Mostri agli alisei

Mostri agli alisei Book Cover Mostri agli alisei
Alessandro Serpieri
Bompiani
1977

È inutile fingere: senza libri da glossare, varianti da confrontare, lemmi da classificare, il mio ingegno è proprio spuntato. Mi ritrovo a seguire tracce vane e profane, e rischio perfino di perdere il rispetto del mio segugio che guaisce tutto umiliato in mezzo a questo grigio creato. Se natura doveva essere, par dire, perché in questo sfacelo, e non in folti boschi e verdi praterie?” (“Filologia alla deriva”, p. 45)

Mostri agli alisei” è un libro di prose di un critico letterario, legate tra loro dal sottile filo degli elementi simbolici. È un libro composto da racconti brevi e frammenti di dialoghi, intervallati da richiami eruditi disseminati con generosità e gratuità (Poe, Melville, Defoe; Ambrogio, Isidoro, Plinio, e via dicendo); la lingua adottata, di norma, è puramente letteraria; tuttavia non mancano testi macchiati dai tempi, dai ritmi e dalla trasandatezza del parlato; ma “Mostri agli alisei” non è un divertissement o un esercizio di stile, o un rompicapo scritto per deliziare altri letterati. O almeno: non solo, sebbene qualche paragrafo possa risultare talmente autoreferenziale da apparire criptico, o assolutamente fine a se stesso ed estraneo al resto del testo, o eccessivamente sconnesso.

Mostri agli alisei” è il rifugio, e il gioco, di un ricercatore che, baloccandosi della natura mendace della letteratura, vuole comunicare invece qualcosa di non edificante, e non consolatorio: che la ricerca che va conducendo non ha senso, e che la scissione tra fede e scienza s’è rivelata dannosa. Serpieri sembra suggerire che simboli e segni possano essere arbitrariamente costruiti, e riconosciuti in ciò che non è altro che materia informe; e che quindi non si può escludere di credere ai “mostri degli abissi”, alla loro esistenza e alla loro “origine divina”, semplicemente perché oggi essi non hanno nome. Cosa sono questi mostri degli abissi? Quel che la fede, o la scienza, reputano non esistente: e che pure il ricercatore riconosce come esistente.

La lezione del semiologo sembra essere: avanzare senza appellarsi a dogmi e convinzioni, perché non conosciamo l’origine e il senso del creato, e ogni lettura deriva dalle nostre ipotesi contingenti, e dai contesti: la verità può stabilirla, nella letteratura, soltanto il creatore dell’opera: l’autore. E questa verità l’autore può averla smarrita; o può averla, per paradosso, tinta d’altro valore e d’altri elementi ancora. Che sfuggono all’ermeneuta, e al critico, e al lettore semplice: in fin dei conti, cosa sono quelle creature degli abissi del nostro pianeta, se non parte d’un disegno d’un creatore che non sempre accettiamo, o riconosciamo? Creature casualmente nate da un big-bang?

Mostri agli alisei” è un libro certamente complesso, probabilmente malato di cerebralità, senza dubbio non accessibile a chi vada cercando “narrativa di viaggio” o prose di bellezza monumentale; è – vado congetturando, per carità – lo sfogo d’una mente stanca dei dubbi, e delle contraddizioni che vanno animando la sua ricerca. A certa varietà daremmo altrimenti il nome di follia: perché tanto labile e impercettibile è, a volte, il legame tra i testi, che – pur ammettendo i limiti del lettore – altra spiegazione non riusciamo a darla. Non è un caso se, nel 2004, a ventisette anni di distanza dalla prima edizione, il libro risulta irreperibile: in rete non ho trovato altro che scarne informazioni a proposito dell’attività universitaria dell’autore, e qualche cenno a proposito dei suoi studi critici: questo libro sembra essere stato del tutto dimenticato; rimosso. Come quei mostri del mare che tanto seducevano e affascinavano il critico – qui, finalmente, artista.

