Tribuna Tevere

 

TRIBUNA TEVERE

Erano gli anni in cui, tornando a casa dallo stadio, ci si divertiva a scoprire di quanto ci si era avvicinati a fare tredici, con la schedina: quando capivi abbastanza di pallone t’avvicinavi a fare sette, massimo otto. C’erano sempre le partite di c/1 e di c/2 a scombinarti i piani. Chi vinceva al totocalcio poteva diventare miliardario. Chi faceva dodici tendenzialmente poteva cambiarsi l’auto, o andarsene in vacanza ai Caraibi o in Australia per diversi anni. Giravano leggende urbane di schedine vincenti andate perdute. Storie di schedine stropicciate nel portafoglio o di errori inspiegabili del barista, di contenziosi decennali con lo Stato. Potevi anche non crederci – io ero scettico ma mi divertivano un sacco. Erano gli anni in cui non c’era nessuna speranza di vedere una partita di campionato della Roma in tv: la Roma in tv andava soltanto quando giocava in coppa Uefa o in coppa Italia (più raramente, in coppa delle Coppe), altrimenti non c’era questione di ordine pubblico che tenesse: le partite di campionato esistevano soltanto in differita, ridotte alle migliori azioni, ai gol e poco altro, spezzate da interviste più o meno trascurabili e glossate da tante chiacchiere. E così andare allo stadio non significava soltanto vedere ciò che nessuno può vedere, nemmeno adesso, alla tv (vale a dire, “tutto il campo”; le reazioni scomposte delle panchine; tutti gli striscioni, non soltanto quelli inquadrati perché sono buffi o televisivi; i giocatori che litigano quando l’arbitro è voltato da un’altra parte; i tifosi che litigano tra Curva e Distinti Sud; etc): significava proprio che non c’erano altre possibilità di vedere la partita.

Io andavo allo stadio con mio papà, negli anni Ottanta, e questo mi rendeva un bambino speciale. Quando tornavamo a casa andavamo a mangiare un pezzetto di pizza rossa in rosticceria; io avevo la mia sciarpetta giallorossa al collo, e questo bastava a farmi diventare un reduce. Uno credibile. Non importava che avessi sette otto nove dieci anni. C’era sempre qualche vecchietto o qualche ragazzo più grande che mi chiedeva com’era andata la partita, quanto aveva fatto la Roma, come aveva giocato il Principe, come aveva giocato Rizzitelli. Se Di Mauro era così forte come diceva Liddas. Così.

Io mordevo la pizza rossa e poi raccontavo. A volte ero stizzito perché avevo fame, o perché avevamo pareggiato male. A volte invece mi divertivo proprio a raccontare le azioni, i cori, le espulsioni, gli striscioni. Avevo imparato, crescendo, che a sbalordire i tifosi da “domenica sprint” o da “domenica sportiva” erano proprio questi dettagli laterali o circa trascurabili. Rosicavano tantissimo e a quel punto potevi contentarti o infiocchettarli ancora.

Io e quei pochi altri bambini e ragazzi del quartiere che avevano la fortuna di andare allo stadio (col papà, con lo zio o col fratello più grande, di solito) avevamo imparato a riconoscerci, e a rispettarci. Quando ci incrociavamo prima della partita, partendo da Monteverde, ci facevamo un cenno, magari stringevamo la sciarpa, ridevamo se dovevamo giocare contro l’Avellino o contro il Catanzaro o magari contro l’Empoli, ci facevamo segni ben diversi quando veniva giù la Juve o l’Inter oppure una di quelle squadre piccole ma ostiche come l’Atalanta. Ci incrociavamo prima o dopo la partita e anche adesso, che sono passati trent’anni o poco di più, quando ci vediamo per strada parliamo, per prima cosa, della Roma.

Comunque funzionava così. Uscivi da casa un’oretta e mezza prima della partita. Papà sottobraccio teneva il mangianastri – in quel periodo, i furti delle autoradio erano parecchi; se la lasciavi in auto, dopo aver parcheggiato, capace che ti spaccavano il vetro per sfilartela, così il danno era doppio; a Roma avevamo imparato che dovevi riportarti l’autoradio a casa dopo aver parcheggiato, oppure imboscarla per bene sotto il sedile, facendoti il segno della croce; potevi anche portarti l’autoradio allo stadio, ma c’era la possibilità che te la rubassero anche là. Magari dopo ti racconto meglio, succedeva pure questo – e niente, papà sottobraccio teneva il mangianastri e scendevamo in garage con l’ascensore.

