Prigioni e paradisi

Prigioni e paradisi Book Cover Prigioni e paradisi
Colette
Del Vecchio
2012
9788861100091

Elegante, sensibile e femminile, Colette sapeva fare letteratura di ogni frammento dell'esistenza, di ogni esperienza, di ogni sentimento. Aveva stile da artista anche negli appunti, e nei foglietti “alimentari” scritti per “Vogue” e per gli altri giornali con cui collaborava – e artista restava negli esercizi letterari che si concedeva, con splendida negligenza delle cose della vita, e delle cose chieste dalle case editrici. “Prigioni e paradisi” [1932; IT, Del Vecchio, 2012], raccolta di frammenti e prose brevi sin qua inedita, in lingua italiana, ne è una graziosa e limpida conferma.

Su TTL, Bruno Ventavoli ha scritto che questo “non è il solito inedito della famosa, dimenticato perché se lo meritava. Questi incontri, immagini, ricordi schizzati tra il 1912 e il 1932 sono davvero una scoperta per il lettore italiano”. Sandra Petrignani, nel suo blog, ha puntualmente rilevato che “Colette è capace di fare letteratura anche sul decorso dell’influenza, su una fetta di pane immersa nel latte da mangiare a merenda, su un bicchiere di vino bianco di Châteaux-Chalon che non ha nulla da invidiare a un Bordeaux”. Possiamo aggiungere che da un certo punto di vista la sua così totalizzante dedizione alla letteratura ha qualcosa di particolarmente innocente e gentile, perché è come se la letteratura finisse per costituire il suo rifugio e la sua quiete, il suo intervallo da una serie di interazioni sociali e via dicendo particolarmente estenuanti.

Come raccontiamo “Prigioni e paradisi”? Così. Nella prima parte, Colette dedica il suo sguardo e i suoi sentimenti ai suoi amati animali. C'è uno scoiattolo del Brasile, bronzeo, la pancia rossa, animo da pirata e da bandito, ghiotto di noci e di mandorle; uno che sa tornare in gabbia dopo aver vagabondato nel bosco, “ubriaco d'aria, d'alberi, di fiori e di altezza”. E c'è una bulldog, altezzosa e snob, capace di tenere a bada e a distanza qualsiasi cane di un'altra razza, eccetto la nostra: la razza umana. Come i suoi simili, è “troppo invaghita dell'umanità intera per odiare un uomo che apre una porta, seppure servendosi di un grimaldello”. La storia della sua amicizia con Colette è fatta di inciampi dovuti all'emozione e di guinzagli del tutto superflui.

E poi ci sono un allocco, un gufo e una civetta che annuncia la fine della pace, a un passo dalla Grande Guerra; e una leonessa che tiene a a bada diversi leoni, in gabbia, orgogliosa e distaccata, espressione di autentica “serenità borghese”.

Nella seconda parte, entriamo nella sua villa di campagna, la “Treille muscate”. È il mare che ha richiamato Colette da quelle parti: “è il mare che tinge e fa impallidire, a seconda dell'ora, la stella che svetta all'alba da un est freddo e blu, per poi calare la sera in una spuma di nuvole lunghe e leggere di un rosa pieno di furia”, canta. E poi Colette racconta del sud della Francia, per la “lava fiorita” delle bougainville, e per la bellezza selvatica e mediterranea del panorama. La Provenza: quella “appollaiata su delle piccole montagne aeree, secche, in cui tutto è tinto d'azzurro, il cielo, la selce lustra, l'albero bluastro”, e quella marittima, “paese di calanchi di un blu non soave ma feroce, di piccoli porti oleosi che si penetrano solo attraverso un'inferriata di alberi e cordame”: e poi la Provenza ferita dai turisti, quella delle cascine, le “mas”, e quella lenta e seducente, felina – come “La gatta” che ha rifiutato i nomi da regina per essere soltanto sé stessa.

Nella terza parte, Colette ci accompagna nella sua madrepatria, la Borgogna: patria elettiva d'un grande vino, e d'una cultura enogastronomica unica al mondo, orgoglio di Francia e sogno dei buongustai: “A proposito, come lo chiamate voi, questo velluto, questa fiamma, questo succo, perfetto in tutte le proporzioni, pieno di franchezza? Un nome, sotto le volte, fa rimbombare e propagare le 'r' di borgognoni, che dopo mezzo secolo mi sono rimaste nella gola” [p. 92].

