Una vita da Lazio

Una vita da Lazio Book Cover Una vita da Lazio
Arcadio Spinozzi, Stefano Greco
Castelvecchi
2009
9788876153310

È il memoir di un vecchio stopper della Lazio, il sindacalista Arcadio Spinozzi, classe 1953, raccontato per stagioni agonistiche: è un nuovo, bel libro italiano di calcio romantico, scritto da un calciatore dalla personalità atipica, inconfondibile; caro ai suoi vecchi tifosi, agli sportivi e ai letterati, come racconta Alessandro Piperno, grande tifoso biancoceleste:

«Mi si poteva incontrare per Roma con la maglia di Arcadio Spinozzi, un libero all’antica il cui viso sembrava essere divorato dalla barba. Arcadio Spinozzi era la Lazio. La rappresentava molto più di campioni del calibro di Giordano e Manfredonia. Quella maglia d’un blu assai più elettrico di quanto apparisse in Tv era tutta per Arcadio. La mia Arcadia» (fonte: “Nuovi Argomenti”)

“Una vita da Lazio” è la storia del primo calciatore-sindacalista degli anni Ottanta, delle sue battaglie per il rispetto dei diritti dei calciatori, della sua grande sensibilità; del suo male oscuro d'adolescenza, e del suo grande amore per una maglia che ha indossato, con onore, per sei anni; delle sue battaglie contro certi dirigenti, e dei suoi incredibili compagni di squadra. Talentuosi e donnaioli come D'Amico, brillanti e pieni di stile come Viola, cattivi e prepotenti come Manfredonia, giovani e impauriti come Laudrup. È un libro scritto con passione e malinconia: capace di fare denunce chiare (doping, combine, contratti) con grande semplicità e immediatezza. E tuttavia non è un libro scandalistico; è una storia d'amore, e di appartenenza: Spinozzi è l'avatar della Lazio di quegli anni, ferita dalle retrocessioni e dagli scandali, avventurosa e avventuriera, orgogliosa e incasinata: romantica e folle.

La sensazione è che Spinozzi, uno “troppo puro per il calcio” secondo il poeta e scrittore Acitelli, sia riuscito a restituirci un'immagine gioiosa, grottesca e credibile degli spogliatoi di una grande squadra decaduta come la Lazio di allora; offrendo uno spaccato vitale, disperatamente vitale. E si direbbe proprio che Spinozzi abbia dato vita a un romanzo che tutti gli appassionati di calcio potrebbero e dovrebbero leggere, non soltanto i tifosi della Lazio. Da romanista avevo una valanga di pregiudizi, come potete prevedere. Mi sono ricreduto. Leggendo questo libro sorridevo (o ridevo di lusso: Spinozzi ha dei tempi comici incredibili. Garlaschelli e Juan Carlos Lorenzo sono diventati personaggi letterari, dico sul serio) e a un tratto non nascondo di essermi un po' commosso, quando lo scrittore-calciatore ha raccontato il suo addio alla Lazio. Ognuno ci rivede qualcosa di suo, in quel congedo. Probabilmente è un saluto ai sogni di grandezza, all'innocenza della giovinezza: oppure, semplicemente, è come quando ti dici addio con una donna che hai tanto amato. Accidenti se fa male, soprattutto quando ti accorgi che indietro non si può tornare. Qualcosa del genere.

Incipit dell'opera è la morte del suo vecchio compagno di squadra Giuliano Fiorini, l'eroe di Lazio-Vicenza, quello che ha evitato la retrocessione in Serie C. Spinozzi soffre e si ritrova a guardare immagini di repertorio in Tv, e in quelle immagini rivede anche sé stesso. E s'accorge che il vecchio Arcadio non c'è più. “Niente più barba da duro, niente più capelli neri come la pece. Al posto del giocatore di tanti anni fa, considerato da molti un sindacalista e un rivoluzionario, oggi c'è un uomo, sempre chiuso e riservato come allora, che dopo aver superato i cinquanta ha deciso di raccontarsi” (p. 6). Con lo stile di Spinozzi – una sorta di Tommasi ante-litteram, ma senza religiosità – e cioè con misura, onestà e semplicità; senza entrate a piedi uniti, per capirci, giocando pulito. In un ambiente sporco. Già allora. E non soltanto per il calcio-scommesse. Spinozzi racconta la normalità delle combine, in quegli anni, e la stravagante vicenda degli stipendi pagati a casaccio e con ritardi abnormi (in Serie A!): scrive, chiaro e tondo, che per “i dirigenti, noi calciatori eravamo dei giovani sempliciotti, dei ragazzetti ignoranti da utilizzare e sfruttare a piacimento; a quei tempi subivamo ogni genere di raggiri, soprusi, coercizioni” (p. 22). La minaccia classica era “ti faccio smettere di giocare”. I contratti erano sempre annuali, le carriere traballavano facilmente. La dirigenza cercava di risparmiare addirittura sulle tute; Arcadio è stato capace di farle a pezzi pur di convincere il presidente a comprarne di nuove (p. 106). Difficile a credersi, oggi, ma le cose andavano così. A Roma, mica in Mozambico.

