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C’è un momento, in questa sinistra rassegna antagonista, in questa oscura discesa negli inferi delle trincee e del gran macello di soldati e di civili che ha flagellato l’Europa, giusto cent’anni fa, in cui ti trovi di fronte a un oggetto e succede qualcosa. Magari è un ex voto di un soldato, graziato dalla Madonna più di una volta – magari è una delle lettere dei nostri fanti, semianalfabeti, censurate dal Ministero e rigate in rosso o in blu. Magari è una delle scintillanti e disperate incisioni di un artista, antroposofo, che non avevi mai conosciuto, Alberto Helios Gagliardo; magari è una vignetta del granitico socialista Giuseppe Scalarini, o una tempera di Arcangelo Salvarani, ambientata nei campi di prigionia. Sta di fatto che in quel momento, in un momento imprecisato e diverso per ogni visitatore, la mostra “L’Europa in guerra. Tracce del secolo breve” diventa un’iniziazione, e smette di essere l’epifania della rivolta di chi era stanco del massacro, di chi vagheggiava la diserzione, di chi sentiva nausea delle decimazioni, delle avanzate suicide, del fratricidio. In quel momento “L’Europa in guerra” smette di essere una rassegna, una rassegna insolita e laterale, cupa e sanguinosa, e diventa un assedio all’inconscio. Reminiscenze di qualche antenato sopravvissuto al massacro: reminiscenze fatte di rumori. “Relitti fonici”. A me è successo questo, in una sala, a un punto. I rumori della guerra erano fastidiosi, persistenti per tanti anni, e tante notti. E irremovibili, insolenti, impossibili da sradicare, o almeno da sintetizzare. Avanzavi e fischiavano le pallottole, a destra, a sinistra, a una velocità improbabile, senza una cadenza esatta. Fischiavano forte. Esplodevano le granate, a ondate, senza una misura esatta, senza una ripetizione esatta, e sentivi le grida di un nemico ferito, l’insulto di un altro, il latrato di un tuo compagno ferito, l’ultimo gemito di chi stava per morire, qualcuno – più d’uno – piangeva e qualcuno pregava, mormorava, bestemmiava, e uno chiamava sua mamma, tutto il tempo, e quella nenia ti faceva impazzire, e fischiavano altre pallottole, fischiavano forte, sibilavano, e andavano giù i rami degli alberi, con un suono rauco, viscerale. Le granate colpivano anche loro. Non conveniva spostarsi, fermarsi non serviva a niente. Andavi incontro al tuo destino. Il tuo destino era avanzare. Avanzare. Andavi. Intorno a te ogni cosa collassava, e a un tratto non avevi più sguardo. Soltanto rumore.

“L’Europa in guerra. Tracce del secolo breve” è una rassegna antagonista, ideata e plasmata dal professor Piero Del Giudice, narrazione tetra e sconvolgente della tragedia di chi si voleva opporre alla guerra, in nome del socialismo e della fratellanza tra i popoli, e più ancora tra i figli del popolo. È una rassegna che va a raccontare il “Secolo breve” di Hobsbawm con un punto di partenza che tutti condividiamo – vale a dire l’attentato di Sarajevo, 28 giugno 1914: il bosniaco Gavrilo Princip uccide a sangue freddo l’arciduca Franz Ferdinand e sua moglie, Sophia – e un epilogo simbolico, coincidente, cioè la rivolta di Sarajevo negli anni Novanta, antefatto d’un nuovo bagno di sangue e di civiltà. Il modello è – nelle parole di Piero Del Giudice – “quella memorabile mostra che, ordinata da Richard Cork, fu in scena nel 1994 prima all’Altes Museum di Berlino e poi alla Barbican Art Gallery di Londra. Il titolo era ‘A Bitter Truth’, ‘Un’amara verità’. Lì l’arte europea contro la guerra”.

