di Poetry Slam de noantri; la formula era un girone quasi tennistico dove si partiva dai trentaduesimi di finale; eravamo uno contro l’altro, col pubblico che votava e ci mangiava in faccia mentre leggevamo. Una cosa tristissima, a ripensarci.

Roma, 1999. Simone Consorti, 26 anni, vince la prima edizione del premio letterario di Linus col suo “L’uomo che scrive sull’acqua aiuto“, raccolta di tre racconti, tendenzialmente giocata per sketch: è come una gigantesca sequenza di strisce d’un fumetto, complete, nella prima parte, di memorie dell’esame di scuola guida, dell’abbandono della ex, dei sogni tennistici, di stravaganti episodi d’adolescenza; nella seconda, di esperienze londinesi giovanili, giovaniliste; nella terza, di memorie universitarie (autobiografiche: tesi sui lapsus in Pirandello), pubblicitarie alitaliote (adesso assumono altro valore) e di sopravvivenza domestica (“butta le cartacce”). Simone, ti ritrovi pubblicato da Baldini & Castoldi, il tuo esordio sta in tutte le librerie. Io compro la mia copia da Tilopa, in via Fonteiana, a Roma. Tu come ti senti? Cosa succede?

Ricordo soprattutto la telefonata con cui mi comunicarono la vittoria del “Premio Linus”. Gli erano arrivati circa 600 manoscritti. Il mio l’aveva spedito la mia amica Sabrina senza dirmi niente, se non mesi dopo. Quella mattina ero tornato a casa dal teatro Argentina dove avevo visto “Il gioco delle parti” di Pirandello, quando trovai un messaggio in segreteria: “Sono Michele Dalai. Vorrei parlare col signor Consorti per comunicargli una cosa “””””abbastanza”””””” importante”. La sua voce era piena di virgolette; quell’ “”””abbastanza”””” molto enigmatico. Rifeci subito il numero ma erano in pausa pranzo. Cercai il bando di concorso nel cassetto dove tenevo cose di quel tipo. Il terzo classificato riceveva una targa, al secondo gli appioppavano una specie di medaglia, mentre il primo intascava 5 (cinque) milioni di lire più una tiratura di cinque mila copie. Richiamando pensavo, “ecco, sono di sicuro il secondo! Ma quello non era un “””””abbastanza”””””” da secondo posto e, infatti, quando mi presentai, Michele Dalai mi rispose, ridendo: “Ho l’onore di parlare col vincitore del nostro premio letterario?”. Alla conferenza stampa c’era Oreste del Buono che spiegava perché avessero scelto me. Le sue parole furono così belle che le voglio tenere per me. Ero talmente contento che presi tre giorni dal lavoro (a quel tempo lavoravo come telefonista alla Vodafone) e me ne andai a Bergamo, Venezia e Finale ligure, così, senza un criterio, senza meta; in quei giorni uscirono articoli su “Panorama”, sul “Corriere della Sera”, “Il Tempo” e “l’Unità”. Ero contentissimo. Quando uscì il libro, mi presi la prima copia di nascosto e me la portai sulla spiaggia in cerca di un refuso. Non avendolo trovato, mi ricordo che, anche se era fine ottobre/novembre, mi feci un bagno nudo. Andavo nelle librerie dove c’erano le pile. E controllavo le copie che mancavano. Ero contento se ne mancava qualcuna, perché voleva dire che era stata venduta; eppure, allo stesso tempo, mi dispiaceva che la pila si assottigliasse e si abbassasse.

2001. Sono passati due anni dal tuo esordio. Cosa ha funzionato, cosa no? Che prospettive ci sono? Come ti senti, a cosa stai lavorando? Hai cominciato a fare qualche incursione su Internet, oppure rimani orgogliosamente cartaceo?

Con Baldini e Castoldi iniziò col piede sbagliato o, almeno, con un fraintendimento. Quando proposi di togliere dal contratto l’opzione per i successivi romanzi per sostituirla con una prelazione, mi risposero che mi ero montato la testa. Un anno dopo gli proposi un secondo romanzo intitolato APRITI SECOLO, un pasticcio corale ambientato tra Torino e le Langhe incentrato su un gruppo di squatter che bruciavano la Sacra Sindone e un professore scappato di casa alla morte di sua figlia che era diventato a sua volta un incendiario. Provai successivamente un testo intitolato MI SONO CHIAMATO E MI HA DATO OCCUPATO, ambientato nella Sala Break di un call center. Buttato anche quello! Nel frattempo avevo vinto il concorso a cattedra e avevo cominciato a insegnare. Facevo il pendolare. Per andare al posto fisso mi muovevo in continuazione. 140 chilometri al giorno tra andata e ritorno. La sera scrivevo cose stanche e stropicciate, per lo più poesie, ma non avevo molto da dire. Riempivo le pagine di belle righe, ripetendomi il motto latino “Nulla dies sine linea”, ma tutto era terribilmente senza vita. Non avevo internet. Scrivevo i racconti su carta ciclostilata, le poesie su qualsiasi strisciolina. A quasi due decenni di distanza, ancora oggi, quando faccio le pulizie di stagione qualcosa viene fuori. Resti di un’archeologia che mi suscita tuttora nostalgia…

