Vita d’un uomo

Vita d'un uomo Book Cover Vita d'un uomo
Giuseppe Ungaretti
Mondadori
2016
9788804668367

Nel panorama della poesia italiana del primo Novecento, sino a questo momento, ho trattato su queste pagine il libro di uno splendido outsider, massacrato e frainteso dalla critica sua contemporanea, come Dino Campana, e l’opera di uno splendido incompiuto, strappato alla sua ricerca da un’atroce male, come Sergio Corazzini. Entrambi autori del primissimo Novecento, entrambi relegati e segregati in una posizione di nicchia nelle antologie e negli studi degli storici letterari per ragioni purtroppo facilmente comprensibili, sebbene non facilmente condivisibili, sembrano annunciare una frattura nel cammino della poesia italiana che, ben distante ancora dall’essere incarnata dalle avanguardie e dagli sperimentalismi, viene perfettamente espressa dall’opera del poeta di Alessandria d’Egitto, Giuseppe Ungaretti.

Non è questa la sede per richiamare una delle incisive rotte tracciate da Gianfranco Contini, quella per intenderci che, a partire dal Petrarca, attraverso il Leopardi, giunge sino al maestro Ungaretti; basterà, in sostanza, accostarsi alle pagine del volume del nostro e analizzarne serenamente i versi per poter concludere che è non solo visibile, ma addirittura tangibile una linea evolutiva o di affinità di questo tipo. Compito di chi scrive è ricordare, tuttavia, altri illustri antecedenti alla ricerca poetica del nostro, almeno quelli che il nostro nomina direttamente: Baudelaire e Mallarmè. Si è discusso a lungo in merito all’influenza che la poesia francese esercitò sul poeta del “Sentimento del Tempo”, giungendo sino a teorizzare una formazione culturale del tutto atipica per un poeta nostrano e tutta rivolta alla musicalità d’Oltralpe; francamente mi limiterei a salutare nel nostro un apprezzamento convinto nei riguardi dell’incantevole sinestesia di Mallarmè e nei riguardi della favolosa e naturale musicalità interna di Baudelaire, insistendo nell’individuare discendenza, se non fratellanza, con la produzione del Petrarca e del Leopardi.

La stagione della lirica, del verso frammentato e disossato trovò in Ungaretti e in Paul Celan i più splendidi interpreti: sconvolta e surclassata poi dalla rinnovata ed esasperata prosaicità dei versi, espressa sin da Montale, rimaneggiata da Luzi e non trascurata oggi dall’ultimo Zanzotto (ahinoi), la perfezione sintetica dei canti, sentiero alchemico di espressione di un senso unico di una parola(e non di un vocabolo, richiamandoci proprio a quanto ricorda il nostro, ricordando analoga posizione leopardiana, avvertendoci dell’essenzialità del concetto stesso di “parola”) e di una sua folgorante origine che almeno echeggi nella poesia, oggi pare aver abbandonato il nostro tempo.

Che è tempo di vocaboli, e non di parole: è tempo di laboratori, e non di autentica e diretta espressione spirituale; è tempo di oscurità, di sublimazione dell’ermetismo nel nonsense e nel freddo metallo del suono; è tempo di corruzione e contaminazione della prosa in poesia. Ed è un tempo, allora, in cui l’opera dell’Ungaretti assurge a monumento, volta con purezza alla musicalità interna e all’intonare un canto, rifuggendo metrica e cervellotiche gabbie di metodi e pseudostrutture; è un tempo in cui assume la valenza di una rovina, di una onirica rovina rivelata dal mare sulle nostre rive; quel porto sepolto, protagonista della prima raccolta del nostro, è finalmente apparso e possiamo, silenziosamente, ormeggiare e ascoltare, e leggere, e ritrovare carte e mappe e bussole per riprendere la navigazione dal punto in cui era stata interrotta. Possiamo abbandonare il disorientamento: ecco rifulgere l’astro nascosto dal tempo nel cielo d’inchiostro, ecco tornare ad illuminarsi una direzione che si riteneva ormai oscurata e sommersa dalla prosaicità del nostro tempo e della nostra arte.

