La storia dell’impressionismo

La storia dell'impressionismo Book Cover La storia dell'impressionismo
John Rewald
Mondadori
1991
9788804343653

Questo saggio monumentale di John Rewald apparve per la prima volta nel 1946, pubblicato dal Museum of Modern Art di New York; l'edizione oggi disponibile è basata sulla quarta edizione riveduta, risalente al 1973. Strutturata in quindici capitoli, fedelmente vincolati a scansioni cronologiche (dal 1855-59 sino al 1886, agli albori del postimpressionismo), è corredata da un'imponente bibliografia ragionata e dalla non sporadica apparizione di nuove fonti e nuove documentazioni. Credo che, al di là degli ovvi elogi per aver dato definitiva e organica sistemazione alla più ampia parte delle vicende dell’avanguardia impressionista, questo saggio meriti di essere ricordato per un aspetto essenziale: lo stile. Il miracolo, per così dire, è che non solo l’erudizione dell'autore è mirabile, ma che addirittura l’esposizione dei fatti è talmente fluida e piacevole da ricordare da vicino le più felici esperienze narrative del nostro secolo. Non esito dunque a definire “narrativa critica” la particolare combinazione stilistica di John Rewald.

L’ulteriore elemento sorprendente è l’innegabile percezione di una partecipazione e un’aderenza all’argomento e al movimento tale, che si stenta a credere che sia un testo rimaneggiato solo trenta anni fa: la sensazione che rimane impressa a fuoco nel lettore è quella che Rewald sia vissuto a Montmartre, che abbia discusso nel caffè Guerbois e nel Nouvelle-Athènes, che abbia assistito alla prima mostra impressionista dal fotografo Nadar, in boulevard des Capucines, nel 1874; che abbia contribuito a sostenere Monet nei momenti di peggior difficoltà economica, che abbia infine rivestito il ruolo di Choquet – l'entusiasta difensore dell’arte nuova di un movimento d’artisti d’avanguardia, antiaccademici e rivoluzionari (d’accordo, escludiamo il reazionario Degas e il dandy altoborghese Manet).

Da questa prima parte dell’argomentazione si può facilmente concludere che il saggio accontenta i puristi ed entusiasma i neofiti; quanti dunque abbiano una predilezione o una predisposizione per gli impressionisti terminino pure qui la lettura e volino alla più vicina libreria per assicurarsi una copia del prezioso vangelo impressionista di Rewald. Quanti invece ancora non abbiano chiaro in mente il significato e il senso di un movimento d'avanguardia nella Francia di Napoleone III e della breve folgorante esperienza della Comune mi seguano.

L’aspetto più meraviglioso di questo libro è che tutti i personaggi presenti sembrano essere risorti; è un testo di una vitalità unica, capace di approfonditi scavi ideologici e psicologici, lineare e profondo e completo. Si ha la tentazione di scegliere uno dei pittori del gruppo per affinità elettiva, o per analogie biografiche, e di seguirlo sino al termine della sua parabola esistenziale, osannandolo o disperandosi per la sua sorte, esaltandosi per le prime timide affermazioni, imprecando per l'incapacità dei critici e della società del tempo di comprendere a fondo l'essenziale importanza di un movimento artistico di rottura. Gli impressionisti sono stati il primo movimento antiaccademico ad operare con rabbia e compattezza in gruppo: sono i padri di tutte le avanguardie contemporanee, che in ogni genere artistico si sono ripetute a cadenza irregolare e con obiettivi spesso simili ai padri fondatori; soprattutto, gli impressionisti rappresentano il coraggio e l’ostinazione dell’artista di talento, innovativo e incompreso dal suo tempo. Gli scherni e le derisioni che raccolsero i nostri furono numerosi e taglienti; lo stesso nome del movimento nasce da una ingenerosa critica, sardonica e pungente, pubblicata da un miope bacchettone in seguito alla prima mostra. A pochi pittori del gruppo il successo sorrise in vita: molti di loro, come Sisley, conobbero la gloria post mortem, altri corruppero la loro ricerca come Renoir in onore a quegli stilemi e a quei dettami accademici tanto avversati in precedenza; l’aspetto che mi pare più emblematico è che in questo gruppo di pittori si assista a parabole esistenziali che paiono magicamente riflettere tutte le opportunità possibili – avremo l’integralista Pissarro, idealista e rivoluzionario socialista, unico ad esporre in tutte le otto mostre; il raffinato e distaccato Manet, vicino al gruppo ma mai presente nelle mostre; il dissociato Cézanne, lucido nell’avventurarsi in una ricerca pittorica che genererà il cubismo; il gelido reazionario italofrancese Degas, aristocratico antisemita ma incredibilmente talentuoso e provocatorio, con le sue figure femminili segrete e inviolate, con i suoi cavalli da corsa nella luce del mattino. Potrei procedere oltre; ma è il caso di soffermarsi sui personaggi “minori”; alludo, considerando che si tratta di un saggio su un gruppo di pittori, al clan di scrittori e critici loro contemporanei. Minori dunque tra virgolette; perché osserverete nominati mostri sacri come Baudelaire e Mallarmé, narratori sopravvalutati come il duplice e rinnegato Zola, artisti di secondo livello come l’albionide Dante Gabriel Rossetti.

