Una volta ho sognato di trovarmi a giocare a pallone al di là dei bastioni di una vecchia città veneziana. Una vecchia città che non conoscevo e tuttavia mi era famigliare: come se fosse stata parte della mia adolescenza, o di qualche ricordo di giovinezza che pure non ho. Quella vecchia città veneziana era Zara. Non posso dire di averne nostalgia, perché non ho mai camminato per le sue antiche strade. So che ho sempre sentito profonda simpatia per Zara, e per i vecchi zaratini. E ho sempre desiderato vedere cosa è rimasto di lei, dopo l’urbicidio alleato della Seconda Guerra Mondiale, su imbeccata – si dice – dell’oscuro e sinistro Maresciallo Tito. Ho sempre desiderato vedere cosa è rimasto di lei, perché Zara è stata sfigurata o disintegrata da una serie di incomprensibili, ripetuti bombardamenti aerei, e migliaia di suoi figli sono morti, e molte migliaia sono esodati, per lo più alla volta di quel che restava dell’Italia, da Trieste in giù. So che era bellissima – che era una Venezia in miniatura, arroccata sulla costa dalmata. Poco più di un anno fa, ho trovato, sui banchi del libraio Fausto Gallo, a Trieste, un vecchio memoir di uno dei suoi esuli, Antonio Cattalini: si chiama “I bianchi binari del cielo” ed è la sintesi della distruzione e della cancellazione di Zara, completa di foto che finiscono per togliere il fiato, per ammutolire. È un libro oggi inspiegabilmente irreperibile: eppure è una lezione di storia patria, e di storia del Novecento, che avremmo dovuto mandare a memoria, e insegnare ai nostri piccoli. E così via. Invece, niente.

A Zara si trovavano – chissà cosa ne rimane davvero, oggi: e come vengono conservati – i diecimila volumi della biblioteca del grande letterato, dalmata e italiano, Pier Alessandro Paravia. Sono stati per cento anni parte della Biblioteca Comunale Paravia, nell’antica loggia veneziana di Zara: la principale biblioteca dalmata. Oggi, i resti dell’antica donazione di Paravia, uno che invitava i suoi compatrioti a studiare con amore la loro lingua, perché in ciò stava la futura loro grandezza, si trovano nella “Narodna Biblioteka” della croata Zadar: una città che è così ostile alla sua storia e al suo passato che, quando pochi mesi fa si pensava di ribattezzare una strada superstite col suo antico nome, “Calle Larga”, qualcuno ha finito per ritrovarsi una bomba a mano in giardino: per la maggioranza dei croati è più saggio se quell’antico nome scompare nel nulla, e anzi è meglio ancora se viene umiliato dalla traduzione in “Široka ulica”. Non stupitevi: nell’odierna Zadar, il nostro povero Paravia è stato ribattezzato Petar Aleksandar Paravija.

Dalle parti di Zara era nato uno dei massimi storici dalmati, Giuseppe Praga; fu direttore della Biblioteca Comunale Paravia, fu fondatore della Società Dalmata di Storia Patria, morì esule a Venezia, dopo aver recuperato il recuperabile nella Biblioteca Marciana. Giuseppe Praga riuscì a salvare il manoscritto della sua “Storia di Dalmazia” dalle macerie di casa sua, sotto i bombardamenti Alleati. Quel libro martire, oggi irreperibile proprio come “I bianchi binari del cielo” di Cattalini, ha avuto un’ultima edizione trentacinque anni fa, integrata da un aggiornamento del buon Dassovich: mi è stato donato da un vecchio ingegnere di Curzola, patriota dalmata, esule a Trieste, e mi ha profondamente scosso. È la storia di una regione, quella dalmata, che poteva essere nazione: una nazione autonoma e indipendente, altra dall’Italia, altra dalla Croazia, altra dall’Austria. È la storia di una terra profondamente segnata dalla colonizzazione greca e dalla secolare dominazione romana, una terra che ha dato imperatori (Diocleziano) e papi a Roma, e ha mostrato, per oltre quattro secoli, fedeltà e lealtà a Venezia, con l’eccezione dell’ambigua Ragusa, odierna Dubrovnik. È la storia di una terra che, caduta Roma, è rimasta fedele come ha potuto alla nuova Roma, Costantinopoli: e ha pagato la sua lealtà col massacro della sua città più bella e più antica (la storia non è mai nuova), la deliziosa Salona, la Aquileia dei Dalmati, per mano dei barbari. È la storia di una terra che ha avuto una dignitosa storia comunale e ripetutamente è stata oggetto del desiderio dei magiari, e dei croati: croati che mano a mano hanno sostituito la popolazione originaria, nell’ultimo millennio, o ad essa si sono mescolati, finendo, a quanto stiamo vedendo, per assumerne, oggi, addirittura l’identità, in toto, oppure per offuscarla e addomesticarla, questa antica identità, oppure per snaturarla, con brutalità.

