L'unica foto in maglia alabardata

Ci sono due strade per raccontare Nicolò Giraldi, giornalista e scrittore triestino classe 1984, di sangue orgogliosamente istriano. Artisticamente: Giraldi ha esordito con “La Grande Guerra a piedi” [2015], un cammino di memorie belliche londinese-triestino; nelle ultime settimane, ha pubblicato per la Ediciclo “Nel vuoto. Il cammino dei dimenticati”, terza uscita della notevole “Biblioteca del viandante” diretta da Luigi Nacci, viaggio tra Carnia, Friuli e Istria. En passant, un master nella London School of Journalism e ovvie collaborazioni di buon livello, dal “Piccolo” alla “Voce del Popolo” di Fiume.

Calcisticamente: regista nella Primavera del Como di Preziosi, allenato dal ruvido Roberto Galia, promessa nei ramarri del Pordenone nella C2 del 2003, una presenza in Nazionale Dilettanti, Nicolò Giraldi ha lasciato buoni ricordi a Monfalcone [sette stagioni in Eccellenza] e a San Vito al Tagliamento [Serie D]. Tifa Unione e – da buon triestino, erede della tradizione di Nereo Rocco e di Cesare Mladić, alias Cesarone Maldini – simpatizza per il Milan. Questo è il Caffè Sport. Qui gli scrittori parlano soltanto di calcio.

Classe 1984: eri bambino quando è stato abbandonato il mitico stadio Grezar ed è stato inaugurato un gioiellino, lo stadio Rocco: 1992, quanti sogni. Dove hai esordito, da spettatore, al Grezar o al Rocco? In che settore? Con chi eri, e che stagione era?

L’esordio da tifoso è stato al Grezar. Ero molto giovane, avevo sette-otto anni e la partita ricordo era un Triestina-Spal, serie C1, 1 a 0 per i ferraresi gol di Mezzini (che poi venne a Trieste) e scontri tra tifoserie anche per il fatto che dall’Emilia erano arrivati in quasi duemila. Ero in tribuna perché mio nonno Umberto faceva l’autista della prima squadra e aveva procurato gli accrediti per il sottoscritto, mio fratello e mio padre.

Quali sono stati i tre calciatori dell’Unione nei quali ti sei più identificato, nel corso del tempo? In che ruolo giocavano, e cosa avevano di Nicolò?

Anche se non l’ho visto giocare dal vivo sicuramente Tiziano Ascagni, poi direi Antonio Criniti e in ultimo Nicola Zanini. Erano tutti e tre delle mezzepunte (anche se il trequartista puro, inteso come giocatore che fa segnare gli altri, penso fosse solamente Zanini). Di mio diciamo che avevano l’altruismo e credo la gioia di mettere i compagni di squadra nelle situazioni di poter essere pericolosi sotto porta. Totò Criniti è quello che forse ho amato di più.

2002: Ciullo gonfia la rete a Lucca, 3-3: si torna in B, dopo dodici anni di purgatorio. Dov’eri? Come ti sei sentito? Come hai festeggiato? Per quanto tempo?

Ricordo molto bene quel giorno. Ero allo stadio Rocco perché la società e il Comune avevano allestito un megaschermo proprio per permettere la visione della partita a tutte le persone che erano rimaste a Trieste. È stata una giornata meravigliosa, e calcisticamente molto emozionante, con ribaltamenti continui e con un finale quasi inaspettato. Ero con amici e una volta finiti i 120 minuti ci siamo diretti verso il centro cittadino dove abbiamo continuato a festeggiare tra i caroselli festanti. Diciamo che sono rientrato a casa molto tardi quella sera…

Come hai vissuto questi ultimi anni davvero difficili – fallimenti, ripescaggi, disastri sportivi – della nostra vecchia Unione? Ti sei disamorato o hai continuato a tifare, e magari ad andare allo stadio, ogni tanto?

Ogni anno riesco ad andare allo stadio almeno quattro, cinque volte. “La Triestina è l’amore, che mai scorderemo” è l’inizio di una canzone che viene “sparata” dagli altoparlanti prima di ogni partita e credo sia il manifesto del tifoso dell’Unione e quindi sintetizza molto bene anche il mio rapporto con i “greghi”. Sinceramente il periodo dei vari Tonellotto e altri credo sia stato come toccare il fondo. Ho vissuto quelle stagioni come credo ogni triestino, vale a dire preso in giro da presidenze e società che pensavano solamente a promettere un futuro radioso e poi le vicende li portavano alla sbarra, in aule di tribunali o si leggeva di fughe misteriose all’estero.

Cosa significa, per un triestino, tenere per il Milan? Quanto gioca la gloriosa tradizione di Rocco, di Maldini senior e di Ciccio Romano?