Il garage aveva sempre un odore terribile, avevo nausea ma non me ne fregava niente, magari stavo zitto e mi coprivo il naso con la sciarpa finché non salivo in macchina. Papà metteva in moto, uscivamo dal garage e appena possibile abbassavo un po’ il finestrino e cominciavo a cantare un coro della Roma. Oppure no – ma di solito ero parecchio di buon umore, io adoravo andare allo stadio con papà. Magari tamburellavo sul vetro o sullo sportello e fischiettavo. Comunque ero contento.

L’autoradio era sintonizzata su RadioRai – non c’erano quattro o cinque radio dedicate alla Roma, come negli anni di Franco Sensi o della disgrazia americana; ascoltavamo RadioRai, “aspettando tutto il calcio minuto per minuto” o qualcosa del genere, con notizie e anteprime di tutte le partite di serie A e delle più importanti di serie B. Si teneva la radio a un volume discreto, così potevamo parlare anche di altre cose. Andavamo tranquilli avanti per la nostra strada, ben sapendo che partire un’ora e mezza prima dava un margine abbastanza buono per poter evitare il traffico, parcheggiare con comodo e camminare sereni fino allo stadio. Roma era così: c’era ancora la possibilità di sopravvivere ai suoi limiti, bastava prendere qualche contromisura. Restava discretamente vivibile nonostante tutto.

Parcheggiavamo dalle parti di via Teulada – ogni tanto incrociavamo qualche protagonista della Rai di quegli anni, una volta Renzo Arbore, una volta Marisa Laurito, che dal vivo era molto più minuta e molto più magra – e poi da là cominciavamo la nostra lunga camminata verso lo stadio. Non c’era ancora stata la ristrutturazione di Italia ’90: non c’era nessuna copertura. Perciò sottobraccio ci si doveva portare un ombrello piccolo, se pioveva o se c’era rischio di pioggia, e ovviamente l’autoradio, per evitare fregature e vetri rotti. Poi ci si poteva portare il cuscino o il cuscinetto: era uno stadio di marmo, scomodissimo, e il cuscino era un optional fondamentale, in Tribuna Tevere ce l’avevano quasi tutti. Io sono andato col cuscino con l’effige del Divino, Paulo Roberto Falcão, finché ho potuto. Aveva smesso di giocare pochi anni prima ma era disperatamente rimpianto. E poi, dalle parti nostre, a Monteverde, aveva lasciato anche un figlio – tutti noi bambini sognavamo fosse più forte del padre, un giorno. Come adesso sta capitando con Christian Totti, circa. La differenza è che Giuseppe Falcão cresceva senza padre, ed era una grossa ingiustizia, e io, che crescevo senza madre più o meno da quando avevo due anni, pensavo a quanto potesse essere scompensato, ne sapevo qualcosa. Insomma, uscivamo dall’auto con un sacco di cose in mano: cuscino, autoradio (papà), e quando serviva l’ombrello. Mio padre non amava le radioline, ma in quegli anni erano diffusissime: lui preferiva guardare la partita e stare concentrato soltanto su quello che succedeva in campo, ma ogni cinquanta-settanta tifosi c’era sempre quello che stava là con le cuffiette o con la radiolina poggiata su un orecchio, pronto a esultare quando la Lazio perdeva o a darci notizia di un calcio di rigore o di un’espulsione, e là in Tribuna era buffo, ci abbracciavamo, esultavamo perché un vecchietto con la radiolina ci aveva detto che la Cavese stava battendo la Lazio oppure che Ramon Diaz aveva segnato al Milan, sempre con un discreto anticipo rispetto al tabellone. Ogni tanto succedeva che ci fosse un mitomane, venti o trenta file più su o più giù o più di lato, che millantava qualcosa – qualcosa di indefinito: bastava che si alzasse in piedi con le cuffie o con la radiolina e dicesse “goool” e allargasse le braccia, e noi tutti s’alzavamo in piedi e dicevamo “daje” e “goool” e ognuno pensava che la Lazio perdeva o la Juve perdeva o chissà dio cosa altro ancora poteva essere successo, e solo dopo un po’ qualcuno diceva “ma che è successo? Ma chi ha segnato?” oppure diceva “annullato, vedrai che l’hanno annullato”, e niente, ogni tanto era così, ci restavi pure male che ti eri alzato e avevi esultato e volevi prendertela col mitomane con la radiolina ma manco riuscivi a capire chi era, stava troppo lontano, non riuscivi proprio a metterlo a fuoco. E comunque Baldieri stava giocando bene ed era così promettente che non c’era tempo da perdere con ‘ste benedette radioline, ma spegnetele ‘ste cazzo de radioline, ma che vve frega de ‘ste cazzo de radioline, c’avete er tabbellone, guardateve er tabbellone no? Ma te fatte li cazzi tua che io me so giocato er picchetto, ao’ nun se po’ gioca’ er picchetto, ao’ ma che sei ‘na guardia? Ao’ ma ve state zitti mannaggia la vostra * che me sto a guarda’ la partita? Ao’ ma ce stanno i regazzini ma la piantate de smadonna’ porcaccio *?

