Una questione di tortura

Una questione di tortura Book Cover Una questione di tortura
Alfred McCoy
Socrates
2008
9788872020364

È una questione di civiltà, una questione di umanità, una questione di intelligenza: una Nazione che rifiuta la Convenzione di Ginevra (“sospendendola” nel 2002: p. 169), avalla e pretende di legittimare arresti arbitrari, interrogatori senza limiti e incarcerazione illimitata non può essere parte del consesso delle nazioni democratiche. L’Impero Americano, nemico della libertà dei cittadini di molti popoli del mondo, sta precipitando – quando s’appresta a terminare l’infernale doppio mandato di Bush figlio, sempre sostenuto, è bene ricordarlo, dai vergognosi governi italiani sin qui alternatisi al potere – nell’abiura del rispetto della vita umana e delle più elementari forme di solidarietà nei confronti dei nemici catturati: civili o militari essi siano. Il libro del Professor Alfred W. McCoy dell’Università del Wisconsin ha una serie di meriti importanti, al di là della abnorme quantità di dati, notizie e studi che ha sintetizzato e catalogato in questo saggio: ha dimostrato al mondo che esiste una componente influente e credibile della cittadinanza statunitense assolutamente contraria alla condotta stupida e disumana del petroliere texano e della sua classe dirigente; McCoy è la speranza di un’America diversa, guidata da principi e valori che quella gente sembra aver smarrito.

Una questione di tortura” è un libro-inchiesta destinato a far discutere per più di qualche anno – ammesso che la stampa e i media dipendenti dallo Stato riserveranno l’adeguato spazio – i cittadini italiani, ed europei. Dobbiamo stare in guardia: se la nazione egemone sta rinunciando a qualsiasi ombra di democrazia, avallando violenze criminali e omicide e violando periodicamente e liberamente i diritti umani, allora quella nazione non deve e non può essere alleata dell’Unione Europea. Altra la questione per quegli Stati poveri ed esecrabili, come il nostro, che non possono ribellarsi al padrone che occupa militarmente il territorio, con testate nucleari e via dicendo, da oltre sessant’anni: noi possiamo confidare solo che i nuovi padroni dell’espressione geografica che rappresentiamo e popoliamo sgomberino diplomaticamente certe basi da certe nostre regioni, senza sostituirsi agli yankee. Punto. Tutto tristemente molto semplice ma praticamente impossibile.

Allora, torniamo a McCoy. Sua madre, in gioventù, aveva visitato il museo delle torture di Norimberga e aveva vissuto un anno in Germania, assistendo al drammatico e atroce comportamento del regime nazista. Tornata in America, aveva appreso un concetto semplice: la tortura è male, puro e semplice. Ha educato il suo erede alla tutela e alla rivendicazione della civiltà e dell’umanità: il risultato è un campione di democrazia e di intelligenza. Un campione di coraggio che sfida il potere più grande del mondo, quello dell’amministrazione statunitense, denunciando la storia occulta delle torture dell’intelligence americana dal 1945 ad oggi. Elencando numeri impressionanti: riportando testimonianze atroci. Ricordandoci – partiamo da qui – un aspetto molto semplice. “Loro sono noi. Quello che hanno sofferto, lo potremmo soffrire noi. Quello a cui non potevano resistere, è ciò a cui anche noi non potremmo e non possiamo resistere. Nessun essere umano, nessuno di noi, è in grado di bloccare gli effetti distruttivi sulla vita della tortura psicologica” (p. 125).