Baudelaire intuì la grandezza e le prospettive di Manet; Mallarmé collaborò direttamente col movimento; Zola, fraterno amico d'infanzia di Cézanne, nel 1890 tradì il gruppo pubblicando un romanzo, “L’Opera”, in cui il protagonista era uno strano ibrido di Monet e Cézanne; nel romanzo viene narrata l’ostilità e l’ilarità destata nel pubblico dalle prime mostre impressioniste, e prima ancora dai Salon des Refusés; viene impietosamente descritta la povertà e l’isolamento di un pittore, che tra stenti e miserie persegue il suo sogno artistico; vengono arbitrariamente inserite vicende biografiche degli amici di Zola.

Zola dunque solo inizialmente sostenne il movimento; una volta entrato nel gotha degli scrittori affermati, non esitò a liberarsi dell’antica zavorra. Tra i minori “veri” presenti nel testo, oserei dire che ci sono dei “minorati”; non preannuncio null’altro, limitandomi ad assicurare che per convincervi della bontà della definizione basterà leggere quali veleni assurdi e ingiustificati certi critici abbiano iniettato nel pubblico di allora contro questi giovani squattrinati idealisti; a far da giusto contraltare, personaggi come il fotografo Nadar e Père Tanguy e Choquet, appassionati e coraggiosi difensori del movimento.
Il senso vero della lotta degli impressionisti è quello di ricercare una pittura che superi e travalichi i soffocanti canoni contemporanei. Non si tratta solo di osteggiare e superare il neoclassicismo; si tratta di assorbire e superare le lezioni romantiche, di un Delacroix o di un Gericault, e di raffinare le geniali intuizioni di Courbet e Daubigny. Monet si ispirerà proprio a Daubigny per la tecnica pittorica en plein air; e si farà costruire un battello dall'amico ingegnere e pittore Caillebotte, che fungerà da studio.

Bando dunque, progressivamente, alla pittura d’atelier; la ricerca nasce all’aperto, en plein air, per sondare i colori e gli effetti della luce; importanti gli studi sul colore, considerando le teorie di Chevreul e le prime applicazioni di Seurat che tanto affascinarono Pissarro. Impressioni dunque: colore, e non più disegno. Sensazione immediata, di impatto; e differenza di luce nelle varie ore di una giornata, secondo gli insegnamenti dell'inglese Constable – il pittore delle nuvole.

Non solo: gli impressionisti vogliono superare le antiche distinzioni gerarchiche sulla pittura di genere, che volevano il paesaggio come un’arte minore e la pittura storica come capolavoro assoluto; e dunque bando alle imbolsite e artefatte tele contemporanee osannate nei salon, ricerca della luce e delle sensazioni nei paesaggi, nelle marine, dalle già amate foreste di Fontainebleau sino ad Argenteuil, le Havre, e ancora avanti sino alla ricerca della naturale espressione e posa di un personaggio, alla libertà di dipingere un nudo femminile senza dover assicurare che sia una Venere o una semidivinità classica; avanti, sino alla libertà di giocare con gli effetti della luce a discapito del disegno. Avanti, in una società reazionaria e assopita, con la rivoluzione degli artisti di Montmartre, liberi indipendenti e anonimi sin dall'inizio; affratellati dai sogni e dalla miseria, isolati e trascurati, e al termine di tutto – al termine di quella notte che pareva non conoscere fine – apprezzati e idolatrati.

Un saggio che è rievocazione di un’epoca, ma ancor più monito e insegnamento e rafforzamento delle convinzioni e delle utopie; uno spaccato di sentimenti e sensazioni umane, di gloria, fallimento e miseria, di amori segreti e amori liberi e amori perduti; di incomprensione, incomunicabilità e divina empatia; un saggio che illumina ed entusiasma e crea, finalmente, impressioni di sogno.

EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE.
Gustav, detto John, Rewald (Berlino, Germania, 1912 – New York, 1994). Studiò tra Amburgo e Francoforte. Insegnò Storia dell’Arte a Princeton, a Chicago e presso la City University di New York. Esperto di pittura francese, ha scritto libri su Cézanne, Seurat, Bonnard.

John Rewald, “La storia dell’impressionismo”, Mondadori, Milano, 1976. Traduzione di Margherita Leardi. L’edizione dispone di una completa bibliografia e di un essenziale indice analitico.

Prima edizione: “The History of Impressionism”, New York, 1946.

Gianfranco Franchi, febbraio 2002.
Prima pubblicazione: ciao.com. A ruota, lankelot.