Il canzoniere di Giuseppe Ungaretti è raccolto e concluso nella splendida edizione delle sue poesie intitolata “Vita d’un uomo”. Nell’edizione esaminata, curata da L.Piccioni, dispongo di uno splendido apparato di varianti e di quattro studi su Ungaretti, curati da Diacono, De Robertis e dallo stesso Piccioni: mi sembra sia questa l’unica (corposa) differenza con la prima edizione del volume, apparsa nel 1969. Quanto ai testi, appaiono tutte le raccolte del poeta dei fiumi, felicemente coronate da qualche inedito e da brevi prose introduttive dello stesso maestro. Io credo si debba riconoscere alla primissima raccolta, apparsa inizialmente per interesse di Ettore Serra, alludo proprio al “Porto Sepolto”, una grandezza che, nei primi quattro decenni del novecento, sento di poter ascrivere esclusivamente ai “Canti Orfici” di Campana e agli “Ossi di Seppia” di Montale. Non stona, in fondo, accostare in queste prime battute Montale ad Ungaretti: nei primi passi del loro cammino, i due erano affratellati da una ricerca disperata e orfica della parola perduta, intenti all’espressione di un canto nato dalla natura e alla natura destinato a ritornare. E quell’oscuro manovale che fu Quasimodo, quell’artigiano che fuse e confuse i nostri due maggiori poeti del primo novecento nella sua poesia, è forse la testimonianza vivente di quanto fosse in realtà possibile stabilire allora un punto di contatto tra i due e interpretarne il trait d’union, rinunciando ad ogni originalità e privandosi totalmente di una propria originalità.

La grandezza del “Porto Sepolto” sta nella sua freschezza stilistica e nel tono, mirabilmente diretto e perfettamente autentico e diretto, scevro di filtri e di maschere e di specchi. È la poesia di chi sta conoscendo e affrontando la morte sui campi di battaglia, di chi sta vedendo la sua generazione cadere e precipitare nel silenzio e nell’oblio, di chi resiste per oltre un anno immobile nella stessa trincea, in una guerra individuale che è la guerra di un popolo costretto a sacrificare una generazione nel sogno di un’utopica ricostruzione di un patrimonio culturale e sociale antico; è la poesia di chi ha visto flagellata e cancellata la memoria di un amico che non aveva patria, e ha combattuto per immortalarla; è la poesia prima di un artista che non considerava nella maniera più assoluta l’ipotesi di essere pubblicato, e scriveva come singhiozzando parole ridotte a un rivolo di sangue, o a un rivolo d’acqua, piangendo la caducità dell’uomo e del tempo e consolandosi nella bellezza splendida delle parole: nell’energia della parola traendo linfa, per resistere ed essere, e sognare. Nelle raccolte successive del maestro Ungaretti si ripeteranno, e non di rado, le folgoranti e accecanti intuizioni di questi suoi primi passi; ma senza quella libertà, quell’autonomia, quella innocenza e quella dolcezza dell’artista inconsapevole. L’intellettualismo è una malattia: la poesia del Novecento è poesia degna dell’anticipazione dell’omaggio di Percy Shelley nell’ “Hymn to Intellectual Beauty”; è poesia frastagliata dal pensiero, dall’autocoscienza, dalla spasmodica ricerca di antecedenti e di schemi. E dunque, pur nell’intenso cammino del maestro, nella virile commozione della raccolta intitolata “Il Dolore”, dedicata al piccolo perduto, nell’umanità squisita del “Sentimento del Tempo”, il lettore arranca tra le rovine della poesia del nostro, nella ricerca, a volte premiata, del verso puro e limpido del “Porto Sepolto”.

La rotta è stata disegnata: come scrisse Baudelaire, e Campana ricordò in un suo quaderno destinato a non essere pubblicato, “Morte Capitano, è Tempo”. E allora, nel recuperare l’arte poetica del maestro Ungaretti, ultimo emblematico artista del canto, poeta della parola e della sintesi, musicante incompreso come di norma avviene nella cultura del nostro paese, la speranza di chi scrive è che le nuove generazioni abbiano il coraggio di tornare a esprimersi senza esasperare le gabbie della metrica e senza nascondersi nella dorata torre dell’intellettualismo; ogni parola ha un segreto, ogni segreto è una musica, ogni musica è riflesso della memoria di un dio perduto.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE.

Giuseppe Ungaretti (Alessandria d’Egitto, 1888 – Milano, 1970), poeta italiano.

Giuseppe Ungaretti, “Il Porto Sepolto”. A cura di Carlo Ossola. Marsilio, Venezia, 1990. Giuseppe Ungaretti, “Vita d’un uomo”. A cura di Leone Piccioni. Mondadori, Milano, 1992. Giuseppe Ungaretti, “Lezioni su Giacomo Leopardi”. A cura di Mario Diacono e Paola Montefoschi. Presidenza del consiglio dei ministri, Dipartimento per l’informazione e l’editoria, 1989.

Gianfranco Franchi, maggio 2002.

Prima pubblicazione: ciao.com. A ruota, Lankelot.