formigole

 

Cantava l’eterno ragazzo di Trieste: “È nato un poeta che ama le belle creature della terra perché egli deve ridare puro il loro torbido pensiero, come acqua succhiata dal sole”; cantava così, quel ragazzo triestino, cent’anni fa, e cantava bene. Cantava la sua terra e il suo popolo, cantava la sua storia, cantava la sua essenza. Cantava come nessuno prima di lui. E io dico che Toni Bruna, proprio come Slataper, ha sentito la voce della sua terra: delle foglie, delle pietre, dell’acqua di Trieste. Ha sentito la voce della sua terra e ha scritto musica per quella voce: e così la sua musica è diventata come un richiamo. Il richiamo della casa lontana e delle storie perdute: delle terre che hanno cambiato cinque bandiere in neanche cento anni, perdendo centinaia di migliaia di figli, costretti all’esodo dalla cattiveria dei regimi. Il richiamo del ritorno: scritto nell’epoca del ritorno; vale a dire nell’epoca in cui, piace sognare, l’esodo giuliano e dalmata si invertirà, due o tre generazioni più tardi. E terminerà di fare del male. E istroveneti, sloveni, croati e austriaci torneranno a convivere, a coesistere, a dialogare. E sarà come musica. Sarà naturale. Parleremo la lingua delle pietre del Carso. E nessuno potrà equivocare.

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Formigole”; opera prima di Toni Bruna, è un quaderno di dieci canzoni folk, cantate da un artista in stato di grazia. È l’album dell’orgoglio di chi parla una lingua, l’istroveneto, che viene capito, parlato e inteso dai confini dell’Emilia fino alle Bocche di Cattaro: storicamente è così, e le sofferenze e le cattiverie figlie del flagello degli opposti nazionalismi, nel Novecento, non hanno potuto cancellare la storia. “Formigole” è l’album della semplicità e della poesia della vita: della bellezza del popolo, della natura, della verità. È scritto nella lingua del popolo, e nella lingua della natura. È irresistibile. È originale. È triestino. È bello, c’è poco da fare, è bello, di una bellezza ruvida, verace.

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Folk immaginario. Cultura popolare, cultura del vissuto: il vissuto di Toni Bruna, il vissuto della sua generazione – la nostra generazione. Il vissuto di Baiamonti, il rione degli esuli istriani di Trieste, “in esilio volontario o meno volontario”, come ha spiegato Toni in una videointervista rilasciata al bel sito Bora.la. Esuli istriani come i suoi famigliari. Esuli come i nostri fratelli del Villaggio Giuliano-Dalmata, qui a Roma: diventati grandi artisti come Diego Zandel. Cresciuti e vissuti pensando d’essere triestini per il momento, romani per il momento. Un momento durato un bel pezzo. Qualche generazione. Esuli vissuti parlando una lingua soltanto: la loro. La più bella che c’è. Quella della mamma, quella dei nonni, quella incisa nel sangue da secoli.

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Formigole”, opera prima di Toni Bruna, è, secondo l’anima rock giuliana Ricky Russo, “uno dei debutti discografici più intensi, poetici e originali che siano mai usciti da Trieste”: un disco “pieno di anima” nato “con il Sudamerica nel cuore e la Mitteleuropa sottotraccia, come un fiume carsico”. Già: a quanto riferisce la vulgata, Toni Bruna ha vissuto in Sudamerica per diverso tempo, ma poi ha sentito forte il richiamo di casa, e così è tornato indietro, a casa. Ha fatto bene.

Il triestino, dice Toni Bruna, è l’unica lingua possibile. E a lui piace parecchio l’idea che l’unica lingua possibile sia qualcosa di vivo. E ripete che la lingua non va messa in scatola e tenuta al riparo. Perché è viva, è piena di contaminazioni. È bello che sia contaminata. E così la sua musica deve andare nei luoghi in cui di solito la musica non va, per contaminarli di vita. Come il tram.

Ha scritto Andrea Rodriguez: “Toni Bruna riporta tutto a casa e da lì riparte. Se avesse cantato in inglese sarebbe stato solo uno dei tanti. Se avesse cantato in italiano probabilmente anche. Invece va dove non va nessuno, dove nessuno a coraggio di andare. Senti sempre le solite frasi, che devi uscire, andare fuori, farti conoscere più lontano possibile. Lui invece manco per niente. Lui invece riporta tutto a casa”. Lui, invece, riporta tutto a casa. E richiama tutti a casa. È come un grande spirito del bosco, del carso: un folletto che conosce l’incantesimo del ritorno. È pieno di poesia. È magico.