E niente, la camminata fino all’ingresso era lunga. In mano avevo il cuscinetto e poi i giornaletti. Già: mentre t’avvicinavi allo stadio cominciavano a passarti i giornaletti, ogni tanto c’era l’omino che li distribuiva, altrimenti capitava che stavano tipo impilati, magari in mezzo alla strada, e tu dovevi passare e prenderti la tua copia, rapidamente (avevamo tutti abbastanza fretta, non so bene perché; forse perché la strada da fare, prima di entrare, era sempre tanta). A che servivano tutti quei giornaletti della Roma? Quelli che sembravano quotidiani – avevano quel formato, erano un foglio, massimo otto pagine, normalmente quattro – servivano per non sporcarsi i pantaloni sul marmo zozzo o sporco di grasso dello stadio: te li mettevi letteralmente sotto il culo, o meglio sotto al cuscino, per non sporcartelo. Quando faceva troppo caldo, servivano – in Tevere: la Monte Mario stava sempre all’ombra – a farsi i cappelli “alla muratora” per pararsi dal sole. Io non ho mai avuto manualità e non ci sono mai riuscito, e poi avevo la sensazione che fosse più educato non farsi i cappelli alla muratora. Al limite restavamo tutti in canottiera, sotto il sole. Io trovavo imbarazzanti sia le canottiere sia i cappelli alla muratora.

Ce n’era soltanto uno di giornaletto degno, era una rivista in formato tascabile, illustrata, a colori, da collezione: si chiamava credo “Roma mia” o qualcosa del genere, era patinata, oggi potrebbe essere scambiata per un “match program”. Quella mi piaceva portarla a casa e sfogliarla di nuovo – c’erano statistiche, c’erano interviste originali. C’erano un sacco di storie. Io mi nutrivo di quelle storie con una certa facilità.

