inadempienza

Da poco più di un mese, uno dei miei più vecchi sodali – il poeta padovano Luciano Troisio, classe 1938 – è diventato uno dei fantasmi che ogni tanto vengono a tenermi compagnia e a parlarmi, uno dei fantasmi che infestano le mie stanze. Era stato uno dei primi incontri formidabili e imprevisti della mia giovinezza – era un accademico outsider, irregolare, fuori dai giochi, io ero un ragazzino di diciannove anni “fulminato” dalla letteratura, ossessionato dall’arte, in cerca di scontri e di muri su cui sbattere – e per parecchi anni abbiamo collaborato, a partire dalle vecchie riviste universitarie, dal Wunderwagen, da Lankelot, condividendo amicizie, letture, utopie, sbagli e depressioni. E tirature limitate, e presentazioni polverose, e pellegrinaggi petrarcheschi, sui colli (niente muta, “for the great desire I had to see…”, giusto). Niente è stato vano, tutto è stato vano. Qualcosa sta scritto.

Dieci anni fa, io ho pubblicato il mio “primo e ultimo” libro di poesia – un libro che volevo fosse un punto a capo, perché non volevo più scrivere poesia, perché non ne potevo più della poesia. E probabilmente di una parte di me, di una delle mie “chiamate”. Probabilmente, quella originaria. Forse volevo ricominciare a leggerne e basta, ritirandomi, morendo come poeta. Dieci anni dopo posso dire di essere stato fedele a me stesso. Non ho più scritto un verso, ho letto poesia, poco, pochissime volte, ma nutrendomene come fosse stata una preghiera. Luciano non credeva che volessi cancellarmi, come poeta – si ricordava di me da ragazzino, mi considerava forse artisticamente troppo vivace, troppo inquieto per rinunciare. Io invece ho rinunciato, mi sono chiamato in disparte e va bene così, caro Luciano, ho finito. Non ti avevo mentito e non avevo mentito a nessuno, avevo finito davvero.

Ieri ho ritrovato questa sua intervista, uscita in coincidenza con la pubblicazione del libro. Mi ha fatto sentire la voce del vecchio amico, del vecchio maestro (accettalo: bizzarro e irregolare maestro, nervoso e imprevedibile allievo), e mi ha costretto a un severo esame di coscienza. Amicale, artistico, estetico – soliti guasti di sensibilità.  Sono stato coerente? Ero davvero coerente? Siamo stati coerenti? Siamo stati leali? Sono stato incosciente? Sono stato prepotente? Ero troppo arrogante? Ho pensato che condividerla, a distanza di dieci anni, significava salutare Troisio e salutare la nostra vecchia amicizia, il nostro vecchio sodalizio; e forse salutare anche la mia giovinezza, dall’alto dei miei 40 anni, ora padre di due figli e di qualche altro libro – ma finito, poeta terminato. “L’inadempienza” è l’unico libro che non ho mai voluto presentare dal vivo.

Ecco la voce di Luciano.

FRANCHI – L’INADEMPIENZA.

NOTE E INTERVISTA DI LUCIANO TROISIO.

Pare, anche da gossip e anticipazioni, che Gianfranco Franchi sia fermamente intenzionato a non poetare più (affiorano precedenti di altri giovani letterati…). Fortunatamente un giovane conserva in ogni caso il diritto di cambiare idea almeno un paio di volte. Così auspichiamo, anche se nella peggiore delle ipotesi gli resterebbero altri nobili ambiti e generi, come la narrativa e la critica. Quest’ultima l’ha gran protagonista, stante la sua cultura, l’informazione, l’accanita lettura e lo studio disperatissimo che lo vedono ancora insonne (e fumatore) al termine della notte.

Il volume è sostanzioso, si può affermare di grande spessore in molti sensi, si pone subito come combattivo-consuntivo, assai insolito per un lucignolo trentenne. Un hapax nel panorama nazionale, ma anche un testo destinato ad essere esemplare, una personalità forse unica, e comunque emblematica rappresentante di tanti giovani ignorati o sfruttati. Ci si chiede come sia possibile che un talento come Franchi debba ancora leggere le inserzioni in cerca di un posto di lavoro, come sia possibile che le migliaia di editori non se lo contendano in duello.