È magico e racconta cosa Trieste è, al di là della cartolina mozzafiato di piazza Unità, della meraviglia di piazza della Borsa, della leggenda della città che in una manciata d’anni è stata mamma di Svevo, di Saba, di Joyce. Spiega alla grande Andrea Rodriguez: “Trieste è anche Borgo e Baiamonti. Distributori di benzina abbandonati. L’impero delle formiche. Zombi vivi, non-morti forse morti. Raccontare l’irraccontabile con i suoni di un dialetto intransigente ma così dolce e così ricco. Quello che non capisci, quello che perdi dei testi lo recuperi con l’anima. Una lingua nuova come non si era mai sentita prima. Le ombre le spine la polvere la notte l’erba le paure e la dolcezza. Santo Protettore di quelli che tornano a casa distrutti facci la grazia. Taumaturgo. Queste povere cose sono quello che abbiamo e brillano come oro. Taumaturgo fai il miracolo. Conservacelo così, Toni Bruna. Taumaturgo”

Così, conservacelo così, come uno che sogna, come ha raccontato in una bella intervista rilasciata a Ricky Russo, “una casa isolata sul Carso, il più possibile autosufficiente con un bell’orto fuori e uno spaghert in cucina. Poter vivere bene con poco e aver tempo per far musica senza dover scendere a compromessi con nessuno. Per me è più importante seguire una strada che sia mia, la destinazione conta meno”. E alè. Così è. Quel futuro è nelle cose.

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Come comincia “Formigole”? Con un pezzo dedicato a Baiamonti. “Baiamonti / Baiamonti / Fumigada”, canta Toni Bruna, giocando su sonorità decisamente sudamericane, finendo poi per raccontare che “Ale nove sona una campana / Che le vecie istriane le va in cesa / Che un esodo comincia ogni matina / Te se lo trovi in piato a ora de zena”. Puoi vederle, puoi immaginarle – vanno in cesa così come andavano a Pirano, a Umago, a Buie, a Montona. A Pola. A casa, da piccole, da bambine. Bellissimo. Un ritratto pieno di innocenza.

Poi, dopo “Baiamonti”, viene un divertimento misticheggiante e irriverente, “Cristo de geso”, litania d’un matto che ha cominciato a far miracoli: “Trasformo el vin in asedo / Fazo vignir la mufa sul pan / Fermo el tram con una man”. La prima reminiscenza forte d’una voce grande e indimenticabile arriva all’altezza del pezzo eponimo, “Formigole”, che io ascolto pensando a un singolare omaggio a Nick Drake e al povero Mark Linkous. E poi mi ritrovo ad ascoltare la voce di Trieste e dei triestini, quando Toni canta “e noi altri / noi stemo solo tra de noi altri / qualche volta se misiemo con quei altri de là / po se demo pel muso / e restemo incazai”.

E poi viene “Gente che no che frega de gnente”. L’incantesimo non finisce – sprigiona adesso tanti ricordi. Restituisce ricordi d’infanzia, d’adolescenza, di estati, restituisce odori di cose perdute e di stanze chiuse e il profumo di chi non c’è più, di chi se n’è andato; e poi a un tratto cominci a ghignare, perché Toni cambia passo e sale in cattedra e racconta i “Pai de la luse”, i pali della luce. L’atmosfera è buffa e calviniana, e come Marcovaldo il cantante racconta d’aver passato tutta la notte sveglio sui pali della luce, vivendo un’esperienza sinceramente allucinata: “Scuro de no veder gnente / Scuro de note in cantina / No sará miga la morte / Sta ombra freda que me sento in schena”. E poi niente, subentra il delirio allegro di un ritornello che diventa un mantra. E il mantra disi “Impiza e studa la luse / Impiza e studa la luse / impiza e studa la luse / impiza e distuda”, e alè.

Sesto pezzo è “Picar”, che finisce per cullare come una ninnananna. Ma poi viene la canzone più bella di tutte, più vera e spirituale, più dolce e commovente: la se ciama “Sanantonio” e racconta la storia di un mulo triestin che vuole tornare a casa e non sta troppo in condizioni, e così prende ispirazione dalla chiesa di Ponte Rosso, dalla chiesa di Sant’Antonio. Legge l’iscrizione e ripete “Sanantonio sanantonio taumaturgo / Protegime”, e quello diventa l’ipnotico mantra che vi entra in testa e più non vi abbandona.