L’ingresso della Tevere stava poco oltre quello della Curva e dei Distinti Sud. Dovevamo passare una fontana spenta – credo, almeno, fosse una fontana spenta – che tutti chiamavamo “la Palla”: quando vedevo quella palla significava che stavo per salire in tribuna con papà. Camminando oltre la Palla, c’era qualcuno che vendeva le sigarette di contrabbando e qualcuno che vendeva l’adorato Caffè Borghetti. Oddio: io ero troppo piccolo per poterlo bere, potevo solo sentirne il profumo. Da ragazzo, negli anni Novanta, avevo cominciato, da piccolo il Borghetti era soltanto uno dei vizi di papà e di tutti i tifosi della Roma, una delle loro abitudini più amate. Il tizio che vendeva i Borghetti te ne vendeva tre al costo di due o qualcosa del genere. Te li vendeva in un piccolo cilindro di plastica. Non ricordo se papà se ne comprava uno o due, so che se lo comprava sempre. Borghetti era lo stadio. E niente, a quel punto sostanzialmente stavamo per entrare. Niente tornelli, niente di niente: mostravi la tua tessera a un tizio, il tizio la bucava da una parte – c’erano 16 partite, più una o due omaggio, di solito amichevoli estive – e poi c’era un poliziotto che ti perquisiva (sì, perquisivano anche noi bambini), e poi niente, potevi andare. Non ritiravano né l’autoradio né gli ombrelli né gli accendini né niente di niente, potevamo stare tranquilli, dentro. A quel punto, circa, mancava una mezzora, tre quarti d’ora alla partita: improvvisamente camminavamo lenti, mica solo io e papà, tutti quanti quando avevamo superato i controlli rallentavamo, come se ormai fosse tutto risolto. Ciondolando, o comunque quasi flemmatici, andavamo per le gradinate, avvicinandoci al nostro settore. E poi c’era un momento – sempre stupendo, spesso simile a se stesso, perché Roma era veramente una città solare, come ai tempi di Traiano – in cui capivi che la magia stava per cominciare: quando stavi salendo gli ultimi gradoni, dallo stadio entrava una luce pazzesca, scintillante, caldissima. I cori e i canti li sentivi già da un pezzo, gli odori dello stadio li fiutavi già da un po’, ma la luce cominciava soltanto allora, ed era abbacinante e rigenerante al contempo. In quel periodo c’era stata una pubblicità della Barilla, vecchio sponsor della Roma, che mostrava un ragazzino che saliva su, nel suo settore, e si ritrovava inondato di luce. Era così: salivi, ti veniva addosso questa luce entusiasmante, lo Stadio non aveva nessuna copertura, niente, e oltre la Monte Mario vedevi la statuetta della Madonna di non so che santuario, e spesso là ci stava gente seduta a guardare la partita, lassù, vicino alla statua, ma si diceva che non riuscissero a vedere tutto il campo, una cosa del genere. Salivi, ti iniettavi questa luce romana, sentivi cantare i cori, vedevi sciarpe e bandiere della Roma, e sorridevi. Sorridevi senza guardare niente di particolare. Quella era casa e a casa era sempre bello tornare.

Mentre ci arrampicavamo al nostro posto, papà salutava sempre i vitalizi – mi diceva “Vedi Fra’, loro sono i mitici vitalizi, sono quelli che tanti anni fa si sono svenati nel momento del bisogno…” e io guardavo queste teste grigie con una riconoscenza e una tenerezza fortissimi, anche se ovviamente non sapevo niente di quella storia, di Marina Dettina né di niente, e comunque ero molto contento quando mi scompigliavano i capelli o mi chiedevano cosa pensavo di Dario Bonetti o di Zibì Boniek o di Emidio Oddi, mi dava soddisfazione vederli compiaciuti di come stavo crescendo, di quanto tenevo alla Roma. E niente, e poi andavamo ai nostri posti: autoradio sotto il posto di papà, i giornalacci sopra il marmo, il cuscino del Divino, e poi sedersi, mani sulle ginocchia e guardarsi intorno. “Quanti semo oggi?” “Semo come sempre”, “Ao’, semo i mejo”, “Semo… metti, i 35 mila abbonati e per me almeno 15mila paganti”, “Ao’ io ‘sti occasionali nun li posso vede”, “Dimmelo a me, me stanno tutti sur cazzo”, “Ao’ ma mica semo…” “Ao’ scherzavo, daje”, e niente. Chi era l’allenatore in quegli anni, quando io ero bambino e lo stadio era tutto aperto? Soprattutto Liedholm, era andato e venuto già tre volte, la prima buona, la seconda indimenticabile l’ultima insomma; in mezzo, c’era stato un altro svedese, quello che doveva essere il suo erede, orgoglioso interprete della famigerata “zona”, si chiamava Sven Goran Eriksson, era giovanissimo, veniva credo dal Benfica, non aveva nessun passato come calciatore, era molto educato e molto colto, e a un tratto ci stava per far vincere lo scudetto, nel 1986. L’anno dopo le cose non andarono come pensato e Sven fu esonerato, si ripromise di tornare, perché amava tanto Roma e ai romani era rimasto affezionato, e soprattutto perché aveva lasciato qualcosa di incompiuto. Tornò, dodici tredici anni dopo, forse prima, ma sull’altra sponda: e su quella sponda vinse uno scudetto leggendario. Meglio non pensarci. Meglio cancellare tutto. Roma-Lecce è stata peggio di Roma-Sampdoria. Viene dopo Roma-Liverpool. Dimenticare. In Tribuna Tevere la partita si vedeva proprio bene: io e papà avevamo i nostri posti vicino al Roma Club Poligrafico e vicino ai vitalizi, stavamo addirittura vicino alla metà campo. Ora che ci penso c’era il club Roma Capoccia, da quei pizzi – quando saliva Antonello Venditti tutti si giravano a salutarlo o ad applaudirlo. Era amatissimo.