Da Spalato, l’antica città nata dall’esodo degli abitanti superstiti di Salona, scampati allo sterminio avaro-slavo per andarsi a rifugiare nelle rovine dell’antico palazzo dell’illirico-latino Diocle, il famoso Diocleziano, un secolo e mezzo fa parlava un grande letterato dalmata, Francesco Carrara, onesto e lucidissimo sodale del suo compatriota Tommaseo, da Sebenico. Francesco Carrara era uno che sognava una nazione dalmata in cui “l’italiano non istudia di italianizzare lo slavo, né lo slavo di slavizzar l’italiano”. Non era un provocatore, era un cittadino di Spalato di chiara fama. Centocinquant’anni dopo, i croati che abitano “Split” l’hanno ribattezzato Franjo Karara, e stanno cercando di adattarlo alle esigenze bislacche della loro patria propaganda. Non so con quali esiti e con quanti imbarazzi, e quanti rossori, ma posso immaginarlo. Perché la cultura italiana tollera queste appropriazioni indebite? Perché l’opinione pubblica nostrana, mediamente, non viene scossa dal saccheggio della storia latina e veneziana dei Dalmati, compreso il grottesco scippo croato della nazionalità di Marco Polo, come pochi anni fa riferiva, tra l’abbacinato, l’inquieto e il divertito, Gian Antonio Stella sul Corriere? Perché la Dalmazia è oggi una regione fantasma per la cultura italiana, e perché si finisce per chiamare semplicemente “Croazia” una regione che semmai è soltanto amministrata dalla Croazia?

Le risposte sono tante. Il primo problema è che le nostre scuole non insegnano la storia di Venezia: se non per vaghi accenni, e per episodi, normalmente molto decontestualizzati: e così, le due terre che più profondamente sono state legate a Venezia e ai veneti, e cioè l’Istria, in particolare, e la Dalmazia, in subordine, vengono facilmente fraintese, e le loro storie equivocate, e magari ridotte a una farsesca sintesi che prende il la, curiosamente, proprio dalla caduta di Venezia, 1797. Prima di quella data, un lungo medioevo – questa sembra l’ingloriosa, poverissima, stupida sintesi.

Il secondo problema è che la letteratura italiana ha sostanzialmente dimenticato la Dalmazia: uniche eccezioni degne di riguardo, a livello nazionale – a parte diversi memoir di Enzo Bettiza, esule dalmata, di famiglia spalatina – sono state un bizzarro libro di Rigatti su un “viaggio sentimentale da Trieste a Zara”, pubblicato dalla Ediciclo (“Dalmazia Dalmazia”, 2009) e uno stravagante e appassionante omaggio del veneziano Marzo Magno all’abate Fortis, e a un suo viaggio settecentesco per l’Adriatico Orientale: si chiama “Il leone di Lissa” (Saggiatore, 2003). Il terzo problema è che il dalmata che ogni italiano conosceva e ammirava, Ottavio Missoni, è morto da poco, e non potrà più raccontare la sua storia, ogni 10 febbraio, finendo per coinvolgere e commuovere i nostri compatrioti, sempre stupiti dalla scoperta della natura e della violenza assurda della distruzione di Zara, paradossalmente mai descritta nei nostri libri di scuola. Il quarto problema è che come popolo, sostanzialmente, stiamo terminando di esistere: nell’egoismo rovinoso che caratterizza la nostra epoca, e nel collasso economico che sta flagellando le nuove generazioni, sta finendo per sparire il concetto di “patria”, non soltanto quello di “nazione”, in una inspiegabile e cieca rimozione della storia del Mediterraneo, di Roma, di Costantinopoli, di Venezia, e infine, addirittura, del Regno d’Italia. Oggi un ragazzino scrive “Zara” su google, e si ritrova, come primo risultato, un marchio d’abbigliamento di chiara fama. Per trovare traccia della città dalmata, veneziana e italiana, cancellata dagli ingiusti, immotivati e assassini bombardamenti a tappeto angloamericani, serve pazientare addirittura qualche pagina – oppure, serve tornare in biblioteca. Oppure, se preferite, serve fantasticare. A quel punto potete sognarla, come ho fatto io, intatta, e nostra. La nostra Venezia dalmata, la nostra perduta Zara. Sconosciuta, famigliare, e amatissima.

Gianfranco Franchi, febbraio del ’15, Trieste.

Dimenticavo. Per immaginare com’era la città fantasma di Zara, e per camminare per le sue perdute strade, leggete per bene questa descrizione d’epoca della Treccani: e poi chiudete gli occhi. Chiudeteli forte. www.treccani.it/enciclopedia/zara_(Enciclopedia-Italiana)/

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