L’inadempienza è assai complesso. Meriterebbe un ampio e approfondito studio per la serietà delle posizioni, per la bellezza delle soluzioni, per gli argomenti vari. La donna è cantata con particolare dolcezza, con rimpianto, con rimorsi. Delusione e stanchezza sono presenti. Ma pare di individuare sufficiente forza, sufficiente impegno per reagire all’insensatezza dell’esistenza: questo aspetto è fondamentale. Viene ribadito nell’ultima pagina, come risposta a muso duro al dio che chiede: “e adesso? / E adesso aspettati qualcosa / che non mi pento e non mi spengo”.

Tendo a concludere che la ricerca minuziosa e sadica di eventuali “difetti” (costellanti fittamente buona parte dei libri di poesia specie in ambito botanico-boschivo), qui risulti pressoché inutile. Franchi sa il fatto suo, ha versi di grande bellezza e soprattutto colpisce il loro contenuto. E non bisogna affatto sottovalutare il suo impegno anche sperimentalista, il postmoderno che prende le distanze dal bricolage postneoermetico (tuttora sublimato da tanti estatici versificatori casalinghi), la ricca contaminazione di testi in lingue altre con esiti di altissimo livello. L’inadempienza è corredato dalle note al testo di Marco Fressura e Patrick Karlsen, da una prefazione di Nicola Vacca, da una postfazione di Angela Migliore. Stefano Scalich pubblica in quarta di copertina una concisa bellissima prosa, certo derivante da una sua densa poesia, aspettando l’ultima battaglia dell’angelo e dell’assassino. Tutti sono precisi, sottili, scaltri, brillanti. Un tantino intimidiscono.

Non credo si possa ignorare nemmeno la copertina, anzi ci si deve soffermare a lungo prima di strappare la placenta-plastica. Da lontano: una macchia circolare che si confonde con un tao, metà bianca metà nera. Già questa coincidentia oppositorum scardina i principi basilari europei e accampa la complementarità della (non) contraddizione…

Campo bianco con volto iscrivibile in una circonferenza, ampia capigliatura a casco protettiva coprente, bocca sottile serrata che suggerisce sofferenza determinazione pertinacia. Gli occhi vanno guardati muovendo il volume, esaminandolo sotto varie angolature: fissità rabbia cattiveria, disagio pena ambigua angoscia melancolia enigma forza, poi delusione, stanchezza naufragio diserzione cessazione della richiesta, concentrazione prima dell’esplosione, volitiva mandibola parzialmente celata dall’elaborazione grafica. Secondo me una delle più efficaci copertine della stagione, che sarebbe non dico sufficiente, ma certo congrua e già utile a sintetizzare un’ideogrammatica sinottica del contenuto.

Potrebbe ricordare gli anni Sessanta? Risalire ai cinquanta del miglior esistenzialismo (cristiano/pagano), ovviamente non italico, di qualche avventuroso fuoruscito a Parigi fotografato su “Life”? E ancora più indietro, per le grandi tematiche… Un volume che se esposto di piatto non potrà essere ignorato da nessuno.

D 1: Fressura e Karlsen hanno splendidamente intitolato la loro acuta nota al testo: La silloge-sigillo. Un sigillo sumero estremo che non deve essere manomesso, a garantire un’opera nello stesso tempo definitiva e vivace. Conclusiva. Negli ultimi mesi ho ricevuto libri (e confidenze) da parte di tre noti poeti ultraottantenni, dichiaranti: questo è il mio ultimo libro. Certo da un trentenne non ci si aspetterebbe una decisione altrettanto drastica: come scrittore di poesie morire, fornire vasta produzione come se si trattasse di una summa non più protesica, della propria opera omnia poetica, in un volume di 262 pagine, insolito per un ragazzo che ha l’energia, la cultura, la “bellezza” numquam inutilis. Lo definiscono un atto postumo compiuto in vita. Non è poco.