Roma borghese – piccolo e medio borghese – stava tutta là in Tribuna Tevere, e io penso di aver capito più cose della mia città e dei miei concittadini in quei dodici tredici anni passati con papà allo stadio piuttosto che in vent’anni di lavoro o di riunioni condominiali. C’erano il medico, l’architetto e il carrozziere, c’erano i vitalizi che nessuno sapeva esattamente che mestiere avessero fatto, un tempo, c’erano i regazzini, c’erano i negozianti, c’erano i borgatari con la catena d’oro al collo e il lupetto di Gratton col diamantino rosso, e c’erano i ministeriali. C’erano quelli che parlavano in un romanesco trasteverino e c’erano parecchi altri con un accento mezzo abruzzese mezzo calabrese mezzo partenopeo, indefinibile, che immaginavo essere romanizzati da una o mezza generazione. Non c’erano nordici – io, come mezzo istriano mezzo triestino, ero imboscato; parlavo romanesco come avevo imparato a scuola, e nessuno chiedeva niente; l’accento cispadano era sospetto e se mai ci fosse stato qualcuno che veniva da quelle parti allora tendeva a un ostinato riserbo, sui nostri spalti. Ti chiacchieravano subito. Ti consideravano lontanissimo.

C’erano quelli che aspettavano la prima occasione buona per dire qualunque cosa all’arbitro e quelli che se ne stavano zitti e buoni tutta la partita, e magari poi sui gradoni cominciavano a borbottare. C’erano quelli maneschi – oddio, erano pochetti davvero: in dodici o tredici abbonamenti avrò assistito a due scazzottate. Non è stato comunque piacevole – e c’erano quelli paciosi, c’erano quelli col vocione e quelli con la vocetta, c’erano quelli che quando insultavano sembravano personaggi di Plauto e c’erano quelli che si emozionavano quando facevamo la sciarpata, magari quando si cantava l’inno. C’erano quelli con le sciarpe del secondo scudetto e quelli con le sciarpe fatte a mano a casa.

