Pozzoromolo

Pozzoromolo Book Cover Pozzoromolo
Luigi Romolo Carrino
Meridiano Zero
2009
9788882371777

Sotto le fondamenta della vecchia casa, la casa dove sei stato concepito, c'è un pozzo che chiamano Pozzoromolo. Nel pozzo c'è un diavolo. Il diavolo custodisce un tesoro immenso. Molti uomini tentano di prendere il tesoro, scendono giù, sul fondo, si perdono nei mille cunicoli, non risalgono più. Nessuno è riuscito mai, nessuno ha mai preso il tesoro. Uno solo. Uno solo è tornato. Il prezzo che ha pagato, il prezzo del ritorno, è stata la follia” (p. 126)

Una scrittura lirica e cruda, disperata, emersa dagli abissi della psiche; una struttura plastica, adatta all'irrazionalità e agli squilibri comportamentali del narratore, un ragazzo che adesso è diventato una ragazza, Gioia; un convulso citazionismo pop (da Mina a Patty Pravo, dai Nomadi in avanti) leggero italiano, e una denuncia – nuova e forte – delle condizioni dei nostri concittadini internati negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari; una gran fame di giustizia d'una generazione cresciuta spesso senza padre o senza madre, e nel caso del narratore cresciuta con due spettri in vita, amati e detestati, implorati d'amore e poi abiurati, invocati e maledetti: questi gli assi portanti del nuovo libro di narrativa di Luigi Romolo Carrino, artista partenopeo classe '68, lanciato nel mainstream dopo anni di dura militanza nell'underground nel 2008, sempre da Meridiano Zero, col fortunato “Acquastorta”.

È un romanzo che nasce, a questo punto forse non inspiegabilmente, con una dedica agli amati genitori: Carrino scrive che questo è “il primo gemito”. La narratrice – da qui in avanti, per evitare confusioni, narratrice rimane – Gioia, ci accompagna subito nell'ex manicomio: “Di notte” - racconta - “non scrivo perché c'è il buio. Di notte non c'è la luce accesa e io ho paura. Di notte la luce sul comodino non si accende. Non c'è una luce sul comodino di notte. Non cantano i galli la notte e non ci sono civette per tutto l'anno. Certi anni, le civette, non tornano più” (p. 13). Di notte, va e “si imbroglia” per la stanza con la sedia a rotelle. E cerca di ricordare: cerca di capire. Dorme là dove riposano i “prosciolti che hanno commesso un reato e non sapevano di commetterlo quando lo hanno commesso”: i pazzi non più pazzi post legge Basaglia. È circondato da pazienti analfabeti; è uno dei pochi a non esserlo. Sulle prime non parla quasi con nessuno. Scrive a tutto spiano, e da qualche tempo ha a disposizione un pc. Non ha bottoni, e non ha stringhe nelle scarpe. Il suo dottore, Mancuso, legge i suoi file; e così ha letto i vecchi fogli che non ha distrutto. “Questo non è giusto, sono cose mie, cose private. Se io mi ricordo una cosa, qualsiasi cosa, io la scrivo proprio per questo, per non dimenticarla. Il dottor Mancuso legge quel che scrivo e fa cancellare dei file (…). Dice che lo fa per me, per verificare se nel tempo scrivo le stesse cose” (p. 78).

Più avanti, Gioia commenterà: “Ho trentanove anni e sono una donna. Il mondo è una donna maltrattata e la vita è un uomo travestito. Mi piace farti leggere sciocchezze, mi piace scrivere cose che non comprendi: rende perpetua e misteriosa la mia solitudine colma del rumore della tua vita inutile, facile, quella vita che credi felice solo perché ti diverti a punirmi, a legarmi, a darmi la terapia forte, e ti senti un padreterno” (p. 189) – un padreterno, non un padre.

