Qualcuno volò sul nido del cuculo

Qualcuno volò sul nido del cuculo Book Cover Qualcuno volò sul nido del cuculo
Ken Kesey
Rizzoli
1988
9788817113465

one flew East, one flew West,
One flew over the cuckoo’s nest.

L’opera prima e fondamentale di Ken Kesey (1935-2001), scrittore americano non estraneo alle prime, pionieristiche e incoscienti sperimentazioni lisergiche, salutato in patria come anello di congiunzione tra i beatnik e gli hippie (“I was too young to be a beatnik, and too old to be a hippie”, avrebbe dichiarato l’autore nel 1999), è un romanzo postrealista e allegorico: una denuncia delle condizioni di vita dei cittadini internati nei manicomi – è il 1962: siamo a un passo dalle riforme basagliane, nell’aria c’è la denuncia delle inumanità e delle brutalità che da più parti si ripetevano, a danno dei pazienti – e una satira dello status e dei ruoli dei cittadini nella società postindustriale occidentale.

Qualcuno volò sul nido del cuculo” – più popolare, a quarantacinque anni di distanza dalla pubblicazione, per la riduzione cinematografica (non fedele, ma affascinante) curata da Milos Forman (1975) che per il romanzo: buona ragione per riscoprirlo – è strutturato in quattro parti; io narrante, ed ecco una prima e netta differenza rispetto al film del genio ceko – è Chief Bromden, il Grande Capo, l’indiano mezzosangue silenzioso e ipersensibile che tutti credono sordomuto, sbagliando. Sbagliando, da vent’anni.

In un certo senso, considerando questo aspetto e lo sviluppo dell’intreccio, l’opera può essere letta come un atipico romanzo di formazione: Chief Bromden sarà il personaggio che sopravvivrà all’accaduto, si libererà dalla gabbia che lo ospitava da un pezzo, ritroverà la parola e l’amore per la vita; l’ingresso di McMurphy nel manicomio sarà salutare per scuoterlo dal torpore.

Tre sono i personaggi cardine del libro, ambientato in un ospedale psichiatrico, con episodiche incursioni al di là del muro: detto di Chief Bromden, ecco Miss Ratched, l’antagonista pura; non una dottoressa ma un’infermiera, un’infermiera influente e molto determinata, legata a doppio filo con l’amministrazione, spietata e maligna. Suoi scherani sono degli infermieri neri, rabbiosi e scostanti come lei, scelti proprio per il loro cinismo e la loro chiusura mentale. Esecutori sadici, altrimenti freddi abbastanza. Macchine da guardia. È così riuscita a mantenere la struttura ospedaliera in un clima sonnacchioso ed estraneo ai disordini (e ai progressi, anche: logico): raramente qualcuno esce di là, più facilmente i cittadini ricoverati passano dallo stadio “acuto” a quello “cronico”.

Viene a spezzare gli equilibri un rissoso giocatore d’azzardo di sangue irlandese, McMurphy. Com’è? Presto detto. Ha la voce forte, e piena di inferno. Le mani grosse, e malconce. È rosso di capelli, ha le basette lunghe. È largo di mascella, di spalle e di torace. Ha un sorriso diabolico, e una cicatrice tra naso e zigomo. Riuscite a vederlo? Dimenticate Jack Nicholson. So che gli somiglia, ma McMurphy ha le braccia più grandi. E ride… ride, e quando ride tutto sembra scuotersi. Chief dice che non sentiva ridere da anni. Non così.

McMurphy era uno che viveva, prima. Scopava e faceva a botte, lavorava dove poteva e giocava a carte. Guadagnando. Riottoso all’autorità, ex eroe di guerra caduto in disgrazia, campava di espedienti e ogni tanto si ritrovava nei guai. Una volta per una minorenne, una volta per insubordinazione. Trentacinque anni, e una discreta – errata – sensazione di avere preso la strada giusta, si presenta spavaldo tra gli alienati. Come in una galleria di Gericault che si anima, e prende vita. Errore, è peggio l’ospedale psichiatrico del carcere: in carcere hai una data di riferimento, per la tua uscita. È quella, non si sgarra. In ospedale dipendi dalle decisioni dei medici; in questo caso, dipendi anche dal parere della Grande Infermiera. Una che non tollera disordine. Non accetta anomalie. Non vuole essere sedotta. E non ha nemmeno intenzione di credere che McMurphy stia simulando. Sta dentro, va curato. E più si ostinerà a scuotere i pazienti, a convincerli di essere normali o comunque di avere diritto a una vita sociale e professionale lineare e comune, più avrà successo nell’impresa, più lei lo odierà.