C’era quello che conosceva i giocatori, e – classico – c’era quello che conosceva quelli amici dei giocatori, e perciò sapeva tutta una serie di retroscena, di pettegolezzi e di aneddoti, conditi da rassicurazioni tipo “non ce potevo crede manco io invece…” e “guarda che ‘sto amico mio è proprio stretto co’ quelli der giro de Renato, eh?” che ovviamente tu dovevi ascoltare e tesaurizzare e propagandare appena uscito dallo stadio. C’era quello che una volta era andato in ritiro a Brunico e s’era ritrovato con il pallone firmato da tutti i calciatori e quello che invece ogni tanto andava in trasferta e ti guardava sempre con sufficienza, perché è troppo facile seguire la Roma soltanto in casa, perché in trasferta è tutta un’altra cosa, perché è là che c’è bisogno, perché tu non sai che c’hanno fatto a Torino, tu non sai che c’hanno tirato addosso a Milano, cioè che te lo dico a fare che quando vai a Verona basta che te sentono di’ mezza parola in romanesco che subito, no?, ecco. C’era quello con la radiolina, te l’ho già raccontato, e c’era quello con le scaramanzie. C’era quello con la bandiera (raro, in Tevere) e c’era quello che veniva con l’amico. Donne erano poche ma agguerrite, estremamente appassionate. Nessuno alzava i cori – tutti cantavamo quello che cantava la Sud – e una volta ogni qualche anno capitava che partecipassimo a una coreografia esclusiva della Tribuna: a un derby ci consegnarono dei manicotti di stoffa, uno giallo uno rosso, a un Roma-Juve ci diedero una sorta di girella giallorossa, forse altre volte dei cartoncini colorati (ma in quei casi non capivamo bene cosa stavamo facendo, esteticamente eravamo leggibili soltanto dal resto dello stadio, dall’altra Tribuna e dalle due Curve). C’erano i laziali (sì, soprattutto negli anni Ottanta, quando la Lazio stava più in serie B che in serie A), che venivano a curiosare, magari perché avevano rimediato un biglietto gratis oppure perché sostituivano un abbonato che aveva avuto qualche problema o qualche grana (l’innovazione della foto sulla tessera risale a circa metà anni Ottanta, e pure allora bastava entrare mettendo un dito sopra la foto per evitare equivoci e bisticci all’ingresso; qualcuno allungava pure diecimila lire e tanto bastava). Roma borghese scendeva allo stadio e nello stadio si riconosceva e si identificava: per la prima volta nella sua allora neanche sessantennale storia la Roma stava vincendo qualcosa e si stava facendo apprezzare a livello internazionale; io ero bambino e con quella Roma c’ero nato e cresciuto, per cui mi sembrava tutto meravigliosamente naturale, ma mio padre mi aveva spiegato bene quanto fosse stato difficile e malinconico essere tifoso della Roma negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, nonostante il passaggio di campioni come Lojacono, come “Piedone” Manfredini, come De Sisti, come il mitico “Kawasaki” Rocca, come il povero Taccola. Bene che andava potevi festeggiare una coppa Italia, una volta ogni tot anni; la coppa delle Fiere veniva ancora celebrata con orgoglio (all’epoca veniva trattata con ben diverso rispetto); lo scudetto una chimera. Poi era venuto Dino Viola col Barone Liedholm e col Divino, e tutto era cambiato. Io pensavo “per sempre”. Sbagliavo.

Guardavo le partite sognando di potermi ritrovare là in mezzo al campo, un giorno, come Ciccio Desideri, che veniva da Monteverde, come me, o al limite come Tonino Tempestilli, ex Banca di Roma ed ex Como, terzino negli ultimi anni di Liedholm. Avevo già capito i miei limiti tecnici – quelli caratteriali li ho scoperti invecchiando, e invecchiando mi ci sto raccapezzando, con qualche fatica – ma ragazzino com’ero potevo ancora contentarmi di diventare un discreto terzino sinistro, magari rabbioso, potente e grintoso come Sebino Nela. Mio padre amava la Roma ma detestava il calcio, come ambiente – diceva sempre che il calcio era un ambiente di merda e io lo contestavo subito parlando invece dello stadio e della Roma, che erano casa nostra e amore puro, fede – ma in ogni caso, ostinato nel suo antagonismo a questo ambiente, ambiente che non capivo proprio come facesse a conoscere così a fondo, non mi mandò mai a scuola calcio, con la magnifica scusa della polvere dei campacci di periferia (soffrivo di asma allergica, non ho mai capito quanto psicosomatica per via di mia madre, penso parecchio). Io però sognavo, “Sognavo uguale”. Nessuno poteva impedirmi di sognare. A un certo punto, avevo dieci-undici anni, venivo da cinque-sei anni di karate (l’ambiente del karate a lui piaceva: ovviamente non ne sapeva niente), un giorno ricordo che giravo con papà per il quartiere, ci trovammo in un negozio a parlare con un tizio, forse un corniciaio, e un suo cliente; quel suo cliente era un allenatore del san Pancrazio, la scuola calcio più prestigiosa del mio quartiere, quella con maggior tradizione. Parlavamo di calcio e della Roma, l’allenatore a un certo punto mi chiede che sport faccio, io rispondo “karate”, mio padre aggiunge “ah, è cintura blu” o qualcosa del genere, e lui “ammazza ma il fisico per giocare a pallone ce l’hai”, e io “ah ecco, infatti”, e papà prima glissa, poi dice “è un ex asmatico, è un asmatico pentito”, e io subito irrompo, “guardi che sono molto veloce ma non ho molta tecnica”, e già sto per spiegargli che Amedeo Carboni della Sampdoria è qualcosa di simile, ma poi niente, non ricordo come finisce quella storia, finisce forse che mio padre dice “Franco è un grande tifoso della Roma e un buon karateka, ha vinto una medaglia d’oro un anno fa”, e io che vedo sfumare quel campo di terra rossa, il prato dell’Olimpico, la maglia della Roma, la corsa sotto la Sud, le interviste e tutto quanto, e penso al mio compagno di scuola Andrea Giulii Capponi che invece gioca a san Pancrazio da quando ha sei anni e che tecnicamente è sbalorditivo e finirà per davvero a giocare nella Roma, lui sì, e pure in Nazionale per un bel pezzo, qualche volta Buffon andava in panchina e Andrea era titolare, credo a livello di Under 16 o 17, e niente, se penso a quell’incontro penso all’ultimo treno passato quando già ero quasi fuori età ma forse potevo anche rimediare, invece niente, di lì a poco riaprivano l’Olimpico – era stato chiuso un anno e mezzo per i lavori di ristrutturazione, la Roma di Gigi Radice aveva giocato una stagione intera al Flaminio – e si prospettava la Roma di Ottavio Bianchi, torniamo in Tribuna, papà?, torniamo, quest’anno torniamo, vedrai com’è diventato lo stadio, ma i giornaletti li daranno ancora? E certo, ma dice che non ti fanno più entrare con l’autoradio, l’ombrello manco ma tanto con la copertura non serve più, dice, e manco i cuscinetti, come manco i cuscinetti?, niente, ormai ci stanno i sedili, e coi sedili bastano i giornalacci che ti prendi fuori dallo stadio, te li metti sotto il culo e buonanotte, ti guardi la partita, ma la Palla è rimasta?, dici la Palla fuori dallo stadio, dico quella!, dice certo: anzi ci daremo appuntamento col mio amico Gianni Spadoni proprio là fuori, alla palla, per la prima di campionato, e poi andiamo e speriamo bene, ma tu che dici della Roma di Bianchi?, non so ma la campagna acquisti non mi sembra sia stata particolarmente indovinata, ma comunque ci abboniamo, no?, e certo, quest’anno ci torniamo, e poi vediamo. E poi vediamo.

