La strada maestra per raccontare cos’è stato Internet letterario, nell’arco di questi ultimi quindici anni, sta in questo gioco qua: ritornare con la memoria agli anni in cui non esisteva Internet, o almeno non era accessibile alla maggioranza assoluta della popolazione. Sino alla metà abbondante degli anni Novanta, un marmocchio che voleva capire qualcosa dei meccanismi e delle dinamiche delle patrie lettere, aveva tre possibilità: la prima, cominciare a frequentare presentazioni e rassegne varie, imparando sul campo a prendere le dovute distanze da quelle volgarmente amatoriali come da quelle ingiustamente pretenziose. Questa prima possibilità valeva, per lo più, per chi abitava nelle città in cui c’è uno straccio o un’ombra di vita letteraria, e in cui si registra la presenza di qualche casa editrice di singolare personalità e catalogo: Roma, Milano, Firenze, Torino, Palermo, Padova. Naturalmente, si perdeva, tendenzialmente, un sacco di tempo; ma nell’arco di qualche anno diventava possibile, sulla base dell’osservazione sul campo, imparare a risparmiare un sacco di tempo, frequentando poche e scelte presentazioni, ostracizzando o trascurando tutta una serie di marchi, di relatori, di autori, scoprendo quanto facile fosse scoprire quanto piccolo è il mondo editoriale, e quanto numerose siano le analogie tra una e un’altra realtà. E via dicendo.

La seconda possibilità, per il nostro marmocchio con qualche inclinazione per la letteratura e un crescente interesse per le oscure e buie vicende dei letterati, e dei lettori, era scandagliare il massimo numero possibile di riviste letterarie, studiandone rivalità, antagonismi, gemellaggi, firme, sponsor e pubblicità (pubblicità? Pubblicità). Il problema era, come forse qualcuno tra voi ricorderà, che c’era una quantità straordinaria di riviste letterarie, sostanzialmente una per paese di mille abitanti o giù di lì, e nelle grandi città c’erano le solite faide medievali tra vari circuiti un contro l’altro armati, smaniosi di violenza verbale e gioiosi nella diffamazione. Come se non bastasse, riuscire a farsi spedire queste riviste non era semplice; in edicola, ovviamente, ne arrivavano due o tre, cioè “Pulp”, “Poesia” di Crocetti e qualcuna che ogni volta durava un anno o due e poi buonanotte; in qualche libreria specializzata, magari in poesia o in piccola e media editoria, ne spuntavano spesso un colorito e pittoresco buon mazzetto; le vecchie Feltrinelli ne ospitavano spesso parecchie di cui non si era mai sentito nemmeno parlare. Ognuna di loro conteneva segnalazioni di almeno altre cinque, sette riviste. Nell’arco di qualche anno il marmocchio poteva riuscire a capire chi comandava, chi era influente, chi era felicemente laterale, chi non contava niente, chi si dava arie e basta. Chi era fico. Chi era grigio. Chi faceva marchette. Chi si sforzava di non farne.

La terza possibilità per questo nostro marmocchio era fondare un suo circuito, o almeno andare in cerca di suoi simili per animare un cenacolo, un salotto, un caffè, una rivista. Tutti i marmocchi finivano per fondare una rivista. Fondare una rivista significava, a un primo stadio, due cose: aver individuato un discreto numero (da tre a dodici) di sodali (apostoli), letterati con velleità e ambizioni scrittorie loro stessi; avere la possibilità di scambiarsi più rapidamente, con minore fatica e con la massima efficacia notizie, scoperte e dritte sul favoloso ambiente editoriale e sul fiabesco e ricco (sì, d’amore) mondo dei letterati. A un secondo stadio, fondare una rivista significava, facilmente e a volte quasi istantaneamente, montarsi la testa. Questo succedeva in parte perché si era molto giovani, in parte perché non si aveva la più pallida idea della facilità relativa e universale, qui nel Mediterraneo, di arrivare a vendere (“far circolare”) poco meno di mille copie, in parte perché si pensava che in Italia esistesse una sorta di “cursus honorum”, e un “circuito dei circuiti” capace di valorizzare, nel tempo, anche economicamente e comunque stabilmente, i migliori talenti e le migliori intelligenze (competenze). Queste riviste duravano una manciata di numeri, sparpagliati in una manciata d’anni. Superati i primi due-tre, tutto diventava molto più faticoso e complicato, e costoso. Soprattutto: si cominciava a capire quanto strampalata (“poetica”) fosse la logica di lavorare o in perdita, o nel mito del pareggio.