2007. Altri sei anni senza pubblicare niente. In compenso, parecchio lavoro, a scuola; e immagino altrettanta scrittura. Cos’è successo in questo lasso di tempo? Cosa hai scritto, e cosa hai lasciato andare? Hai rimpianti? Ci sono state opportunità mancate? Com’era cambiato, nel frattempo, il tuo rapporto con la scena romana?

Il rimpianto è legato al rapporto con Baldini e Castoldi. Per il resto, il fatto di essere sempre stato un cane sciolto mi ha impedito di stringere rapporti fruttuosi e di salire su carri che sarebbero andati molto avanti. Mi ricordo vagamente un laboratorio di poesia che lasciai per cercare il mio stile senza essere troppo influenzato da altri. Sul momento, i rimasti mi accusarono di avere, della letteratura, una visione eccessivamente romantica. Anni dopo ancora si ricordavano di questo mio forfait. In ogni caso, quelli sono stati anni di poesia. Buttai giù i componimenti di PERCHE’ HO SMESSO DI SCRIVERTI VERSI, che poi avrei pubblicato nel 2009 (“Dopo tre mesi di rose/e poesie d’amore a tutto spiano/finalmente ti sei arresa/però con un altro/ Per giunta mi chiedi/perché ho smesso di scriverti versi”). In quegli anni, come si evince anche dal titolo di quella silloge, flirtavo con l’idea di smettere di scrivere. Era un modo come un altro per punirmi. Ma, se pure ho smesso, l’ho fatto come Zeno con la sua ultima sigaretta, e per uno o due anni al massimo.

2008. Pubblichi con Besa, un piccolissimo editore pugliese, il tuo secondo libro di narrativa: “Sterile come il tuo amore“, un libro profondo e pieno di sentimento, sui limiti e sulle sofferenze di due innamorati che non possono avere bambini. Che ricordo hai di questo lavoro, a dieci anni di distanza? Cosa ti ha dato più soddisfazioni, cosa ti è dispiaciuto?

Confesso che è il mio libro preferito, oltre che, a mio avviso, il più riuscito, aperto dai versi di Eluard: “Creato, io creo//E’ la sola giustizia, il solo equilibrio”. Un libro scritto in quattro capitoli che procedono indietro nel tempo. Nel primo lui è nel bagno di una clinica per la fecondazione assistita, mentre lei in sala operatoria aspetta il seme. L’ultimo capitolo racconta il loro primo incontro. Nei capitoli si alternano i punti di vista, prima Lui e poi Lei; entrambi insoddisfatti, sempre pronti a ironizzare e a lamentarsi. Era un testo ricco di humour e dai dialoghi brillanti, tanto che l’ho subito arrangiato per il teatro e a giugno, a una vita di distanza, andrà in scena al Teatro Antigone. Il tema è scottante, oltre che sempre più attuale; nel romanzo la sterilità è una condizione, ma soprattutto una metafora. Nei bagni delle cliniche, negli studi di andrologi, psicologi ecc. si discute di tanto altro.

2009. Stavolta pubblichi con Hacca, piccolo editore marchigiano, il tuo terzo romanzo, “In fuga dalla scuola e verso il mondo“, accompagnato da una bella copertina di Maurizio Ceccato e da una buona bandella del già famoso Andrea Di Consoli; è la storia di un ragazzino ribelle, Valerio – a me aveva ricordato Antoine dei “400 colpi”. Il tuo ricordo di questo lavoro – delle sue prospettive, della sua fortuna, dei suoi limiti. La tua esperienza in Hacca. Vai…

Ci aspettavamo molto, anche in termine di vendite, da quel romanzo. Ho un bellissimo ricordo degli editori di Hacca e del lavoro con Andrea. L’esergo era “Troppo infantile per capire il vostro mondo. Troppo adulto per accettarlo”. Qui lo scontro non è tra i sessi, ma generazionale. Ho raccontato della mia scuola e di alcuni personaggi naif che vivevano sulle dune di Capocotta. Proposi il libro ad Hacca col titolo NEMMENO VI ODIO. Invece il titolo definitivo divenne l’altro. Questo lo vivo ancora come un piccolo rimpianto.