Da quando hanno montato la copertura allo Stadio è cambiata la luce della Tribuna Tevere. Quando entri sei più portato a guardare verso la Curva Sud che verso il cielo. L’emozione è differente. Il sole di Roma è meno estasiante. Sono scomparsi i cappelli alla muratora fatti col “Corriere dello Sport” o coi giornali distribuiti fuori dallo stadio, sono scomparsi o quasi i torsi nudi o le canottiere, quando fa caldo, e sono spariti i cuscini e i cuscinetti. I primissimi tempi qualcuno rompeva o smontava i seggiolini, poi ci siamo abituati a quella plasticaccia. Sono passati trent’anni – e adesso non so bene che Tribuna sia: quando mio padre ha smesso di andare allo stadio, nel 1994, ho cambiato settore. E poi, quando è arrivato Pallotta, ho smesso di andare allo stadio anch’io, otto anni fa. Mio figlio ha cinque anni e ha cominciato la scuola calcio a quattro. Gioca solo col sinistro, col destro ci sale in autobus. È estremamente veloce ma non particolarmente tecnico. Mi ricorda qualcosa. Spero diventi più forte di me e che soffra meno di me per le sconfitte. Tifa Roma ma non ha mai messo piede allo stadio, ma rispetto a me alla sua età ha visto un numero imbarazzante di partite, grazie alla tv satellitare. Ogni tanto provo a raccontargli com’era quando tutte le partite si giocavano la domenica, alle tre, e se non andavi allo stadio non avevi nessuna possibilità di guardarle: grande il suo stupore quando spiego che le partite altrimenti potevi fartele raccontare dalla radio, immaginandotele da casa, magari con l’album delle figurine di fronte. Più di tutto non ha capito cosa siano quei due manicotti, rosso e giallo, che ha ritrovato in uno dei miei cassetti, in biblioteca, vicino al cuscino di un certo Falcão, alla bandiera gialla dell’addio al calcio di Bruno Conti, a svariate vecchie tessere di carta e a un “Corriere dello Sport” del 17 giugno 2001. Poi papà ti spiega. Poi papà ti spiega tutto.

Gianfranco Franchi

2019/2020