In estrema sintesi: le notizie sull’ambiente letterario, sulle vere case editrici, sulle riviste e sulle pubblicazioni erano pochissime, difficili da individuare, faticose da raggiungere, spesso costose, e almeno sulle prime sempre complicate da selezionare – difficili da gerarchizzare. I migliori marmocchi hanno impiegato almeno qualche anno per decifrare con la dovuta chiarezza e con un dignitoso margine di errore la differenza tra i dilettanti da strapazzo, gli amatori senza pretese, gli amatori alla Morselli o alla Landolfi, i pochi (pochissimi) veri professionisti, infine i figli di papà (o le mogli o i mariti di papà). I peggiori marmocchi, e i marmocchi mediocri, non hanno imparato mai.

Il mondo letterario, questo borghetto fatiscente raccolto ai piedi d’un grande, torvo castello, s’avvicinava e si lasciava guardare negli occhi dopo qualche anno di studio dell’ambiente, di faticosa osservazione sul campo e di dispendiosa ricerca di sodali, e di notizie. In quell’epoca, con questo primitivo percorso iniziatico, accadevano due cose: cadevano, falcidiati dalla noia, dall’amatorialità e della miseria del nostro ambiente, un numero improbabile di persone, pure talentuose e volenterose. E così c’era molta meno concorrenza, e più ordine. E poi, quelle che restavano, avevano chiaro un concetto: c’era pochissima gloria da conquistare, poca strada da fare, mediamente poca lira, e poca gente davvero da conoscere, difficilissima da stanare. Le riviste da leggere o almeno da consultare non erano cento e nemmeno cinquanta come sembrava. Forse erano meno di dodici. E così via.

Tutto a un tratto, un bel giorno, Internet è entrato in un buon numero di case. Non ho sottomano dati ufficiali, ma se scavo nella mia memoria posso sbilanciarmi: nell’anno zero degli anni Zero, accedevano alla Rete un buon 30, 35% dei giovani universitari con ambizioni, interessi e velleità letterarie; incluse quelle romantiche e forse inesistenti creature che chiamavamo, arrossendo, “i lettori”. Noi pionieri ci trovammo di fronte a campi sterminati, a un “non luogo” letteralmente sconfinato, a quella che sembrava la materializzazione di un sogno: finalmente vedeva la luce un media fatto fondamentalmente di parole, fondato quasi esclusivamente sulla scrittura, ultraeconomico da ogni punto di vista, e potenzialmente capace di azzerare quelle distanze che tanto avevano complicato le nostre relazioni e i nostri progetti d’adolescenza e di gioventù, massimizzando la distribuzione dei nostri scritti a numeri che nemmeno ci sognavamo esistessero, cancellando la massima parte delle fatiche per riuscire a “mappare” le fonti delle notizie letterarie, riviste, inserti letterari, rubriche, rassegne e via dicendo, stabilendo i presupposti per entrare in contatto con intelligenze letterarie uniche o straordinarie.

Internet sembrava così assolutamente, inequivocabilmente fatto di parole che non aveva nemmeno senso fare una distinzione tra “internet letterario” e il resto del web. In quei primi anni Zero, per scaricare una canzone passavano a volte anche ore intere, per caricare una foto ad alta risoluzione passavano minuti interminabili, pensare di poter guardare, in streaming, un video di qualche minuto o di poterlo caricare autonomamente dal proprio computer era un’allegra fantasia. In quei primi anni, in Internet, si scriveva, dappertutto: si scriveva nelle chat, si scrivevano tantissime email (troppe), si scriveva nei siti commerciali, si commentava – e ci si massacrava, nei commenti – ai piedi degli articoli o dei racconti pubblicati, nei tanti siti e forum letterari e negli altrettanti e variegati siti e forum commerciali, come se non ci fosse un domani. Soprattutto: nella convinzione che avesse senso, che avesse peso, che si fosse letti; che si venisse letti come mai era successo in passato, soprattutto negli anni in cui si stampava la rivista letteraria e si festeggiava, con emozione, la consegna della cinquecentesima copia della rivista.