Le terribili immagini delle violenze e del sadismo dei militari americani ad Abu Ghrab – cfr. Wikipedia, per ricordare il divertimento yankee di qualche anno fa e non solo – spiega McCoy, non erano espressione di sadismo. Erano la prova che i metodi della CIA avevano attecchito. Le prigioni segrete della CIA – unica sopravvissuta, tra KGB, STASI e via dicendo, al cinquantennio di guerra fredda – sono un gulag globale, sparso nazione per nazione. Mentre, per anni, nelle riunioni dell’ONU gli States si opponevano alla tortura, la CIA la diffondeva. Le prime ricerche per nuove e più sofisticate tecniche di tortura, compiute sin dagli anni Cinquanta, cercavano di scoprire una violenza peggiore di quella fisica, estranea alle cicatrici; senza contatto. Ricerche compiute sulle droghe (Lsd in primis) e sull’elettrochoc, e studi condotti sullo stato degli individui in condizione di disorientamento temporale, spaziale e via dicendo, evidenziarono rischi chiari – come la possibilità che i torturati subissero disturbi emotivi permanenti, stanchezza cronica, deconcentrazione e via discorrendo – che non spaventarono i servizi segreti americani.

A differenza dell’FBI, la CIA credeva nella tortura come strategia vincente per guadagnare informazioni credibili. Cinque, secondo McCoy, sono i tratti distintivi della tortura: penetra indissolubilmente nei recessi della coscienza umana (nell’anima); gli Stati che la approvano permettono si applichi anche solo a sospetti nemici; sembra così efficace, a dispetto della sua resa fallimentare, che gli esecutori tendono ad affezionarvisi; il torturatore esercita, sui cittadini che dovrebbero giudicarlo, un effetto ibrido, una sensazione di paura e fascino a un tempo; infine, lo Stato che si vota alla tortura dei cittadini si associa subito alla tirannide, corrompendo i legami di fiducia col popolo e con le nazioni sovrane.

I nuovi metodi della CIA, post 1945, sono il “disorientamento sensoriale” e il “dolore autoinflitto”. Il primo si fonda sulla reclusione in posti volta per volta diversi; è la demolizione delle capacità sensoriali, confondendo luce e buio, caldo e freddo e così via. È il viatico al collasso dei processi di sviluppo del pensiero. Il secondo nasce dallo studio di due neurologi, Hinkle e Wolff (cfr. p. 65 e ss.): piuttosto che raccontarlo, preferisco domandarvi di ricordare le immagini dei fili elettrici appesi alle maniche dei detenuti, in certe foto.

La CIA ha contribuito alla vittoria degli States nella guerra fredda, fallendo miseramente sul fronte del c.d. terrorismo islamico: questione dovuta a varie ragioni, preparazione culturale e natura degli “eserciti” in primis. E ha fallito a dispetto di un sostegno cieco e totale dell’amministrazione Bush, nella relativa indifferenza – più volte ribadita dall’autore – dell’anestetizzata cittadinanza americana. Il giurista Romano Ulpiano, nel III secolo dopo Cristo, aveva già inteso che la tortura vale a poco; soggetti fisicamente forti e motivati non parleranno, soggetti deboli diranno qualsiasi cosa pur di salvare la pelle. È un pensiero molto semplice e molto chiaro: McCoy accompagna una tristemente ricca casistica per supportarlo.

Questo libro non deve mancare nelle sedi di partiti, giornali, movimenti culturali e politici: è semplicemente uno strumento di lotta, democratica, e una miniera di informazioni sulla CIA, sulle amministrazioni americane, sullo stato delle cose nei conflitti in Afghanistan e in Irak, sulla decadenza irreversibile dell’ultimo Impero occidentale. Andate, leggete, interiorizzate, meditate: infine, dialetticamente, combattete. Servi degli assassini, come italiani, non possiamo diventare. Credo sia pacifico per tutti.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Alfred W. McCoy (1945), professore di Storia all’Università del Wisconsin, tra i maggiori esperti della storia della CIA; saggista.

Alfred W. McCoy, “Una questione di tortura”, Socrates, Roma 2008. Traduzione di Enrico Fletzer. Collana Paesi, Parole, 15.

Prima edizione: “A question of torture”, 2006.

Traduzione cinematografica: “Taxi To The Dark Side” di Alex Gibney, 2008.

Approfondimento in rete: Wiki en

Gianfranco Franchi, agosto 2008.

Prima pubblicazione: Lankelot.