Spinozzi è un ribelle, è uno che rivendica i suoi diritti e quelli dei suoi colleghi; uno che non sopporta le ipocrisie, le prese in giro ai tifosi, le speculazioni di certi giornalisti sportivi. I dirigenti sapranno avvertirlo: deve darsi una regolata. A Roma succedono cose strane: “Sarà bene che ti ci abitui, Spinozzi, se vuoi restare qui. Altrimenti, quella è la porta... Qui non sei a Verona o a Bologna. Sei a Roma, nella Capitale” (p. 37). Già, Roma. Città stupenda, “incredibilmente umorale” (p. 119) e piena di tentazioni. Donne, locali, feste, ristoranti. C'e da perdere la testa: bisogna essere equilibrati. Spinozzi era un ragazzo abbastanza equilibrato...

Spinozzi accenna anche agli anni trascorsi, a inizio carriera, a Verona e a Bologna, quando era una giovane promessa; racconta il passaggio alla Lazio, ferita dalle squalifiche di Cacciatori, Wilson, Giordano e Manfredonia ma non ancora penalizzata dalla retrocessione in B. Moggi, all'epoca DS della Lazio, si fa già notare per le sue prepotenze: sentite come lo descrive Spina...

“Devo confessare che non mi piaceva proprio nulla di Luciano Moggi. Il suo modo di parlare monotono e noioso, la sua faccia smorta, le sue labbra sottili e tirate, le sue palpebre pesanti che nascondevano in parte, dietro gli occhiali, gli occhi a palla. Nell'ambiente del calcio era considerato un uomo importante, (…) da rispettare e da temere. Aveva intorno tanta gente che lo serviva e lo riveriva. Ma in squadra eravamo in molti a non fidarci di lui. Per questo motivo, il nostro portiere, Nardin, gli affibbiò il nomignolo 'Barabba'. E da quel momento, per la squadra, Luciano Moggi divenne Barabba, punto” (p. 45).

E poi sotto con la storia delle sue stagioni in biancoceleste. Gli allenamenti al Maestrelli sono descritti con grande vivacità. Le pagine dedicate alle contestazioni, periodiche, sono le più divertenti in assoluto. Vittima prediletta degli ultras è Garlaschelli, bersaglio storico di un gruppo di tifosi, giorno dopo giorno. Lui, pavese ormai romanizzato, cerca di resistere sfogandosi in dialetto: “In tutti questi anni anni, ce ne fosse stato uno, nel gruppo, che per motivi di salute avesse saltato un solo allenamento. Niente. Questi so' tutti sani come pesci. Neanche un'influenza, li mortacci loro” (p. 51), borbotta. Ma prima o poi risponderà, e ci sarà da ghignare: Spinozzi racconta un teatrino micidiale. Più avanti, per dire:

“A distanza di una settimana dal mio ritorno in squadra, fu richiamato anche Renzo Garlaschelli. Negli spogliatoi festeggiammo il suo rientro. Per Renzo, comunque, non furono tutte rose e fiori, quel giorno. Ad attenderlo, infatti, c’era il solito gruppetto di tifosi, seduto al solito posto. Vedendolo entrare in campo per il primo allenamento, da lontano gli gridarono: «A svizzero, li mortacci tua… sei riuscito a rubba’ ’n’artra vorta lo stipendio. Te dovemo da sopporta’ pure quest’anno».

«So’ appena arrivato e già me rompete li cojoni», rispose Renzo sorridendo.

«Te ne devi da anna’. Manco aggratise t’hanno voluto, l’artri».

Renzo allargò le braccia sconsolato e replicò: «Aho, ma so’ mesi che non gioco. Se le cose vanno male stavorta colpa mia nun po’ esse».

