Viaggio al termine della notte

Viaggio al termine della notte Book Cover Viaggio al termine della notte
Louis-Ferdinand Céline
Corbaccio
2011
9788863801729

Destinato a disintegrare propagande d’ogni colore e d’ogni nazione, l’esordio di Céline è un romanzo che sembra avere naturalmente un senso: descrivere e narrare miserie, debolezze, corruzioni e infamie della razza umana. La prima persona cruda e hamsuniana, e l’altrettanto hamsuniana tendenza al vagabondaggio, non poteva non risultare innovativa, negli anni Trenta, a quanti fossero stati estranei alla narrativa dell’artista norvegese; anarcoide e febbrile come un narratore hamsuniano, si distingue per un elemento non marginale; la capacità di rappresentare e scolpire il male. Le bassezze della società del primo Novecento, l’umanità malata e umiliata dalla violenza di autorità diverse – la “patria” durante la guerra, il padrone nell’industria –, vezzi, difetti, calamità e malattie della specie vengono radiografati sino alla nausea. La lingua è intraducibile: un lettore diverso da un madrelingua francese perde migliaia di sfumature e di tratti essenziali, per via del fatto che Céline sporca la sua narrazione con – parrebbe – notevole aderenza al parlato, ludico argot e via dicendo. Un italiano come l’estensore di queste notarelle, costretto a leggere il testo in traduzione – per giunta, in una traduzione dal retrogusto vagamente censorio degli anni Trenta – deve effettuare uno straordinario sforzo d’immaginazione e deve decisamente sublimare con una sorta di comprensione rabdomantica quel che non può essere compreso al di sotto delle Alpi. Detto questo, logicamente non nego che lo spirito della narrazione riesca a valicare i limiti dell’autoreferenzialità linguistica.

Leggiamo un libro che, in questo frangente, dovremmo correttamente dire di “poter leggere”, senza avere l’opportunità di integrarci nel tessuto linguistico. Possibile poter attingere all’essenza d’un romanzo che vive, fondamentalmente disarmonico e asimmetrico nell’intreccio e nella struttura, principalmente scintillante di lingua propria e scrittura atipica, soltanto mediante una traduzione? Naturalmente, no.

L’italiano che legge questo romanzo di Céline deve divinare, come accade ai filologi nelle situazioni irrimediabili, per capire – ad esempio – quale dialetto poteva avere un bretone e come esso poteva suonare a uno studente di Medicina che cazzeggiava in Place Clichy, al principio della sua notte.

Ammesso quindi il primo e unico – ma non certo minimo – handicap nella percezione e nella comprensione del testo, rimane un ostacolo da superare, per il contemporaneo: a seconda degli orientamenti politici, esso è il disprezzo per il nemico – Céline è tra quegli artisti che non si potevano, e talvolta ancora non si possono leggere, nell’Europa sinistra del dopoguerra: era stato collaborazionista – o l’ammirazione entusiastica e a volte incondizionata per l’intellettuale antagonista.

L’auspicio e l’invito è a leggere l’esordio dello scrittore francese de-ideologizzandosi, e spurgandosi da pregiudizi o risentimenti partigiani. Vale per compagni e camerati, post-compagni e post-camerati. La ragione è semplice: questo libro non ha niente di politico; è piuttosto, nella prima parte, un libello esistenzialista, anarcoide e antimilitarista, e questo può non dispiacere, ad esempio, ai detrattori aprioristici dell’opera di Céline. Altrove, è egolatrico ed egoarchico; bastona ogni forma d’alterità, e ovviamente riesce a denigrare l’identità del narratore; questo romanzo è un conato di coscienza letteraria nuova, è lo specchio del male che tutti conosciamo e non sempre vorremmo combattere. La narrazione principia nella Francia della Prima Guerra Mondiale e si sviluppa attraverso tre continenti: dalla vecchia e marcia Europa, alla volgare e plutocratica America, alla povera e fragile Africa.