Diversi gli episodi memorabili della “rivolta” animata, a piccoli passi e per sempre nuove rivendicazioni, dall’irlandese sanguigno e aggressivo (semplicemente: vivo): dalla partita di baseball al televisore (spento) alle sfide a basket, sino agli incontri con delle sue amiche speciali e alla celebre scena all’aperto. Kesey è molto efficace nella rappresentazione del recupero (santo corsivo) di Chief e degli altri, dal “caporione” dei matti Harding, laureato ma fragile, al tenero Billy e Martini: gli “acuti” sono pazienti non inguaribili, giovani e sotto calmanti. Sono ben distinti dai “cronici”, divisi in passeggiatori e vegetali; a volte, sono ex acuti rovinati dagli elettroshock, o da qualche intervento (…) andato male. Hanno un odore terribile, addosso. L’odore dei matti. Quello che ti rimane addosso ancora oggi, se passi qualche ora nei centri di igiene mentale dell’era basagliana. Inconfondibile.

Chief è un “cronico”, passeggiatore. Trascorre le giornate a pulire e spazzare tutto con una ramazza. Osserva e ascolta, senza interagire. La sua mente è confusa dalla nebbia; l’infanzia e l’adolescenza riemergono poco a poco, assieme alla consapevolezza delle violenze e della corruzione sofferta da suo padre e dal suo popolo per mano della cricca. La cricca è, potremmo semplificare, il sistema: erano gli imprenditori e i politici che stavano soffiando le cascate e le case alla tribù, sradicandole e spogliandole di tutto (storia, tradizioni, territorio: tutto), e sono gli infermieri che ti svegliano la mattina presto e ti drogano. Illudendosi di ripararti. Non sono gli psicofarmaci né gli elettroshock a restituire lo scintillio dell’intelligenza in Chief. È questo irlandese vivace e folle. Destinato a un sacrificio non vano.

Kesey è un difensore dell’umanità: della fragilità e della fantasia, della normalità della malattia mentale e della liceità della guarigione; oppositore non solo degli psicofarmaci ma anche delle tecniche di controllo militaresco dei pazienti, sembra aver scritto del giorno in cui i draghi si sarebbero liberati dalle tane, e di cosa si nutrivano e di come vivevano in quelle tane. La sua visione è cupa e triste ma non desolata e irrimediabile: Chief, come sappiamo, fugge via, al termine del romanzo; e fugge dopo aver ucciso la carcassa del suo amico irlandese, lobotomizzato dall’infermiera. Perduto. Speranza c’è, e sprigiona fiducia. La liberazione (dalla gabbia; dalla vita che non è più vita) è limpida, e giusta.

***

Stilisticamente, Kesey dà il meglio nei dialoghi e nella rappresentazione claustrofobica dell’ambiente ospedaliero; c’è, in qualche frangente, un interessante uso delle parentesi con funzione quando di commento, quando quasi di coro – magari con la descrizione di rumori provenienti dall’esterno – ma questa attitudine autoriale non viene valorizzata a dovere. In generale si assiste a una narrazione equilibrata ed estranea ad artifici o espedienti sia retorici che strutturali; emozionali, senza dubbio, ma sottili, sempre. Con grazia. La suddivisione del libro in quattro parti oggi non sarebbe necessaria; si andrebbe piuttosto a giocare la narrazione per capitoli di diversa lunghezza, a questo ci siamo abituati. Forzando la mano, si potrebbe riconoscere nelle quattro parti quattro diversi livelli di consapevolezza di Chief; non sono convinto, in ogni caso, che sia una strategia vincente, quindi mi limito a congetturarla. È pleonastica, punto. A latere – la traduzione di Oddera festeggia i trentadue anni di vita; andrebbe rinfrescata e adattata, senza snaturarla.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Ken Kesey (La Junta, Colorado, USA, 1935 – Pleasant Hill, USA, 2001), scrittore americano. Si laureò presso la scuola di Giornalismo della University of Oregon. Esordì pubblicando questo romanzo nel 1962.

Ken Kesey, “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, Rizzoli, Milano 1976. Traduzione di Bruno Oddera.

Prima edizione: “One Flew Over the Cuckoo’s Nest”, 1962. 

Adattamento cinematografico: “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, di Milos Forman, 1975.

Gianfranco Franchi, agosto 2008.

Prima pubblicazione: Lankelot.