Poi il poeta parla. E la preghiera diventa qualcosa di diverso, di più universale: sembra quasi la preghiera del ritorno, di tutti – mezza seria mezza matta mezza buia, tanto vera: “Fame tornar a casa anche se son duro / Fame tornar a casa anche se son storto / Su una rioda sola quel che dà / De qua fin Borgo / Su una rioda sola quel che dà…”

Il brano è commovente. Sì. Finisce e ti viene voglia di ascoltarlo ancora; ti senti il bambino che chiede al papà o alla mamma di rimettere quella canzone là, sul vecchio giradischi. Intorno qualcuno fuma una sigaretta e c’è un sacco di odore di caffè appena fatto. Un vecio cane lupo fa avanti e indietro e controlla che tutto vada come deve andare. Poi morsiga una mela. Cose così. Taumaturgo. Protegime. Fame tornar a casa anche se son storto.

Poi viene un altro pezzo, “Serbitoli”, ma ormai il disco è già il capolavoro per cui Toni verrà ricordato, il grande disco di un figlio di Trieste che parla la lingua di Trieste ma parla a tutto il mondo – ricordando al mondo cosa Trieste era, cosa Trieste è, cosa Trieste potrebbe tornare a essere, superato il Novecento. Vale a dire, il porto franco dell’ultimo grande sogno europeo. E niente. Insomma, “Serbitoli” è sempre deliziosa, è piccina e raccolta, e chissà cosa finirà per suggerire a tante coppie. Chissà. Ancora satira e allegria in “Tesounasanta”, in cui l’artista parla a una donna e ha qualcosa da dirle, ché magari è successo qualcosa che non doveva succedere, e insomma lei è una santa, e lui le dice “te ardi come montegrisa”, montegrisa è un santuario abbastanza inconfondibile, e niente, “te vedo in testa / una aureola de neon / o me confondo / co la plafoniera / de la cusina” è abbastanza intuitivo.

Chiude il disco un pezzo intriso di profonda sensibilità sociale, “Una bela casa”. E a questo punto non rimane che ascoltarlo ancora, daccapo. Si ricomincia ad ascoltare, si sorride di tutta quella bellezza. Si finisce fantasticando, immaginando come verrà accolto al di là del Lisert, al di là di Venezia, e al di là di Padova, già da Ferrara in giù. Io dico bene – perché “Formigole” è un disco ispirato e grazioso, pieno di vita e di umanità; è inciso con amore ed è figlio di un pensiero gentile e pulito, e di tanto sentimento popolare. E allora, a chi vuole ascoltare, a chi vuole innamorarsi di Trieste e dell’Istria, di Trieste e degli istriani, consiglio subito di assaggiare qualcosa di buono nel sito ufficiale di Toni Bruna, qui [ TONI BRUNA (bilingue: triestin e english) ] e subito dopo di ordinare l’album, con cieca fiducia, qui: Knulp e libreria In der Tat.

Trieste ha un altro grande figlio di cui essere orgogliosa. La musica italiana ha un talento grande da tutelare e sostenere con intelligenza. Guai a chi ce lo brucia. Guai.

Grande disco (s’era capito?). Da avere. Impossibile non amarlo.

DISCOGRAFIA ESSENZIALE e BREVI NOTE

Formigole”, 2011. “Tute le prime chitare registrade a Campedei sui monti co la piova a casa Balzan da Abba Zabba e Toni Bruna. Tuto el resto sona’, canta’ e registra’ da Toni Bruna in via Rossetti a Trieste a casa de Raffa a parte:

Dal vivo si aggiungono Andrej Pavatich alla batteria “zota” e alle percussioni Raffaele Podgornik [fonte di questa rivelazione: intervista di TB a Ricky Russo, “Il Piccolo”].

Approfondimento in rete: sito ufficiale di TONI BRUNA (bilingue: triestin e english) / Toni Bruna ospite dei Russos, In Orbita / l’incredibile video di “Iazo” / Toni Bruna vivo al Juice [da vedere!] / Andrea Rodriguez / Janine Marupunga / intervista a Toni Bruna – un cantautore sul tram [bora.la] /

Gianfranco Franchi, dicembre 2011.

Prima pubblicazione: Lankelot.

Accanto a me due figuri con la giacca buttata sulla spalla e la camicia blu parlano d’una brocca di stagno, come fu rubata. Altri schiamazzano e cantano. Bene. Niente è qui strano, e tutto è duro e definito come gli spigoli del corso. S’io do un pugno sul muso di quel facchino, lui mi tira due pugni. S’io faccio la filantropia schiave-bianche a quella donna, essa mi risponde dandosi una manata sul culo. Sono tra ladri e assassini: ma se io balzo sul tavolo e Cristo mi infonde la parola io con essi distruggo il mondo e lo riedifico. Questa è la mia città. Qui sto bene” [Scipio Slataper, “Il mio Carso”, 1912].