Sulla perdita, sul vuoto e sulla visione. Quattro chiacchiere sulla piccola e media editoria

A sessanta giorni di distanza, siamo a buon punto: in questo momento, la pagina dedicata alle mie letture conta circa 975 titoli; attorno a fine settembre, quando avrò completato il lavoro di revisione e ripubblicazione dei vecchi pezzi, saranno oltre 1400. Sono circa quattordici anni di lavoro, come già vi raccontavo, sparso tra Lankelot, BlowUp, Secolo, Riformista, Mangialibri, Ponte Rosso, Alfabeta2, tra 2002 e 2016. In questi ultimi mesi, ritornando su tanti articoli che dormivano nel mio hard disk da diverso tempo, ho potuto osservare una serie di cose che potrebbero essere di comune interesse: riguardano l’editoria italiana, per lo più, riguardano ciò che è successo in questi ultimi dieci anni, raccontano un po’ di cose, credo.

Qual è la prima cosa che ho notato, durante questo lavoro di revisione così lungo e così lento? Ho notato che, negli ultimi anni, ho perso – e voi con me – tanti punti di riferimento della piccola e media editoria; tanti, troppi, e l’impatto è disorientante, frastornante e ovviamente, in qualche misura, preoccupante.

Porto i quattro esempi più eclatanti. Ero abituato, da scrittore, da lettore forte e da addetto ai lavori, a rapportarmi con le linee editoriali e le scelte editoriali di circa trenta-trentacinque case editrici, in particolare: amavo e apprezzavo, per esempio, la collana “Novecento Italiano” di Davico Bonino, per la ISBN Edizioni, e sempre della ISBN apprezzavo gli Antimeridiani [Bianciardi, Del Buono] e i libri di calcio “alto”: uno su tutti, “L’alieno Mourinho” di Sandro Modeo. Niente: ISBN edizioni non esiste più.

Amavo la prima Alet, demiurgo Simone Barillari, in catalogo una serie di memoir micidiali [uno su tutti: “Non c’è scampo” di Jack Black], una limpida sensibilità per la grande letteratura occidentale [su tutti, il primo Vollman, “Afghanistan Picture Show”]: niente, Simone Barillari a un tratto non è più stato direttore editoriale, c’è stata un’ultima fiammata con la regia della Belloni, pochi anni dopo, poi la Alet è sparita, non credo esista più.

Veneravo la :duepunti edizioni di Palermo, ideata e retta dalle intelligenze di Andrea Libero Carbone, Giuseppe Schifani e Roberto Speziale, espressione di un coraggio e di una sensibilità uniche. Massimo risultato: “Europeana” di Ourednik. In mezzo, tanta filosofia e tanta saggistica di qualità, e una buffa collana di “scritture animali” tutte italiane. Niente, la :duepunti edizioni non esiste più.

Avevo imparato a leggere l’ex Europa dell’Est sotto la guida di Giuliano Geri, demiurgo della Zandonai, casa editrice nata per essere la piccola Adelphi dei Balcani: massimo risultato, “Via Pola” di Velikic, e forse “Dolodi” di Stelio Mattioni [già, Trieste è parte dei Balcani]. Niente: la Zandonai non c’è più, Geri non è più direttore editoriale di niente da anni. Com’è possibile?

Questi sono solo i quattro casi più clamorosi – direi anzi proprio assurdi, pensando alla qualità del catalogo di queste case editrici – ma l’elenco è purtroppo lunghissimo: spendo qualche altro nome, la Meridiano Zero di Marco Vicentini, pioniera del noir e spesso felice nelle rare scelte di narrativa italiana [da Permunian in giù], ha cambiato proprietà e veste grafica e, senza Vicentini, è praticamente sparita dalla circolazione; la Coniglio è crollata e credo oggi non esista più, bruciando un catalogo che vantava una serie di scelte di tutto rispetto, dai libri illustrati ai fumetti, dai libri di musica a una narrativa insolita e bizzarra; parecchi altri marchi che si stavano facendo riconoscere e apprezzare per la coerenza della linea editoriale hanno chiuso o sono passati di mano, perdendo coerenza e riconoscibilità, oppure si sono così rimpiccoliti che adesso si intravedono soltanto alle varie Fiere [cosiddetti “marchi da fiera”]. Oppure – sorte peggiore, perché indicibile: in senso stretto – si sono trasformati in sinistre (in tutti i sensi) “macchine da debito”: hanno aumentato a dismisura le pubblicazioni, ridotto ovviamente le tirature, ridotto all’osso il personale, affidato le sorti alla santa pazienza della Guardia di Finanza [e delle forze dell’ordine, in genere] e messo a tacere come possono le notizie relative ai varii decreti ingiuntivi, alle colorite cause di lavoro o ai telefoni bollenti in redazione, a tutte le ore. E così, di certi storici vecchi marchi della piccola e media editoria, rimane, a ben guardare, solo il nome: alla fine dei giochi, come già hanno fatto in passato, si venderanno solo quello. Intanto però le librerie di catena loro amiche fanno finta di niente (come possono, quando possono…). E il giornalismo culturale si gratta sotto il mento, per lo più. Poi sbadiglia.