R1: Caro professor, intanto ti ringrazio per la lettura e per la condivisione delle tue impressioni e dei tuoi generosi giudizi. La verità è che davvero ho la sensazione di aver concluso il mio sentiero di ricerca, in poesia: da autore, e molto probabilmente da lettore. Per molti anni, da quando ero piccolissimo sino al 2004, 2005, ho concentrato la mia attività nella ricerca, nello studio e infine, maturando, nella sperimentazione di scrittura in versi. Una serie di esperienze e di eventi – sentimentali, professionali, estetici, editoriali – hanno accelerato la conclusione del sentiero. È già passato qualche anno, e non è successo niente. Niente di rilevante. Posso scrivere di qualunque cosa, e scrivo qualunque cosa, per lavoro, ma non scrivo versi. Soltanto, ecco, faticosamente ho scritto della poesia di altri, ma è capitato così di rado… La ragione è che in poesia ho già detto tutto, e che mi sto ripetendo: anche come (barbaro) critico. Marino Moretti ha ripreso a scrivere versi dopo cinquant’anni di intervallo: io non ne ho così tanti di fronte a me. Crepo molto prima, sicuramente a ottanta non arrivo, e neanche a settanta, per dire. Vedi, dovrebbe essere andata, e va bene così. Spero di aver lasciato qualcosa di degno. Male che vada, rimarrà un libro degno per amici nostalgici e per filologi in cerca di cicatrici di letteratura e rock del Novecento in poesia, o di qualche strano amalgama linguistico di un nipote di esuli istriani e giuliani, sanguemisto romano. Punto. “L’inadempienza” è adempiuta. E mi sento realizzato. È un punto a capo. Sto bene e mi sta bene.

D 2: I carsici Slataper, Kosovel, il maestro della Secession Schiele, oltre al solito Campana, a Gozzano, sono i tuoi ispiratori… alimentano il tuo “fuoco inestinguibile”, per combattere, procrastinare fino all’ultimo la resa. Dilazione? Ambito della Metonimia?

R2: Slataper vive nella mia anima da quando, studiando il Flora, ho scoperto, ragazzino, “Il mio Carso”. Se io fossi la reincarnazione di qualcuno, vorrei essere la sua. Simbolicamente a Roma, ma nato a Trieste: sognando un ritorno forse impossibile a casa, per fare grandi e belle cose nella terra dei miei antenati.

Kosovel l’ho letto grazie a Patrick Karlsen. Ha sprazzi di grande sensibilità e talento, ma politicamente sospetto sia la mia antitesi; d’altra parte è morto troppo giovane per prendere atto di cosa fosse il comunismo. E del male che avrebbe fatto al mondo. Mi piace quando parla dell’anima, della notte e della morte. Mi piace per la musicalità e il suono, e per le ripetizioni lessicali.

Schiele l’ho scoperto per i disegni di Angelo Stano, sui vecchi Dylan Dog, per una vecchia mostra (con Kokoshka e Klimt) ammirata a Trieste e a Roma, e per un libretto di ES. Ah, e uno dell’Espresso. Donne così magre e sensuali… per me è un miracolo. Amo la carne, ma non se penso ai suoi ritratti. E poi era espressionista, e poi è morto giovane e stupidamente.

Campana l’ho letto perché – come Celan – un letterato importante mi disse che sembravo un suo epigono. In verità, a 20 anni, non avevo letto né lui né Celan. Assomigliavo per ragioni diverse a entrambi ma non conoscevo nessuno dei due. Li ho letti: ho adorato Campana (anche grazie a “La notte della cometa” di Vassalli, e all’edizione TEA dei versi di Campana) e frainteso Celan. Forse ero già troppo al di là. A Dino Campana devo ricordi molto cari, e me li tengo fino alla morte.

Gozzano non ricordo… sì. Mi chiese di scriverne una lettrice, anni fa. Ho letto e ho scritto. Ma gli preferisco Corazzini, non solo perché era romano.

Sai chi era proprio mio? John Keats. Palazzeschi. Karlsen, ché siamo cresciuti assieme. Più Catullo e Orazio che Caproni e Sanguineti. Ero un autore un po’ strano. Agli yankee preferivo Rutilio Namaziano. Quanto al combattimento… continua. Ma in altro ambito. Narrativo, critico, editoriale. Là devo ancora dare e dire qualcosa. Lo so, me lo sento, me ne accorgo. In poesia cedo il mio laterale e barbaro testimone ai giovani letterati nati negli anni Novanta: vixi, et quem dederat cursum fortunae peregi. Va bene così. Finito.