«A pensionato! Nun ce ne frega gnente. Va’ in Svizzera a magnatte li sordi nostri che te sei rubato in questi anni. Nun te volemo più vede»”

Altra comicità assoluta si deve a Juan Carlos Lorenzo, il mago argentino, allenatore di una Lazio improbabile che noi romanisti ben ricordiamo: sentite qua:

“La domenica, Juan Carlos aveva la rigorosa consuetudine di indossare indumenti prescritti dal suo personalissimo rituale: pantaloni ascellari a cinta ampia; camicia scura con alettoni al collo; scarpe a tacco alto; capelli tirati all'indietro, ricoperti da uno strato di brillantina. Sembrava un matador in attesa di entrare nell'arena a battersi col toro. Il giorno del derby di campionato si spogliò coi calciatori. Aveva ampie mutande. Le tirò su, fin quasi sotto le ascelle, e cominciò a ballare dimenandosi e mormorando incantesimi. Poi, prese il mangianastri e uscì dallo spogliatoio. Appoggiò l'apparecchio sul banco del minibar e iniziò a muoversi al ritmo di canzoni latino-americane. Attese l'arrivo dei giallorossi. La musica si propagava per tutti gli spogliatoi dell'Olimpico (…). Alla vista dei calciatori della Roma, Juan Carlos portò al massimo il volume e prese a cantare con voce da tenore. Batteva ritmicamente un piede a terra. Nella mano destra protese un bicchiere. La protese verso gli avversari in segno di sfida. I romanisti, vedendo il vecchio in mutande, che cantava a squarciagola e batteva i piedi per terra, lo sguardo truce e il braccio teso, restarono a bocca aperta, sbalorditi. Passato l'attimo di stupore, si infilarono rapidamente nello spogliatoio” (p. 200).

Ultime annotazioni. C'è spazio per vicende extra-calcistiche; a parte un breve e toccante omaggio ad Alfredino Rampi, Spinozzi racconta un'esperienza drammatica – un incidente ferroviario avvenuto nel 1978, mentre era in viaggio col Verona: scampò per miracolo – e un'avventura tragicomica: nel 1983, si ritrovò incredibilmente protagonista del sequestro di Emanuela Orlandi, per via delle dichiarazioni di un mitomane. A Roma capitava anche questo: che un calciatore onesto e sindacalista si ritrovasse invischiato in una questione del genere, senza avere colpe.

Mi fermo qui. È stata una delle opere narrative calcistiche più intense e divertenti di sempre, per quanto mi riguarda. Conserverò questo libro con piacere, nei miei scaffali, pensando che assieme al memoir dell'ex presidente romanista Marchini si tratta di uno dei pochi libri scritti da protagonisti del mondo del calcio che ho trovato autentico, vero, credibile, coraggioso: capace di raccontare miseria, gloria, fortuna e malasorte con dignità ed equilibrio. Spero onestamente che l'arcigno e meditabondo stopper Arcadio Spinozzi possa tornare nel mondo del calcio dalla porta principale; mi piace immaginarlo dirigente o osservatore della Lazio di Lotito, adesso. Perché uno così è garanzia di onestà, trasparenza e umanità: di semplicità e poesia. Peccato per la sua fede, certo: al di là del Tevere, sponda giallorossa, uno così sarebbe stato davvero molto amato.

Il libro è stato scritto in collaborazione col giornalista capitolino Stefano Greco, classe 1962. Grazie a tutti e due per questo regalo.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Arcadio Spinozzi (Mosciano Sant’Angelo, 1953) arcigno e meditabondo stopper italiano, una carriera spesa tra Sambenedettese, Hellas Verona, Bologna e Lazio, 101 presente e una rete in Serie A, ha esordito in letteratura pubblicando il libro di tattica “Le facce del pallone”. Questo è il suo primo libro di narrativa.

Stefano Greco (Roma, 1962), giornalista, ha sempre lavorato nel mondo dello sport, partecipando come inviato speciale a cinque Campionati Mondiali e quattro Campionati Europei di calcio. Dopo una lunga esperienza nel mondo della carta stampata, nel 1996 è entrato nel mondo del giornalismo televisivo con TMC, ora La7. Attualmente si occupa di comunicazione e di organizzazione di grandi eventi sportivi.

Arcadio Spinozzi, Stefano Greco “Una vita da Lazio. Storie di calcio romantico”, Castelvecchi, Roma 2009. Collana Grandi Navi, 35. Postfazione di Maurizio Martucci. Quarta di Alessandro Piperno. Copertina di Maurizio Ceccato.

Gianfranco Franchi, Agosto 2009.

Prima pubblicazione: Lankelot.

È il memoir di un vecchio stopper della Lazio, il sindacalista Arcadio Spinozzi, classe 1953, raccontato per stagioni agonistiche…