Più avanti, c'è una galleria di ritratti. C'è Philippe Berthelot, diplomatico, uno che riusciva a scrivere al buio, nel cuore della notte, e che aveva “la fronte a forma di torre”. C'è Mistinguett, l'artista che aveva le gambe assicurate per centinaia di migliaia di franchi, espressione d'una “aristocrazia fisica quasi incomparabile” - una che tendeva a “dissolversi e a riapparire, come un desiderio”. C'è Chanel, dagli occhi di granito luccicante, “colore dell'acqua di montagna”, e Landru, sinistro e gelido assassino sotto processo, descritto prima d'esser giustiziato, nei giorni della morbosa e febbrile attesa popolare.

E poi ecco l'Algeria e il Marocco, raccontati per brevi spaccati, per la bellezza delle donne algerine, per la sensualità nordafricana, arabeggiante, per la semplicità e l'essenzialità di quella vita. Per la complessità d'un confronto tra un'europea e i cittadini d'una colonia europea – una complessità irrisolta e forse per questo più affascinante ancora. E questo è quanto. Considerare “Prigioni e paradisi” un semplice viatico per tornare a leggere la narrativa di Colette è abbastanza ingiusto. È, piuttosto, una bella – e inattesa, ammettiamolo – iniezione di stile, di letterarietà, di semplicità e di sensualità.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Sidonie-Gabrielle Colette, alias Colette (Saint-Sauveur-en-Puisaye, Borgogna, Francia, 1873 – Parigi, Francia, 1954), scrittrice francese.

Colette, “Prigioni e paradisi”, Del Vecchio, Roma 2012. Traduzione di Angelo Molica Franco. Con la collaborazione di Rosalia Botindari. Editing [sulla traduzione] di Paola Del Zoppo. Postfazione di Gabriella Bosco. ISBN: 9788861100091.

Prima edizione: “Prisons et paradis”, 1932.

Approfondimento in rete: WIKI it / Sandra Petrignani / Centro Studi Colette.

Gianfranco Franchi, Marzo 2012.

Prima pubblicazione: Lankelot.

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SEMPRE A PROPOSITO DI "PRIGIONI E PARADISI"...

Tornare a leggere Colette, nei primi anni Dieci del nuovo secolo, è un'esperienza esteticamente coinvolgente e affascinante. Perché Colette amava la vita con un'intensità singolare, e sapeva raccontare esperienze, sentimenti e sensazioni con grazia, letterarietà e vera personalità. E quando parlava degli animali, sapeva farlo con una gentilezza e una tenerezza che oggi ci possono sembrare leggermente sconfortanti, ma in nessun caso artefatte o capziose; e quando parlava della Borgogna, o della Provenza, sapeva essere spettacolare nella descrizione della natura selvatica, dei dettagli minimi delle sue cose, del profumo e del calore della terra, e del vino. Tornare a leggere Colette significa rinunciare alla disperazione e alla plastica della nostra presente società, e alla noia terribile della cultura derivativa della nostra provinciale e decaduta nazione. Tornare a leggere Colette significa rieducarsi alla speranza, e alla voglia di vivere, e rialfabetizzarsi alla sorpresa per la bellezza di tutto quel che ci può circondare, persone e fiori, animali e opere d'arte. La Del Vecchio ha deciso di proporre, per prima in Italia, un'edizione di questo libro del 1932 che solo un critico avventato, pigro e grigio può considerare alla stregua di una raccolta di inedite e b-side. Siamo dalle parti invece dell'opera intelligente, frammentaria per volontà autoriale ma strutturata e disciplinata secondo pensiero autoriale. Siamo dalle parti di quelle chicche, e di quelle sorprese, che giustificano la fiducia nello scouting della vera piccola e media editoria italiana superstite. Come se non bastasse, in Rete potrete scoprire un elegante sito dedicato al libro, completo di rassegna stampa d'antan. Divertitevi a prendere le misure alla scrittura dei critici transalpini di ottant'anni fa, e a rapportare le loro pagine e le loro impressioni a quelle dei vostri, nostri compatrioti odierni. Non sarà un esercizio sterile, fidatevi. Libro consigliato per chi vuole aprirsi alla vita – e alla letteratura.

Gianfranco Franchi, marzo 2012. Prima pubblicazione: BlowUp.

Considerare “Prigioni e paradisi” un semplice viatico per tornare a leggere la narrativa di Colette è abbastanza ingiusto. È, piuttosto, una bella – e inattesa, ammettiamolo – iniezione di stile, di letterarietà, di semplicità e di sensualità.