La mostra viene ospitata da due diverse città italiane: Trieste e Trento. Trieste, forse, è la più adatta delle due, perché è qui che s’è tenuto il solenne funerale di Franz Ferdinand: è qui che l’Europa ha ricominciato a franare su se stessa. Il filmato che accoglie il visitatore è il filmato del funerale di Franz Ferdinand, in Triest. Le finestre di tutte le case sono listate a lutto. L’urbs fidelissima – a Vienna: da quasi seicento anni, a quel punto – non sembra quella che quattro anni più tardi avrebbe salutato, con autentica commozione, il ritorno della latinità e della madre Roma: è una Triest decisamente dimentica di essere stata Tergeste, e poi Trieste, e di aver parlato un altro dialetto, ladino, soltanto fino a centocinquant’anni prima. La Triest di quel filmato è, ormai, e molto chiaramente, una città di fondazione austriaca, in cui si parla un’altra lingua, cioè un veneziano speziato dallo slavo e dal tedesco, in cui si apprezza la fortuna d’essere il più grande porto del più grande impero europeo, in cui la parola “cosmopolita” ha cessato d’essere una fantasia letteraria, trasformandosi in uno stato d’animo. È una città austriaca che sta facendo il funerale a sé stessa. E all’Europa. Ma non lo sa nessuno.

“L’Europa in guerra. Tracce del secolo breve” è visitabile da domenica 30 novembre a sabato 28 febbraio al Magazzino delle Idee di Trieste, presso le Rive; dal 28 marzo al 30 maggio 2015, invece, la mostra viene allestita a Trento, nel Castello del Buon Consiglio. Suggerisco di comprare il catalogo, pubblicato dalle Edizioni “E” di Trieste: sono mille pagine divise in due parti; la prima metà comprende tutte le immagini della mostra, suddivise per area tematica; la seconda metà comprende una scelta di memorabili opere letterarie italiane, francesi, tedesche, balcaniche e russe, corredate da foto emozionanti e coinvolgenti.

Orari triestini: lun, mar, mer: 9.30–13.30; gio: 9.30-17; ven: 15.30-19.30; sab, dom: 10-13 e 15.30-19.30. Ingresso gratuito. Per un calendario delle visite guidate, si veda PromoTrieste.

Sitografia sintetica: sito ufficiale della mostra / pagina sul sito della Provincia di Trieste / pagina sul sito della Regione F. Venezia Giulia / notizia sul sito Osservatorio Balcani e Caucaso / video con Piero Del Giudice.

Gianfranco Franchi, 30 dicembre 2014.

Prima pubblicazione: Alfabeta2.

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SEMPRE A PROPOSITO DE “L’EUROPA IN GUERRA”…

È forse esistita qualche voce ostile alle ostilità, nel gran macello della Grande Guerra? È forse esistita un’arte antagonista alla retorica patriottarda, di tutte le patrie e tutte le nazioni, che ha accompagnato il bagno di sangue che ha sprofondato l’Europa nell’autodistruzione? È forse esistito almeno un artista antieroico, nelle arti visive e nella letteratura, tra noi italiani? È possibile tributargli riconoscenza e gratitudine, almeno a distanza di tutto questo tempo? A queste domande risponde, con eleganza e sofisticata intelligenza, l’iniziatica mostra “L’Europa in guerra. Tracce del secolo breve”, ideata e plasmata dalla sensibilità del professor Piero Del Giudice, allestita nei mesi di dicembre, gennaio e febbraio qui a Trieste, nella cornice minimale del “Magazzino delle Idee”. Si tratta di un percorso che accompagna il lettore nel dissesto e nel collasso dell’intelligenza e dell’umanità; simbolicamente, ha inizio dalle immagini di repertorio del corteo funebre di Franz Ferdinand, ucciso assieme alla moglie Sophia a Sarajevo, salutato dal cordoglio di tutta la cittadinanza nel cosmopolita porto dell’impero asburgico, Triest; e termina là dove l’Europa ha ricominciato a franarsi addosso, vent’anni fa, vale a dire in quella Sarajevo che tutto a un tratto s’è scoperta sotto tiro del cecchino, etnico assassino. È un percorso degno di ripetuta, assorta meditazione, perché va restituendo, primo nell’Europa Mediterranea, l’arte di chi voleva rifiutare la guerra, o di chi aveva disertato, o di chi s’era accorto dell’insensatezza del gran massacro: è un percorso che ci restituisce artisti che conoscevamo per ben differente stile e ben altra fama, come Giulio Aristide Sartorio, e va a raccontarci quanto profonda sia stata la ferita dell’esperienza bellica per la loro creatività e la loro personalità; ci insegna artisti che probabilmente non avremmo incontrato mai, come il fascinoso antroposofo Alberto Helios Gagliardo, e ammonisce, mostrando le loro creazioni, a non dimenticare che dietro a ogni intervento militare esistono interessi e speculazioni che niente hanno a che fare con l’idealismo e col patriottismo, e niente hanno a che fare con l’umanità: piuttosto, sono interessi e speculazioni che finiscono per massacrare l’umanità, e per disintegrare ogni forma di fede nell’idealità, e nella patria.