D 3: Franchi è un guerriero implacabile, un restless. Le sue parole sono soprattutto pietre, armi “per pugnalare il proprio tempo”, ma anche prodigioso strumento di comunicazione, tuffo nel naufragio della contemporaneità, assai più drammatico di quelli virtuali sereno-variabili ungarettiani. La disperazione nasce dalla ferocia del nostro tempo che, come sostiene Vacca “non fa segreto di non amare più la bellezza”. La Waste Land che una volta era una brughiera quasi percorribile, una Palus Putredinis da griffati estremi escursionisti della domenica, ora è divenuta davvero un Inferno non praticabile?

R3: La scrittura consapevole è sempre una conferma della propria condanna all’incomprensione, alla povertà e al fraintendimento. Non è mai esistita una società per i letterati e non credo che potrà mai esistere. Ma è anche per questo che chi è stato o è come me vuole combattere. Siamo la razza più disprezzata della storia, noi letterati, eppure siamo i più necessari di tutti per la politica, la spiritualità e l’identità dei popoli. Ne daremo sempre prova, fino all’estinzione impossibile del ghenos nostro. Nella wasteland vivo con dignità, e mi diverto a dare un nome a ogni cosa. Se il mio tempo non ama la bellezza, io restituirò bellezza al mio tempo. Va bene così.

D 4: “Siamo davanti a un meraviglioso alfabeto di emozioni e sensazioni che vogliono catalogare il disordine. La cosa più importante per un poeta è dare sempre un senso alle parole che pronunciamo” (Nicola Vacca). Queste affermazioni ti collocano in una luce testuale che rende secondo me superflua un’eventuale ricerca di difetti linguistici. Qui la “bellezza” è sinapsi di forti contenuti, polemici sempre, ma nello stesso tempo ipnotici, nel grande desiderio, dilazionato all’infinito, di piccole oasi di calma cercata anche attraverso la lussureggiante latitanza della diserzione. Che parte ha la donna in tutto questo?

R4: Grazie, intanto, a te e a Nicola. Siete molto cari. La donna… per me è molto difficile rispondere con onestà e veridicità, perché nella mia mente esistono figure molto distanti tra loro. Non ho avuto una madre “classica” né nonne “classiche” né sono sposato, per ora, né ho figlie. Magari tra dieci anni ne parlo meglio, delle donne. Magari. Ho avuto tante storie e pochi amori veri. Ero uno che sognava di appartenere a una e una donna soltanto, m’è andata molto male. Ma le uniche notti di quiete le devo alle poche donne che ho amato. Vedi, per dire… Adesso amo una e non posso dire chi è: è abbastanza romantico ma anche deprimente e svuotante. Mi fa sentire stupido, eppure appartengo a lei. Ma va bene così: questo è il mio destino. Sono io. L’ho voluto io.

D 5: Pag 142: Ade, viaggio al termine della mia notte, uno dei vertici programmatici della silloge, il cavaliere templare, (il comes confluirà in Lancillotto?) qui canta con “apocalittica” serietà. Non è difficile intuire la scansione biblica del salmo (io sono il profeta primo del Dio nuovo) che, come unica incoerenza, cita il Codice di Perelà. L’ironia è lontana. Il capitano Franchi partecipa di un esercito senza tempo, con regole assai precise. Ma la “parola libera” lo rende naufrago e davvero “disertore”?

R5: Sì, il comes è Lancillotto. E Perelà è una figura messianica, ma letteraria. Per quello appariva in quel contesto neo-biblico: perché come qualcuno insegna stiamo cercando le parole di un nuovo testo sacro, altrimenti serviamo a poco (ed esistiamo per cosa?). In quel caso forse serviamo solo all’industria del libro, che invece deve sostenerci e dobbiamo sostenere per la causa nostra: la Letteratura, il Logos. Quella è la causa. La difesa del linguaggio, e la ricerca dell’evoluzione del linguaggio. L’arte è questo: linguaggio antico e nuovo. Deriva da Dio, a Dio ci restituirà. Non siamo elettroni e non siamo macchine. Siamo anima ospite d’un vestito stupido: una carcassa. Spetta ai letterati – ai letterati di formazione e professione, ai letterati consapevoli – restituire Dio, bellezza e spirito ai cittadini. L’anima ce l’hanno già. La Chiesa e lo Stato non gliela potranno mai rubare. E un giorno finiranno di esistere, Chiesa e Stato, come sono già finiti. È nelle cose.