In quegli anni, abbiamo avuto, tutto a un tratto, la sensazione che i tempi cupi in cui parlavamo da soli, o ci si parlava addosso in dieci, venti o trenta, facendo ricche le copisterie e le poste italiane, fossero finiti: le statistiche parlavano, a volte, di varie migliaia di visite giornaliere, e man mano le case editrici e la critica cominciarono a interessarsi a questo fenomeno, scoprendo che i lettori stavano passando dalla pletora delle vecchie riviste e dei pochi ma buoni periodici culturali, e degli altrettanto pochi ma buoni inserti letterari dei quotidiani, alla pletora delle riviste letterarie sul web – prima si chiamavano “siti web”, poi apparvero i “forum”, spesso a fiancheggiare i siti; poi vennero i “blog”, poi i “blog collettivi”, poi le “webzine”, ma insomma sempre trasformazioni, adattamenti o evoluzioni delle vecchie riviste eravamo. E ogni rivista segnalava altre dieci, quindici, venti riviste; e facilmente i nomi si ripetevano, e non si faticava troppo a capire cosa valeva e cosa no. Gratis. Bene.

Si può dire che a un tratto, negli anni Zero, a qualcuno tra noi è sembrato che la civiltà della scrittura potesse soppiantare la civiltà dell’immagine imperante, la civiltà egemone televisivocentrica e imagocentrica? Sì. Sembrava proprio che Internet sarebbe stata la nostra consolazione, la nostra fortuna e la nostra rigenerazione. Sembrava davvero che avremmo finito per costruire una robustissima riserva di intelligenza in cui avremmo potuto far circolare, a costi ridicolmente bassi rispetto al passato, con fatiche irrisorie rispetto al passato, con successi prima impensabili, tutta una serie di notizie e di conoscenze, plasmando circuiti vivaci e originali. Penso a quegli anni in cui in Rete c’erano delle riviste letterarie di così grande qualità che mai avevo sperato potessero esistere, qui in Italia. Erano là, sempre disponibili, periodicamente aggiornate, gratuite e tutte letterarie; non mummificate come oggi. C’era RaiLibro, c’era la vecchia Nazione Indiana, c’era Carmilla, c’era Il Paradiso degli Orchi, c’eravamo noi di Lankelot, c’era Blackmailmag, c’era (c’è) Il Mangialibri, c’erano tutta una serie di “riviste digitali” estremamente interessanti, c’erano tutti i cataloghi delle case editrici on line, e così per le biblioteche. Non c’erano le vecchie riviste cartacee trainanti, la gloriosa “Pulp”, il famigerato “Lo straniero”, la romantica “Poesia” o “Stilos”. Vero. Loro avevano scelto una strada diversa, più coerente, meno sperimentale e più aristocratica. Ma c’erano altre eccellenze.