Il Milan a Trieste vuol dire la Trattoria da Suban dove Rocco portava spesso la squadra a mangiare, significa il Milan Club in piazza Ospedale, la gloriosa macelleria della famiglia Rocco, il San Giovanni (dove ho mosso i primi passi calcistici) che veste le maglie degli stessi colori del Milan. Il Milan è credo la seconda squadra a Trieste proprio in virtù della tradizione, dei Maldini e dei Rocco. Ciccio Romano credo venga ricordato a Trieste più per il suo passaggio al Napoli del primo scudetto che per i suoi anni a Milano. Tra le altre cose Ciccio Romano fu portato a Napoli da Ottavio Bianchi che era stato allenatore a Trieste nei primi anni Ottanta. Le storie degli uomini passano spesso per la nostra città…

Giocavi nella Primavera del Como quando i lariani stavano in Serie A, con gente come Ferron, come il giovane re Denis Godeas, come Daniel Fonseca: quanto è mancato al tuo esordio? Cosa ricordi di quel periodo? In prima squadra c’era anche Alex Brunner…

Non credo che fosse mai stato preventivato un mio esordio, c’erano giocatori molto più forti del sottoscritto. Di quel periodo ricordo un palo contro il Torino (fosse entrata, forse, sarebbe cambiata un po’ la stagione, dal punto di vista personale), le scampagnate a Milano, il pulmino che ci portava a Erba dove esisteva (e credo esista ancora) il centro sportivo del Como. Ricordo Nicoletti, un portiere molto più vecchio di noi che si allenava perché non aveva squadra, ricordo con piacere Alex Della Cristina, un ragazzo di Sondrio, che era arrivato assieme a Padelli (sì, il portiere) a causa del fallimento del Lecco, poi Parolo con cui abbiamo giocato spesso in mezzo al campo assieme (e che all’epoca non brillava o emergeva sugli altri per talento o doti particolari). Ricordo i pranzi e le cene in una trattoria dove mangiavamo ogni giorno, poi la stazione dei treni, le gite nel cantone svizzero italiano a Chiasso e Lugano, la pioggia continua, la bicicletta che mi era stata regalata da Vittorio Ceriani, il massaggiatore con cui ero in contatto fino a qualche tempo fa (casualità ha voluto che scrivessi un reportage per “L’Ordine”, l’inserto de “La Provincia”, il giornale di Como, e parlando con Pietro Berra ho scoperto che il fratello di Vittorio fa il giornalista e vicino di scrivania di Pietro). In ultimo possiedo nella mia testa ancora le immagini del lungolago, i miei genitori che in giornata erano venuti fino a Como (il periodo dal punto di vista economico non era semplice) e in un parco seduti a mangiare un panino che mia madre aveva portato da casa; le telefonate a casa, la morosa dell’epoca, il mio continuo scrivere in mezzo a comportamenti e atteggiamenti che sono tipici del mondo del calcio, riflessioni pressoché perpetue, il non sentirmi parte di quella dimensione, tentare in tutto e per tutto di essere diverso dagli altri, il mio sentirmi uomo di sinistra in mezzo a continue rappresentazioni di elementi di un certo fascismo, o di berlusconiane simpatie. Ricordo l’unico voto decente a scuola (dove purtroppo non riuscivo ad andare così tanto proprio per l’impegno calcistico) quando ricevetti un 8 per un tema storico. Poi il faro di Brunate, Héctor Cúper che passeggia per il lungolago, la foresteria del Don Guanella dove avrei dovuto stare ma poi invece fui spostato in una casa che stava, guarda caso, in via Fratelli Rosselli (quasi un cortocircuito del mio intrecciare la Storia e la passione politica).

Quanto brucia non aver mai giocato per l’Unione? Sette stagioni a Monfalcone sono parecchie, e in quel periodo c’era un gran bisogno di una mezzala come te, al Rocco… c’è stata possibilità, almeno una trattativa?

Devo ammetterlo, un po’ brucia. Però è anche vero che gli anni a Monfalcone sono stati i più belli e i più intensi, dal punto di vista calcistico. Non c’è mai stata una trattativa, e poi in quell’anno in Eccellenza sembrava che chiunque potesse andare ad offrirsi alla Triestina, era una specie di porto di mare dove passavano tutti i giocatori conosciuti, procuratori di ogni specie, le mafie locali, gli amici degli amici, parenti e giocatori, sbandieramenti di quanto fosse bello poter indossare quella maglia, e molto altro. Questo lo dico probabilmente per invidia e perché sì, in effetti brucia ancora… Poi a Monfalcone, in realtà, ho avuto il piacere di giocare assieme a Birtig e Gubellini, in una squadra allenata dal grandissimo Massimo Pavanel (oggi allenatore dell’Arezzo in serie C) quindi diciamo che in quell’anno è come se un pezzo di Unione fosse arrivato nella città dei cantieri.

Come stai vivendo la Triestina dei “muli” Biasin e Milanese, e questa stagione in C? Hai la sensazione che si possa ricominciare a sognare? O ci stiamo di nuovo illudendo?