“L’Europa in guerra” è una grande rassegna antagonista, socialista, destinata a chi vuole ritrovare o stabilire famigliarità con la possibilità dell’esistenza di una voce granitica, coerente e isolata, disperatamente e coraggiosamente isolata, come quella di Giuseppe Scalarini, utopista rimasto fedele all’utopia, socialista rimasto fedele alla lettera (e ciò ha dell’eccezionale, come ben sappiamo): Cassandra del macello, Scalarini sull’Avanti pubblicava, instancabile, vignette antiretoriche, antibelliche e demistificatrici con lucidità esemplare. Ma “L’Europa in guerra” non è solo questo: s’abbina alla mostra un catalogo, complementare e solo parzialmente speculare, espressione di un singolare lavoro di ricerca, venduto al prezzo simbolico di trenta euro, costituito da circa mille pagine e così suddiviso: nella prima metà, si tratta di una elegante restituzione delle immagini appena ammirate nella mostra, tappa dopo tappa; non è soltanto un’antologia di quel che è stato esposto, ma una generosa condivisione di quel che poteva essere esposto ancora, se gli spazi fossero stati sensibilmente diversi; nella seconda metà, si tratta di un appassionante e affascinante florilegio di opere letterarie emblematiche: prima italiane, poi tedesche, poi francesi, poi balcaniche, infine russe. Tra i curatori di questo catalogo, spunta il nome del professor Andrea Cortellessa, forse la massima autorità italiana vivente nell’ambito della critica letteraria; non è allora un caso se si finisce per leggere, con emozionante chiarezza, qualcosa di spiazzante e di sorprendente, in questa antologia. Ad esempio, si finisce per appurare che una delle poche voci italiane rimaste in posizioni di rifiuto della guerra è stata quella, onestamente inattesa e forse per questo più degna di meditazione, di Aldo Palazzeschi. Oppure, si va a scoprire che tra le pagine di De Roberto quelle più attuali sono quelle degli sketches e dei bozzetti della Grande Guerra recentemente ripubblicati dalle edizioni e/o di Roma, “La paura”. Oppure, si finisce per ritrovarsi, con ovvia ma sempre nuova commozione, a sfogliare ossi di seppia dell’”Esame di coscienza di un letterato” del povero Serra.

La mostra – e il suo catalogo – passeranno simbolicamente a Trento, tra marzo e aprile; subito dopo, è auspicabile che almeno Roma, Firenze e Torino, le nostre antiche capitali, possano ospitarla, in una cornice degna della singolarità e dell’onestà della mostra, e del suo patriottico antipatriottismo – per così dire, e per intendersi, si capisce. Ben altro spessore ha dimostrato Trieste, scegliendo di ospitare e sostenere questa mostra, piuttosto che avallando la fiacca, costosa e abulica “La Grande Trieste 1891-1914”, ospitata nell’ex Pescheria nell’indifferenza, inequivocabile e comprensibile, della popolazione. Questione di stile – e di coraggio.

Gianfranco Franchi, Tergeste, febbraio del ’15.

Prima pubblicazione: Trieste Arte & Cultura [storico, ultimo numero della rivista]