Ecco: torniamo a monte. Questo fenomeno della “chiusura della baracca”, di tante baracche degnissime della piccola e media editoria, oppure del “frazionamento della baracca”, o addirittura della sua “ultima trasformazione” prima del tracollo, mi ha un po’ turbato: parecchio, anzi. In parte perché mi ha ribadito che sto faticando tanto, negli ultimi anni, a individuare nuove pubblicazioni degne, notevoli o almeno interessanti, perché sono sparite le intelligenze e le personalità che le promuovevano; in parte perché mi ha costretto a prendere atto che se chiudono i migliori c’è davvero poca speranza per la sopravvivenza degli altri, rimasti ancora stoicamente in piedi; in parte perché mi ha fatto sentire nostalgia per un periodo in cui, evidentemente, è stato possibile nutrirsi di bellezza, personalità e intelligenza senza avere coscienza della loro rarità.

Oggi, tolte le soddisfazioni che periodicamente mi vengono dalle solite eccellenze editoriali superstiti [grandi nomi come Adelphi, Laterza, più raramente la decaduta Einaudi], e tolta qualche gioia che viene da buoni marchi consacrati alla saggistica [Carocci, Piano B, il però compromesso Mulino], sto tornando a ragionare in termini di argomento, o in termini autoriali, e non più, o sempre meno, in termini editoriali: cerco libri vecchi o nuovi di autori che già apprezzo o conosco, cerco altri libri sui miei argomenti preferiti (sulle mie ossessioni: sulle mie debolezze) e mi limito a controllare il marchio della casa editrice per evitare di comprare edizioni falcidiate dai refusi, dalle negligenze o dagli errori. Mi sto diseducando al rispetto della “linea editoriale” e allo studio dell’intelligenza che quella linea dettava, nell’ombra. Probabilmente non sono il solo. È un effetto della progressiva desertificazione, e della sempre più imbarazzante somiglianza tra mainstream e quelle che dovrebbero essere le “linee alternative”. È un peccato, non ci piove.

Intanto, giorno dopo giorno, fatico tanto a capire come sia possibile che certe intelligenze stiano a spasso o peggio siano “altrove impiegate” o “occasionalmente impiegate”: se avessi qualche milione di euro da spendere, per dirla tutta, immagino che fonderei una casa editrice bifronte, con due direttori editoriali: Giuliano Geri per guardare a Est, fino alla santa Russia, Simone Barillari per guardare a Ovest, fino all’Alaska. Maurizio Ceccato art director, poi una collana di narrativa italiana del Novecento affidata a Davico Bonino e una collana di saggistica affidata ad Andrea Libero Carbone, a Speziale e Schifani. Troppa classe, troppa originalità o troppa intelligenza tutta insieme? Ma no. Non vi sentite annoiati dalla paurosa ripetitività della narrativa in circolazione, sia italiana sia tradotta in italiano? Non vi sentite infastiditi dalla scarsa personalità delle pubblicazioni in circolazione? Non vi sentite stufi di dire che un’esperienza estetica è stata “interessante”, “carina”, “trascurabile”, “discreto intrattenimento” e così via? Non avete voglia di tornare a confrontarvi con chi ha una visione più complessa e più sottile della realtà? Perché questo dovrebbe essere la linea editoriale di una casa editrice, soprattutto in un’epoca di passaggio (o di collasso) come questa.

En passant, concludendo queste amare e stupite meditazioni, ho pensato che si sta avvicinando la prima fiera della piccola e media editoria, a Roma, in cui con ogni probabilità il numero degli stampatori, degli editori a pagamento e degli editori “a doppio binario” avrà ampiamente superato il numero dei veri editori: il risultato di un simile sorpasso sarà, oltre all’impoverimento della fiera, un eclatante senso di umiliazione per i pochi superstiti di un mondo che si avvia all’estinzione, o alle riserve indiane [abbonamenti, amarcord…]. Oppure, chissà… magari viene fuori un po’ di rabbia, un po’ di stile, un po’ di intelligenza, e un po’ di capitale. Non si è ancora fatto tardi. Forse.

Franchi, 11 agosto 2016

1900-acquedotto claudio-romaPS Dovrei finire di revisionare e ricaricare tutto il materiale entro il 20 settembre. Da lì si guarda avanti, promesso, ché del torcicollo son sazio.