Adesso facciamo una pausa. È il 2010: hai già pubblicato tre libri di narrativa e un piccolo libro di versi; hai avuto tre editori differenti in tre regioni differenti; sei passato da un esordio “mediatico” a due libri circolati, per lo più, tra aficionado e addetti ai lavori. Come ti senti, Simone? E il tuo rapporto con la scena romana com’è cambiato, nel frattempo? I vecchi amici ci stanno ancora? Gli equilibri sono gli stessi?

I vecchi amici letterati o avevano avuto successo o avevano smesso. Con loro abbiamo fatto qualche bel viaggio. Poi ci siamo persi di vista, tranne che con un paio. Leggo quello che scrivono sui giornali o sui post. Chissà se mi leggono anche loro. Comunque nel 2010 mi sono avvicinato a una rivista online con la quale negli anni successivi avrei pubblicato due ebook di poesia. Parlo di Larecherche.it, di Roberto Maggiani e Giuliano Brenna, due persone generose e sensibili. Le poesie de GLI AMANTI BENDATI erano brevi, quasi prevertiane, ambientate a Parigi. L’ultimo testo di quella raccolta illustra bene lo stato d’animo di indifferenza in cui mi trovavo in quel periodo…diceva “È prematuro/pensare al futuro/E’ inconcludente/ pensare al presente/È superato/pensare al passato”.

Quarto libro di narrativa, tra 2010 e 2011: si tratta di un’indagine sulla misteriosa scomparsa di una ragazza: è un quaderno di prose mosaicali, a tinte thriller e sentimentali, si chiama “A tempo di sesso” ed esce nuovamente per la piccola casa editrice pugliese Besa. Che esperienza è stata? Che soddisfazioni ti sei tolto? Che ricordo ti rimane? Cosa si è rotto, a questa altezza della tua carriera? O meglio: s’è rotto qualcosa?

Ricordo che avevo scritto questo ritratto di getto. In prima persona. Il diario di Stella, una ragazza rimasta orfana, dopo un incidente, di entrambi i genitori. Sola con sua sorella Luna, entrambe ricche, giovani e bellissime, con un rapporto morboso col loro cugino. Quel che mi interessava era il ritmo. Frasi brevissime, frante, spezzate. Singhiozzanti. Piccoli colpi. Con immagini forti. Questo ritmo e certe abitudini di Stella nei giorni successivi al suo lutto giustificano il titolo, che altrimenti risulterebbe depistante. Il diario tuttavia mi sembrava mancante di una parte, allora l’ho incorniciato con delle indagini (visto che Stella sparisce improvvisamente lasciandolo a metà). Ne è uscito così fuori il mio unico e ultimo thriller, un libro lontano dagli altri, forse minore, ma che si può leggere tutto d’un fiato ed è scritto particolarmente bene.

Passano altri sei anni, siamo nel 2016. A dar retta a Internet, la fotografia è diventata, nel tempo, come la letteratura, per te: nel corso di questi anni hai di nuovo smesso di pubblicare narrativa, mentre sembri esserti concentrato sulla fotografia – soprattutto ritratti di donne o di passanti. Intanto esce, quasi sottotraccia, il tuo quinto libro di narrativa, quello che considero forse l’unico trascurabile, “Da questa parte della morte”, sempre per Besa. Che momento è? Cosa stai cercando? Cosa stai sperimentando?

Fotografia e letteratura si fondono in questo libro, sia perché fotografo è uno dei protagonisti, sia perché in copertina c’è Radmila, una ragazza caucasica che ha posato per me, ma soprattutto perché mi sono avvicinato alla fotografia, alcuni anni fa, proprio per cercare la protagonista di questo romanzo che ho scritto per lei. Avevo conosciuto H. in una chat, l’avevo vista di persona andando nelle marche. H. era una ragazza musulmana, dalla vita molto bipolare ed emancipata e con una famiglia tradizionalista. Quando scappò di casa mi cercò; mi chiese aiuto. Cercai di metterla in contatto con alcune associazioni. Ma lei voleva fare a modo suo. Quando la persi di vista, sapevo solo che si guadagnava da vivere posando per sedicenti fotografi. La cercai a lungo nei siti di modeling; mi immedesimai a tal punto che comprai una Reflex e iniziai a scattare come se stessi scattando lei. Poi scrissi questo romanzo di cronaca sulla sua vicenda, raccontando un mese della sua fuga, fino al ritorno obbligato a casa. Una peripezia, un libro on the road, giocato a tempo di tango. H. ascoltava in continuazione i Gothan Project. Tra l’altro l’ho ritrovata anni dopo. Adesso per lei va molto meglio.

