Diario di bordo della rosa

Diario di bordo della rosa Book Cover Diario di bordo della rosa
Flavio Santi
peQuod
1999
9788887418156

“Il paese era un'esistenza agra da affrontare: i campi di patate pustolosi, tra il rubecchio di fuoco fatuo, scorbutico e scornato e un verde vaiolo, folti come un campo di spade seminate, vibranti alla tosse dell'aria, o gli alberi di noce come candele piantate in tante file, pieni e lunghi, a ceppo duro e mordente, definitivamente insediati tra le felci; la chiesa di pietra grigio tozzo, cavallino, bassotta e la campana slargata come una donna partoriente, che segnava le domeniche identiche alle prediche del parroco; la gente con i volti usurati, quasi che gli zigomi si deteriorassero tanto gli occhi altrui se li mangiano. Occhi di spine. Ma tutto questo creava la possibilità di un'intimità mascagna, e in gattabuia alla legge, quando oramai, piena, possedevate la certezza di esservi fatti tra un taglio del vino rosso emorragia, una brocca del tocai e una partita a tressette un calco di gesso da sovrapporre alla nudità della vostra natura. Comodo” [Santi, “Diario di bordo della rosa”, pp. 47-48].

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Sosteneva Pallavicini, su “Fernandel”, che “Diario di bordo della rosa è un'opera di straordinaria prosa poetica, dove ad ogni pagina vien voglia di partire con l'applauso. Un'opera di quelle, sia detto senza alcuna ironia, di cui la letteratura oggi ha bisogno”. Era il 1999. Il giovanissimo scrittore Flavio Santi, all'epoca poeta salutato da un premio Sandro Penna (per “Viticci”, 1998), poeta prestato alla narrativa, lavorava a questo libro spinoso e caotico da almeno sette anni: dall'estate della sua maturità classica.

Santi, nel corso del secondo incontro del ciclo “Testimoni autografi” organizzato dal CIRTT dell’Università di Cassino, qualche anno fa, ha raccontato: “Non ho alcuna difficoltà a confessarvi che il libro che stava nascendo quell’estate del 1992 aveva la volontà di descrivere un certo mondo contadino che avevo conosciuto soprattutto da adolescente, e che aveva a che fare con una mia educazione sentimentale fatta di capannoni, campi di grano turco, pannocchie, stalle, erba medica. Le mie estati friulane […]. Volevo capire, volevo fare i conti con quelle esperienze, cercando però in esse non un semplice elemento descrittivo o di costume, ma una loro esemplarità. Questo è stato il primo impulso”.

Prima stesura, 200 cartelle fitte, stese nel corso di un biennio. Quindi, quattro anni di intervallo, di labor limae e di “cura dimagrante”. Infine, esito ultimo, 70 cartelle: quelle pubblicate dalla PeQuod. Santi voleva fosse un romanzo difficile: capace di restituire “l'ottusità della vita basica, primaria”: da espressionista suo malgrado. Così viscerale e musicale da sembrare scritto in una lingua straniera, in più d'un frangente, il suo libro fonde e confonde dialetto e lingua letteraria, divertissement espressionistici e oscenità di ogni ordine e grado, irriverenze, sentimentalismi e blasfemie, dando vita a una sofferta e stravagante trasfigurazione delle dinamiche psichiche tardoadolescenziali e giovanili, rurali.

Protagonista della vicenda è un artigiano, Ghienio Coos, da Planvischis. Intellettuale ed erotomane, costruttore di bare: come suo nonno, come suo padre. “Io faccio bare dove ficcano i kapùt. Tanto facciamo kapùt tutti, prima o poi: era meglio abituarsi già in vita a mercanteggiare con i morti. Io li posso vedere tutti in natura, ci posso misurare con il metro l'anima muffa e me la segno a matita sul quaderno” [p. 12]. Lettore forte, ha un'immaginazione ipertrofica complici ispirati libreschi incontri, e la consueta solitudine campagnola che tanto fertile sembra fa ogni azione, e tanto incredibile ogni minima violazione (dell'ordine, della prevedibilità, della linearità, della sessualità).

Planvischis è un paesotto immaginario popolato da un migliaio d'abitanti, e meglio ancora, per dirla con Santi: “un paesetto d'un migliaio pressappoco di ossa unite a vene unite a cuori, polmoni, reni e altri accessori simili, persi nell'esercizio agricolo o nel pendolamento impiegatizio” [p. 75]. Un paese in cui chi per lavorare va in città è visto come uno che va a mescolarsi con le forze oscure – e incredibilmente straniere. Non cambia mai niente, proprio no.

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“Diario” è un libro in cui, secondo Michele Mari, “la parola esplode per saturazione o implode per straniamento, la semantica si fa regressiva per nostalgia dei sensi perduti, ogni frase periclita fra lusso e suicidio, tutto l'impianto romanzesco collassa”. Collassa, perché non potrebbe essere altrimenti: vanno giustapponendosi frammenti e sketch, con una notevole forza visiva e performativa. Diciamo che il “Diario di bordo della rosa” è a metà strada tra un coraggioso, sfarzoso e lirico esercizio di scrittura e una morbosa (dis)educazione sentimentale, con tanto di epilogo grandguignolesco e impressionante – cos'altro può essere una castrazione?

Antonelli, su “L'indice”, osservava che a ogni capitolo corrispondeva una diversa perversione sessuale: che andavano a stagliarsi, su tutto, una passionaccia per le tonache e per l'autoerotismo, e una buona dose di sadismo e di masochismo. Tutti elementi notevoli – che finiscono, a volte, per surclassare l'aspetto più importante dell'opera, vale a dire la talentuosa scrittura autoriale, spettacolare, erudita e bambinesca. Santi, negli anni, è diventato un narratore capace di ben diversa linearità, accessibilità e semplicità: pieno di classe, e di coscienza dei limiti e degli argini. Esordiva, nel 1999, come un poeta intriso di terra, dialetto, curiosità e coprolalie.

Ipertrofico.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Flavio Santi (1973), narratore, poeta, traduttore e libero docente universitario italiano. Vive in campagna alle porte di Pavia. Ha esordito, in narrativa, pubblicando “Diario di bordo della rosa” (PeQuod, 1999).

Flavio Santi, “Diario di bordo della rosa”, PeQuod, Ancona, 1999.

Gianfranco Franchi, giugno 2011.

Prima pubblicazione: Lankelot.

Santi, negli anni, è diventato un narratore capace di ben diversa linearità, accessibilità e semplicità: pieno di classe, e di coscienza dei limiti e degli argini. Esordiva, nel 1999, come un poeta intriso di terra, dialetto, curiosità e coprolalie…