Bardamu è un medico d’un’umanità incurabile. Sente l’amore come “l’infinito messo a portata dei cani”; combattendo in battaglia, si domanda quali siano i nemici, e riesce a definire la guerra come “tutto ciò che non si capiva”: millanterie, eroismi, autolesionismi, massacri, violenze: fino ad una pazzia, forse di maniera forse affatto spontanea, figlia della coscienza della sete di sangue che connota la specie. C’è un co-protagonista, Robinson, che sarà una sorta di fratello spirituale di Bardamu attraverso viaggi e vagabondaggi; c’è qualche amorazzo, una straordinaria vocazione alla ricerca del morboso e del torbido nella sessualità, naturalmente proto-houellebecquiana, una pioggia di comparse tratteggiate nervosamente, e più funzionali alla dimostrazione del teorema (l’uomo è marcio) che alla stesura d’un intreccio coerente.

Il romanzo appare, a settanta anni abbondanti dalla sua prima apparizione, decisamente annacquato e verboso nelle ultime duecento pagine – quelle dedicate, per intenderci, al ritorno in Francia e alla descrizione del clima post-bellico. La scrittura di Céline non schiaffeggia e non sconvolge più, dopo essere stata ampiamente interiorizzata e perfezionata da una rabbiosa e decadente minoranza di narratori e letterati europei e americani; la sua febbrile lucidità d’osservazione, e il suo distacco nel giudicare l’umanità, rimangono invece esemplari.

Discutibile certa tendenza aforistica: Céline è sentenzioso e lapidario; la tecnica del giudizio secco e inequivocabile giocato dopo una dozzina di pagine lente, tartaglianti o paludosette cessa di funzionare dopo un po’; è una tattica interessante, ma è ripetuta con eccessiva costanza. Da adolescente, leggevo certe sparate sull’amore, o sull’anima, o sui mali della società e d’ogni essere umano, o sulla naturale malvagità della razza e via dicendo e rimanevo basito: pensavo d’avere avuto il privilegio di testimoniare il – e non “un”, attenzione – senso ultimo della vita – perché questa è la magia del lugubre gioco di prestigio di Céline. Ma la vita non è una massima – o un florilegio di massime – d’un cinico, né è più vero d’un altro il tono basso e roco d’un vagabondo che ha saputo guardare molto, ascoltare forse meno; perché restava troppo preso dall’abnorme profondità dei suoi pensieri, e dalla disperazione di esistere, e d’esser stato al fronte e d’aver visto morire, in diversi sensi, esseri umani.

Il Novecento è stato un secolo sporcato da guerre mostruose, ideologie aberranti, atomizzazione della vita sociale e traslazione dei ritmi e degli automatismi della fabbrica nella quotidianità; l’umanità è sopravvissuta, come sempre, e ha saputo spiegare, nelle arti, dove sbagliava e quando e per quali ragioni. Céline avrebbe detto che la ragione era unica: l’umanità stessa. Probabile: d’accordo, è una buona intuizione, addirittura condivisibile. Ma la storia dell’umanità non s’è ancora chiusa, come io ho chiuso questo libro. Mostrare il male significa suggerire come vincerlo. Nominare è dominare. “Viaggio al termine della notte” è stato ed è il giovane Holden dell’adolescente nichilista, o – genericamente – antagonista. È stato, per la gioventù di destra nelle nazioni europee, il monumento dell’intelligenza, della profondità e del talento d’un narratore che la sinistra non sempre voleva fosse studiato. Lasciatemi essere eufemistico. Adesso tira vento nuovo. È facile – quasi “neutro” – leggere Céline nel 2005.

Questo libro è una bandiera d’una sconfitta – quella dell’umanità – che conosce, ad oggi, soltanto un riscatto diverso dalla speranza, o dall’utopia: l’arte. Non negatevi una nuotata nei fiumi dell’Ade. Ma non crediate che siano le sole acque della vostra vita. La fonte è altrove – è pura e scintilla.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Louis-Ferdinand Destouches, detto Céline (Courbevoie, 1894 – Meudon, 1961) medico e scrittore francese.

Louis-Ferdinand Céline, “Viaggio al termine della notte”, Dall’Oglio, Milano 1933. Traduzione di Alex Alexis.

Prima edizione: “Voyage au bout de la nuit”, 1932.

Gianfranco Franchi, luglio 2005.

Prima pubblicazione: Lankelot.