2018. Come narratore, adesso, stai cercando altre strade; pubblichi, per un marchio sorvegliato dall’editore romano Giulio Perrone, un “laboratorio” di una raccolta di racconti; scrivi versi, negli anni hai trovato un buon approdo nell’Arcolaio; ti concedi qualche fotoreportage. È questo che ti aveva pronosticato Oreste Del Buono, vent’anni fa? È questa la strada che stavi cercando? Oppure…

Oreste Del Buono, in sostanza, mi disse che il mio primo libro era un’accozzaglia ma che singole frasi giustificavano la lettura dell’intera pagina e singole pagine di tutto il libro. Il tutto giustificava il loro premio. Mi parlò di stile che vedeva, che c’era. In ogni caso, cambiando discorso, ora sto lavorando a un libro di racconti e ho in cantiere un romanzo breve in cerca di editore. Per non farmi mancare niente tra qualche mese pubblicherò LA FAVOLA DEL GATTO CHE NON MIAGOLA, un libro per ragazzi, e a dicembre metteremo in scena un’altra piéce, arrangiata da me e tratta dal mio racconto CHE I BACI NON LASCINO TRACCE. So di rischiare, di essere eccessivamente scentrato e versatile ma il mio ubi consistam è diventata questa forza centripeta, ora che mi illudo di aver trovato la mia lingua…

Abbiamo parlato di Consorti scrittore e Consorti fotografo; abbiamo accennato al Consorti poeta appartato. Adesso vorrei il Consorti lettore. Nel corso di questi vent’anni, quali sono stati i tuoi punti di riferimento, quali i tuoi miti? Quali sono i quattro o cinque libri che consideri fondamentali?

I miti cambiano e rimangono. C’è stato il periodo Beckett, il periodo Sartre, il periodo Camus, il periodo Carver, il periodo Philiph Roth, il periodo Garcia Marquez, il periodo Bernhard. Diciamo che per i dialoghi e per la teoria dell’iceberg Hemingway rimane la stella polare. Mi piacerebbe raggiungere metà dell’onestà, della capacità di rivelare e di strutturare di Roth. Penso che IL TEATRO DI SABBATH sia il romanzo più importante della nostra epoca. Sono convinto che i racconti di Flannery O’Connor siano impareggiabili e che ai MORTI di Joyce non si possa cambiare nemmeno una virgola.

2018. Ultima domanda. Scena romana: raccontami cosa succede adesso. Esistono ancora riviste letterarie di riferimento? Esistono librerie o caffé o osterie in cui riunirsi, o in cui ritrovarsi quando qualcuno presenta qualcosa? Editori – editori veri – ci stanno? Ti capita di incontrare qualcuno dei tuoi vecchi o nuovi amici letterati, per parlare di letteratura o di progetti nuovi? Insomma: una scena romana esiste ancora, oppure per adesso è tutto finito (o tutto finto) o quasi? Cosa vedi?

Mi hai chiesto più di una volta della scena romana. Io in questi vent’anni ho visto gruppuscoli, impegnati più che altro ad occupare (e a prendersi) spazi. Quello della letteratura è un ambiente claustrofobico. Se entri in una redazione o in una casa editrice, ti senti come se stessi togliendo l’aria a qualcun altro. C’è tanta diffidenza. Anche se ne ho pagato sulla mia pelle le conseguenze, mi è sempre piaciuto sentirmi un cane sciolto. D’altra parte, non sono un performer e mi sono tenuto sempre un passo indietro anche rispetto agli slam, ai reading ecc. pur rispettando i poeti lettori, i poeti giullari, dicitori o affabulatori, habitué delle varie rassegne nelle piazze o, d’estate, lungo il Tevere. Mi emoziona invece, intendo dire che mi emoziona ancora, l’idea del messaggio nella bottiglia. Quella di un libro mandato, a caso, da un’amica a un editore, che vince il primo premio di un concorso al di là di ogni previsione. Pierangelo Bertoli, nella sua canzone più celebre diceva “Non so se sono stato mai poeta/ e non m’importa niente di saperlo/Riempirò bicchieri del mio vino/ Non so com’è però v’invito a berlo”. L’idea è quella. Continuare a scrivere e a versare.

Gianfranco Franchi, maggio 2018.

Prima pubblicazione: MANGIALIBRI.

Per approfondire: CONSORTI in Porto Franco / sito ufficiale di SIMONE CONSORTI

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