C’era un clima fertilissimo, c’era – mi sembra – speranza. Speranza di essere parte di un cambiamento culturale potente, forse addirittura prodigioso. Ogni navigazione era una favolosa iniezione di stimoli e di suggestioni. Ma poi s’è spezzato l’incantesimo, tutto a un tratto. Nella seconda metà degli anni Zero, attorno al 2008, ha avuto inizio la metamorfosi del web. I fattori scatenanti sono stati tre: primo, l’incredibile velocità delle connessioni, rispetto a fine anni Novanta e ai primi anni Zero; velocità che ha consentito di poter guardare film sul computer, scaricare album in quattro e quattr’otto, ascoltare qualsiasi radio, pubblicare e guardare rapidamente foto ad altissima definizione, e via dicendo. Secondo, l’allucinante e netta consacrazione di un social network, Facebook, capace di una penetrazione tanto capillare da essere, sostanzialmente, pressoché universale, e magnetizzante nei confronti degli analfabeti e dei neofiti, come, infine, della “vecchia guardia” dei navigatori; terzo, lo “sbarco” serio e consapevole, sul web, della totalità dei quotidiani, a volte con tanto di archivio, e di un enorme numero di riviste; soprattutto, addirittura, delle televisioni. Con tanto di buona parte dell’archivio, almeno nel caso della Rai, qua in Italia. Mentre scrivo – settembre 2013, su un treno che mi sta trascinando un’altra volta a Roma, a vivere un pezzetto della mia vecchia vita – queste dinamiche sono pienamente in atto, ma in sostanza direi che si può pacificamente ammettere che Internet non ha più quasi niente a che fare con la civiltà della scrittura, che piuttosto si sta trasformando nel primo e migliore alleato della civiltà dell’immagine, che i nostri vecchi pc, i nostri mac, si stanno trasformando in monitor, e cioè in televisori leggermente più interattivi, e che in questo contesto le nostre “vecchie” (si fa per dire) riviste letterarie digitali sono diventate, stanno diventando, l’osso di seppia di un periodo, quasi una decade, in cui avevamo pensato che Internet realmente potesse essere un approdo per i movimenti letterari, per le riviste letterarie, per chiunque volesse scrivere: in cui avevamo pensato che potesse elegantemente affiancarsi all’editoria cartacea, per supportarla e migliorarla. Potevamo essere vivaio o porto franco. Stiamo diventando soffitta o scantinato.

Mentre scrivo, so già che il mio primo istinto, una volta tornato comodamente a casa, sarà controllare non la mia mail, e nemmeno il mio vecchio sito letterario, e nemmeno i vecchi o meno vecchi concorrenti: io andrò subito a controllare il social network, perché so che là c’è stata vita, in queste ultime ore, là c’è stata circolazione di notizie e di (sempre meno) commenti, là s’è data, rapidamente, voce a sentimenti o progetti, là e non altrove. In realtà potrei già farlo tramite il mio telefonino, o tramite il tablet. È facilissimo, è questione di niente. Ma rinvio. Rinvio il divertimento come posso.

Cosa sta succedendo a Internet letterario? Cosa sta succedendo alle riviste? Semplice: stanno andando a ramengo. Sono andate già a ramengo, in parecchie. Prima si sono diradati i commenti (fine 2008), quasi fino a sparire; poi si sono ridotti gli aggiornamenti; intanto, man mano, si dimezzavano, fino alla decimazione, i lettori. La mia teoria è che, con queste velocità di connessione, e con questa ricchezza di offerta “visiva” a portata di mano, e con questa assurda rapidità di aggiornamento, e proliferazione delle notizie, ovunque, Internet sia diventato l’opposto di ciò che amavamo e di ciò che cercavamo, l’oasi di civiltà della scrittura, a misura d’uomo; il nuovo media alleato dell’intelligenza e della critica; il ponte dei ponti. Piuttosto, si è trasformato, si sta trasformando, nel nostro peggiore incubo, cioè nel televisore orwelliano che ovunque ci segue, e ovunque è installato, e a volte sa tutto, sa troppo di noi. A questo punto, per sopravvivere, forse è questione di “ferro”, cioè di “device”, del supporto tecnologico. Oppure, ci si può preparare ad un ritorno alle dinamiche e alle distanze del vecchio mondo di carta degli anni Ottanta e Novanta, semplicemente “traslato sulla Rete” come niente fosse, ripristinando, intatte, quelle logiche polverose che raccontavo in apertura: torneremo a essere il paese delle mille, diecimila, centomila riviste letterarie di otto o dodici pagine, cinquecento, settecento copie l’una, anarchico e sregolato, e forse illeggibile… e ciò che è stato lo racconteremo come un’utopia. Un’utopia, a questo punto, imbarazzante.

Gianfranco Franchi

[scritto nel settembre del 13. riletto e lasciato intatto nel giugno del 14]

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