Mucho mojo

Mucho mojo Book Cover Mucho mojo
Joe R. Lansdale
Einaudi
2007
9788806171469

Secondo romanzo della serie di Hap e Collins, “Mucho Mojo”, pubblicato nel 1994 a quattro anni di distanza da “Una stagione selvaggia”, è stato scritto in tre settimane con grande divertimento dell'autore: in una precedente stesura, estranea alla saga dei due detective, il titolo era lo stesso ma JRL non si sentiva convinto della qualità e della tenuta del romanzo. Scelta azzeccata, quella del restyling, stando alla quarta di Stile Libero: “Lo hanno soprannominato 'Mojo storyteller' dal titolo di questo libro. 'Mojo' è un po' di magia nera con una spruzzata di sesso, ma nella miscela Lansdale c'è anche parecchio horror e l'umorismo non manca mai”. Abbastanza vero, sì. Forse “horror” andrebbe sostituito con “thiller” e/o “splatter”, per certe descrizioni, ma ci siamo.

Texas orientale, dalle parti di Mud Creek. Leonard Pine, in convalescenza per la brutta ferita alla gamba rimediata nella prima avventura, riceve una grande e inattesa e dolorosa eredità: è morto il suo amato vecchio zio Chester, fanatico dei gialli (e di “Dracula” di Stoker) che sognava di diventare poliziotto, lasciandogli centomila dollari e una casa un tempo bella e adesso decisamente malmessa, nella zona nera della città, East Side, frequentata da spacciatori di droga, da poco di buono e da cittadini frustrati e sfortunati. “A questa gente – racconterà qualcuno – mancano ambizione e orgoglio. Non vogliono fare altro che esistere. Pensano che Dio li debba mantenere in vita (…). E alcuni di loro proprio non hanno lavoro” (p. 87). Più avanti, Leonard è molto diretto, in proposito – al solito: “Vedo una chiesa e mi viene da pensare che di solito ai neri si insegna ad accettare la loro miseria confidando in Dio. È una cosa che mi fa cagare” (p. 89).

Così, assieme ad Hap, presto Leonard si trasferisce nella villa. Sinceramente fatiscente, sporca e incasinata. Come se non bastasse, ornata da una sorta di strano totem: “Un palo alto tre metri, coperto di glicine, era piantato nel terreno sull'altro lato della casa, e dal palo spuntavano lunghi chiodi, e sui chiodi erano infilate bottiglie di birra e di bibite varie, e, a occhio e croce, molte delle bottiglie erano state frantumate da colpi di pistola o da sassi e clave. Alla base del palo, il vetro era ammucchiato come bigiotteria smessa. Avevo visto un affare del genere, anni prima, nel cortile di un vecchio falegname nero. Non sapevo cosa fosse all'epoca, e non lo sapevo nemmeno adesso. L'unico nome che mi veniva in mente era albero bottiglia” (p. 13). In altre parole, si tratta di una di quelle “stronzate mojo” che proteggono dagli spiriti malvagi. Hap e Leonard scoprono che lo zio, tempo prima, aveva sparato a chi provava a rompergli quelle bottiglie: a rivelarlo è la curatrice testamentaria, l'avvocato Florida (nera, bellissima, subito preda della serrata corte di Hap: ne deriva un subplot molto sensuale e romantico, e infine un po' triste). Ma nemmeno lei poteva sapere che la metà oscura dell'eredità era nascosta sotto le assi del pavimento: è il cadavere di un bambino di colore di neanche dieci anni. Leonard è sconvolto. Ecco che cominciano i guai, e si anima il romanzo... rischiando, come avvertono qua e là i personaggi, di sembrare “una stronzata alla Agatha Christie, e io gli indovinelli mica li ho mai saputi risolvere. Mi fanno venire il mal di testa” (p. 132). Già.

Nella zona, da dieci anni scompare, periodicamente, un bambino nero, magari povero e figlio illegittimo: sempre nel mese di agosto. E in agosto la vicenda s'ambienta. Lo schema è sufficiente per suggerire un orientamento alla polizia per tracciare un quadro della psicologia dell'assassino, e della sua posizione sociale (si direbbe un killer decisamente ben informato: troppo ben informato) tuttavia le indagini sono sinora sempre andate a vuoto, forse perché si tratta di un “crimine nero, commesso nella parte nera della città” (p. 68), come spiega il detective Hanson, afroamericano, ai due involontari detective. Possibile, si ripete Leonard, che fosse proprio suo zio il serial killer? Era uno che aveva il senso dell'onore, un brav'uomo (p. 164). “E' stato lui a insegnarmi a vivere, a pensare. Non è possibile che un giorno abbia cambiato idea e gli sia venuta voglia di mettersi a uccidere bambini” (p. 74).

In città sono i bianchi a comandare: sarebbero contenti si sapere che la colpa di tutte quelle morti è di un negro: “un negro che ha fatto fuori dei piccoli negri. L'idea collima alla perfezione col modo generale di pensare, ed evita rogne. Nessuno di loro, nemmeno i liberal, crede che qualcosa di nero rientri nei problemi più immediati” (p. 163).

Conoscendo i topoi di Lansdale, la presenza di un reverendo tra i personaggi, pure se minori, come in questo caso (cfr. “La morte ci sfida” o il racconto “L'arena” del 1987), stabilisce un meccanismo di prevedibilità, nella trama, che aiuta il lettore a orientarsi con discreto anticipo nell'esito della vicenda. Il complotto classico è uno dei punti forti, la responsabilità e la colpa di uno o più insospettabili altrettanto. Ben ricamato ma, ripeto, per una volta fiutabile almeno dai lettori forti di JRL. Poco male: il romanzo è davvero molto fluido e scritto con quell'essenzialità e quel dialogo-centrismo che incollano il lettore al testo. È intrattenimento di buona qualità, e sicura intelligenza.

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Last but not least. Nella prefazione Lansdale parla, tra le altre cose, dei suoi personaggi: “Hap è bianco, liberal, reduce dagli anni Sessanta e anche da un po' di galera per renitenza alla leva. Leonard, invece, reduce dal Vietnam, gay e anche Repubblicano. Tutte cose che non sapevo, prima di mettermi a scrivere 'Una stagione selvaggia', saltate fuori in corso d'opera grazie ai miei personaggi” (p. VII). Il “po' di galera”, scopriamo in questo libro, equivale a un anno e mezzo (p. 144). In questo libro, inoltre, emergono molti elementi della vicenda famigliare, sfortunata e dolorosa, di Leonard. Si sente solo, e crede che a questo punto la sua famiglia sia lui stesso, e al limite Hap. Uno cresciuto infilandosi sempre nella candeggina, tutto qui. Un bianco nero.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Joe R. Lansdale (Gladewater, 1951), scrittore e sceneggiatore americano. Ha esordito pubblicando “Act of Love” nel 1980.

Joe R. Lansdale, “Mucho Mojo”, Einaudi, Torino 2007. Collana Stile Libero Noir. Traduzione di Vittorio Curtoni. Prefazione di Joe R. Lansdale.

Prima edizione: “Mucho Mojo”, 1994.

Gianfranco Franchi, aprile 2009.

Prima pubblicazione: Lankelot.