Quanto a me, scendendo rasoterra… Sono naufragato nel 1980 dal futuro borghese, e ho disertato definitivamente nel 1997. Tra 4 mesi sarà il 2009, di strada ne abbiamo fatta. La meta è utopia, altro non ha senso. Nel mezzo, beviamoci qualche buon bicchiere. Va bene così.

D 6: Resistere, resistere, nel nome di utopia. Questo è il verso della grande contraddizione, che nella noia, nel degrado, nell’inutile decorso dei giorni, diventa imperativo.

R6: Utopia attende. Torniamo a scriverne. Inventiamone una nuova. Non è più il tempo della distopia. Abbiamo profetizzato, come letterati del Novecento, il potere totalitario dello Stato e la dissoluzione dei regimi; adesso manca l’apocalisse che tanti hanno descritto, in musica e in letteratura. Aspettiamola, e intanto dedichiamoci al sogno della civiltà futura, combattendo per plasmarla giorno dopo giorno. Platone e Tommaso Moro sono padri antichi: servono padri moderni. A loro andrà la nostra riconoscenza.

D 7: Tu descrivi il dissidio di uno spirito dilaniato dalla sofferenza, disgustato dall’impotenza, accecato dall’ingiustizia, accasciato dalla percezione della propria imperfezione, mortificato dall’impossibilità di vedersi riconosciuto un senso, eppure ancora capace di aspettare (Angela Migliore). Commenta per noi queste efficacissime parole-pietre.

R7: Ho sofferto, come tutti, per problemi famigliari, sentimentali, personali, economici, di salute. I miei non saranno, ovviamente, così diversi da quelli di tutti voi. Ma soffrendo ricordavo quanto amore avevo avuto in famiglia, e nelle relazioni sentimentali: quanti piccoli successi m’ero costruito, e quante piccole cose mi appartenevano ancora. Nel male ho sempre individuato benzina per il bene: energia da trasformare. E nel male non ho mai dimenticato il bene: la fonte di entrambi era la stessa. Non esiste il male assoluto, sulla Terra. Esiste un bene minore e un male maggiore, al limite. Ma non sono mai disgiunti. Quanto al resto, l’impotenza è un bel guaio. L’ingiustizia ti fa impazzire. I fallimenti ti sgretolano. Ma in tutti e tre i casi si deve combattere: finché siamo vivi possiamo cambiare, ogni giorno, ogni momento, qualcosa: qualcuno.

Domani non esiste: questa è l’impermanenza. Se solo il presente esiste, tutto può mutare. Basta non consegnarsi allo sconforto, e al male. Nessun dolore è invincibile, soltanto è diversamente orrendo, volta per volta. Ma se lo domini, ti diventa amico; diventa la sorgente del tuo futuro. D’ogni tua futura azione. Il dolore è una batteria.

D 8: La pagina 136 merita una lunga riflessione.

Io sento che ciò che cerco non esiste”.

Qui si sfiora un punto obiettivamente assai profondo che la dice lunga sulla condizione umana del poeta, dell’intellettuale in genere, condannato all’inutilità, alla menzogna, alla Finzione del Tutto. Qui canti per tutti noi.

R8: Grazie, Luciano. È una cosa che sognavo. Ti dico di cosa parlavo scrivendo quei versi. Niente di personale: “Colui che cercate non è qui (…) venite a vedere il luogo dove era deposto”. Ciò che cerco è il 42 di Douglas Adams: è il senso di tutto questo. Dio. Il linguaggio deve restituircelo.

Eterno, e perfetto.

Ti saluto, e ti ringrazio.

Sposo son dunque della luce perfetta

pallido fragile archetipo

i colori del passato trionfano

nell’architettura visionaria del futuro

cedo alla voce, mi offro al martirio

sii tu mia moglie, madre e dea,

verità unica, letteratura.

(G. FRANCHI, Sposo son io della luce perfetta)

Gianfranco Franchi, “L’inadempienza”, Edizioni Il Foglio, Piombino 2008. Pag. 265. Prefazioni di Marco Fressura e Patrick Karlsen (I) e Nicola Vacca (II). Postfazione di Angela Migliore. Quarta di Stefano Scalich. Illustrazioni di Maurizio Ceccato.

Impaginazione e grafica di Marco Fressura. Collana Autori Contemporanei Poesia. Direttore Fabrizio Manini. ISBN 978-88-7606-181-3. Disponibile dal 20 settembre 2008.