Il padre è un'ombra; forse l'ombra da cui sono derivati scompensi, irrequietezza, aggressività, accessi di violenza, carenze affettive: tutto, tutto o quasi, stando a quasi scrive Gioia, ricordando l'infanzia proletaria a Milano, tutte le traversie della loro vita, i disordini e le incomprensioni. Al padre dice che lui era il crisma: “Piccolo mietitore d'anima, hai trebbiato la mia infanzia senza nemmeno ungere la falce, hai ignorato che il tabacco non si falcia ma si coglie foglia dopo foglia, e ogni foglia ha la sua ragione di verde. Sono rimasto in piedi, da quel giorno al mercato, davanti a te, nella camera ardente della nostra infanzia a veglia dei nostri abbracci mutilati” (p. 205). Abbracci mutilati.

S'è sentito abbandonato, come quando è stato lasciato a casa dei nonni: tenuto come “il vino rosso nella damigiana”, “sbaglio sopravvissuto al tuo piccolo stupore di uomo proletario e giovane, qualcosa che fa male e non ti accorgi” (p. 161). Questo romanzo è un sepolcro di dolore e di sofferenza, inconsolabile, terribile. Tutto ciò che Gioia racconta – interazioni e amicizie e inimicizie in Ospedale, morti suicidi in Ospedale, rapporto con i coetanei, rapporti sessuali, violenze subite, violenze attuate – è l'espressione d'una sofferenza psichica straordinaria. La scrittura la tinge di bellezza, ma bellezza qui non può esistere; è solo la vita che rifiuta la morte e il male, e anche quando si tinge di morte e male pretende d'essere giusta – d'essere “motivata”.

Il rapporto con la scrittura è carnale, assoluto: “Sono io il rito, sono tutta la premura che ci ho messo per definire la liturgia della mia memoria. Sono io l'omicidio delle dita, la cinematica del mio delitto, la marionetta dei miei fili, sono io la cerimonia di qualsiasi intento, tutta quanta la bellezza di questo lamento sottovoce e stampato, detto, scritto a mano. Sono io tutta luglio, la penultima di agosto, lo scarabocchio sul pezzo di carta che avvolge il mio pane e pomodoro, quel pezzo di carta, col disegno fatto per Zia Adele, rimasto in mezzo ai filari di fave e di piselli, sono io la lettera che ho scritto oggi. Sono io questa lettera che ti scrive. Io sono tutta la lettera che mi legge” (p. 97).

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Ho preferito scriverne così, campionando ampi frammenti dell'opera di Carrino, per presentare un libro duro, difficile, insanguinato, tetro, e infine, e forse paradossalmente, e per via del suo spirito catartico, solare: di speranza. Sono andato per questi capitoli, i primi divisi per mese, con date come 34 gennaio, cercando di capire se dovevo trattare il romanzo come una sorta di noir o come un romanzo esistenziale sperimentale; ho scelto tranquillamente la seconda strada, perché per me questo rimane “Pozzoromolo”: narrativa esistenziale sperimentale destinata – idealmente – a performance dal vivo, a letture acrobatiche e appassionate, come da abitudine di Carrino. A inframezzare l'opera, versi – non sempre felici o adeguati – di autori amici. I più affascinanti sono quelli di Alessandro Ansuini. Per chi vuole sprofondare nell'abisso d'una psiche, e accompagnarla nel male, sino alle radici del male: non per estirparle, ma per nominarle, e quindi risolversi.

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Sotto le fondamenta della vecchia casa, la casa dove sei stato concepito, c'è un pozzo che purifica ogni malore. Nel pozzo c'è un diavolo con le ali dell'angelo custode. Il diavolo custodisce un ricordo immenso che non vuoi ricordare. Nessuno è riuscito mai, nessuno mai ha preso quel tesoro da custodire. Uno solo, uno soltanto è tornato. Uno soltanto si è calato senza una luce, ad occhi chiusi ha trovato il suo desiderio avverato ma, il prezzo che ha pagato, il prezzo che hai pagato per tornare, è stato averlo dimenticato” (p. 126).

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Luigi Romolo Carrino (Napoli, 1968), laureato in Informatica, specializzato in Ingegneria del Software. Scrittore, poeta e autore teatrale italiano.

Luigi Romolo Carrino, “Pozzoromolo”, Meridiano Zero, Padova 2009.

Gianfranco Franchi, Ottobre 2009.

Prima pubblicazione: Lankelot.

Narrativa esistenziale sperimentale destinata – idealmente – a performance dal vivo…