Io credo sia legittimo sognare e penso stiano facendo un ottimo lavoro. L’annata è basata su una salvezza tranquilla, ricordiamocelo. Poi tutto ciò che viene in aggiunta credo vada benissimo. Chiedo solo a Biasin (che è la persona che ha investito molti soldi) di non scappare come hanno fatto altri presidenti prima di lui. Ha la possibilità di essere ricordato negli anni (menzione di cui si è fregiato solo il povero e compianto Amilcare Berti e prima il presidentissimo De Riù) e penso possa essere per lui un grande onore.

Hai mai avuto la sensazione, da giocatore, che ci fossero partite truccate, o almeno “acchittate”? C’è stato qualche evento che ha sporcato la lealtà sportiva? Oppure, almeno a livello di Lega Nazionale Dilettanti, abbiamo ancora un’isola di pace?

Sicuro. Le partite si truccavano allora e si continuano a truccare oggi, anche a livello professionistico. Molti compagni di squadra durante gli anni mi hanno raccontato le loro esperienze dirette e ciò che accadeva in ambienti di categoria superiore. So di una partita dei quarti di finale della Coppa Italia di Eccellenza dei primi anni 2000, dove in spogliatoio a Monfalcone è comparsa una valigetta con circa 2 milioni di lire, proveniente da una società campana che l’avrebbe consegnata solo se la squadra bisiaca avesse battuto i diretti avversari (per un meccanismo perverso i campani erano gli unici ancora in corsa per il campionato mentre gli altri no, di conseguenza dovevano puntare tutto sulla Coppa per accedere alla serie D). Ricordo un Itala San Marco–Sanvitese in serie D qualche anno più tardi dove i vecchi della squadra dicevano che avevamo il pareggio assicurato (era l’ultima giornata e ci serviva un punto per andare ai play-out). So che i premi dei migliori 11 dell’Eccellenza venivano barattati davanti a qualche birra con il giornalista locale, so di procuratori o presunti tali che a Trieste (spesso non hanno neanche conseguito un diploma) hanno proposto giocatori, chiedendo percentuali, spacciando onestà e competenze inesistenti, firmando accordi senza un minimo di legalità. So come funzionano i rimborsi spese (o stipendi) nella serie D: solitamente vengono dichiarati solamente i 7500 euro (come tetto massimo) e tutto il resto viene consegnato in buste piene di contanti. Ci sono società che probabilmente riciclano denaro sporco proveniente dall’estero, soldi in nero (questo accade anche nel professionismo, visto che me l’ha raccontato una persona che da anni vive quel mondo) che vengono consegnati dopo grandi incassi e molto altro. D’altronde leggendo il libro “La difesa dell’italianità – Ufficio Zone di Confine” a cura del giornalista e storico triestino Diego D’Amelio si capisce chiaramente che anche il secondo posto della Triestina del 1948 è frutto di una serie di ammanicamenti, strategie politiche, e più di qualche valigia colma di dollari. So che non sembra un quadro rassicurante ma credo che gli unici elementi di autenticità nel mondo dei dilettanti siano la passione degli uomini e la pazienza (o forse santità, chi lo sa) delle mogli.

Torniamo sugli spalti. Conservi qualche feticcio, a casa, dei tuoi anni da tifoso? Vecchie bandiere, vecchi cuscini, vecchie sciarpe, striscioni…

Chiaramente, come potrei non conservarli! Al di là dell’entusiasmo, chi fa tutto questo è mio padre che rappresenta la vera e unica ragione per cui sono anch’io malato di calcio. Lui ha conservato le coppe, i premi, i gagliardetti delle squadre dove ho giocato e quelli delle squadre avversarie, ci sono palloni con le firme, fotografie, un piccolo modellino di pullman della Triestina (un po’ come quello che guidava mio nonno). La cosa che conservo gelosamente e che ho anche indossato una volta allo stadio, è una vecchia giacca della tuta di mio nonno della Triestina della fine degli anni Settanta, gli anni dello spareggio contro il Parma a Vicenza. Un feticcio da museo, veramente.

Chiudi gli occhi, facciamo un sogno. La Triestina è tornata in Serie A. Che succede in città? E in Friul?

Credo che la gente impazzirebbe di gioia. Qualcuno si ubriacherebbe, vedo gente fare il bagno davanti a piazza Unità (visto che di solito le promozioni coincidono con la stagione tarda primavera e inizio estate), tuffarsi in Ponterosso, le sciarpe dell’Unione attorno a Saba, Svevo e Joyce, il sindaco Dipiazza a festeggiare in curva con i tifosi (gentile concessione solo per questo, eh) e giorni e giorni di gioia incontenibile. Vorrei poter vestire i panni del bambino nato quel giorno, esattamente in quell’istante, oppure dell’adolescente che si sente invincibile e dell’anziano signore che le ha viste tutte e che aspetta quel momento dal lontano 1957-1958, l’ultima stagione nella massima serie della mia cara e vecchia Unione.

Gianfranco Franchi, aprile 2018.

Prima pubblicazione: Mangialibri, “Caffè Sport.

Per approfondire: Giraldi in Porto Franco.

Manzanese serie D (con Federico Maracchi al centro, oggi a Novara in serie B)

Giornalisti Trieste