Non voglio attingere ad un abisso che non sono riuscito a visualizzare, e che nomino con un vocabolo che, onestamente, s’adatta alla trattazione di questo testo soltanto per via d’una generica e facile analogia: so che, adattandomi addirittura a una lettura empatica (ultima, ma di norma salvifica àncora), sono stato disorientato dalla confusione suprema che forma questo testo. Dalla quarta di copertina: “L’azione si sviluppa su un’isola, o su molte isole; e questo è l’unico dato certo del racconto. Ma che cosa succede realmente sull’isola? Chi sono i personaggi che di volta in volta si succedono sulla scena? Per non scoprire le carte, si può dire soltanto che alla base di tutto c’è un naufragio, o ci sono molti naufragi; così come ci sono misteriosi messaggi affidati a bottiglie forse un poco viziose nelle loro circonvoluzioni”.

Cos’ha naufragato? La verità, e il senso. In ogni senso – e mi sia perdonato il gioco di parole. Questi messaggi nella bottiglia altro non sono che frammenti d’una carta geografica, quella dei pensieri e dello stato d’animo del ricercatore, tradotti e trasfigurati dal codice letterario adottato; l’isola pare essere l’esistenza stessa, scolpita e rappresentata, volta per volta, in uno e un solo momento, o in una e una sola fase. Forzando un po’, riconosciamo qualche elemento “avventuroso”; ma non è nella maniera assoluta predominante, risultando anzi piuttosto episodico. Nemmeno la satira prevale: c’è uno strano sarcasmo, comune ad ogni racconto, a metà strada tra l’oltraggio a qualsiasi verità (ombra di superomismo, o annuncio di nichilismo?) e la disillusione e il disincanto più netti. Cosa ho letto, mi domando da ore? Il delirio d’una mente stanca o improvvisamente gioconda e ludica, o un codice che non ho compreso se non per frammenti e folgorazioni? Ho letto un libro che è – probabilmente – talmente vago, ibrido, contaminato e “aperto” da non poter essere interpretato non dico – che è illogico – univocamente, ma neppure per grandi linee. Che sia un test simile alle “Macchie di Rorschach” tenderei a escluderlo. Se così è, non ha avuto particolare fortuna, temo.

È una informe fonte di riflessioni. Se l’autore tendeva a imporre il caos, e una assoluta non linearità, è riuscito nell’impresa; ma se il disegno era differente, allora – quando e se ristampato – il libro meriterà d’essere accompagnato da un immenso apparato critico, per non apparire sogno dei sogni di un ubriaco, o un progetto abortito. Scrivo questo – so che appare paradossale – pensando alla mente dell’autore con grande meraviglia: confido al lettore che l’idea che una mente del genere abbia partorito un libro come questo mi conferma, personalmente, la plausibilità dell’esistenza dei draghi.

Ciò detto, passerei a una campionatura delle parole o delle espressioni linguisticamente più interessanti. Incontriamo un taccuino “ormai sgorato dalla salsedine e dalle lacrime” (p. 7). Il Devoto-Oli testimonia l’esistenza del lemma “sgoratura”: voce toscana, significante “chiazza che mostra i contorni lasciati da una macchia umida”: der. di gora, con s- intensivo. Gora viene dal latino medievale gaurus, “canale”, da un tema che il dizionario definisce “mediterraneo”.

Un morto per annegamento, rivoltato dai compagni sulla riva, “sciabordò in un saluto marino” (p. 17): l’espressione mi pare un tetro apax. Egualmente ignoravo l’esistenza, pur metaforica, d’una “milza empiamente rutilante” (p. 33: “rifulge empia, fiammeggiando”, per così dire). Appare il latinismo “asperrimo” (p. 39), l’anglicismo “mangrovia” (p. 40), un rarissimo “toreare” (p. 45) (“esercitare la tauromachia”, pur figurato), e si va toreando con “isagogica eleganza”: “isagogica” è grecismo, significa “introduttivo”. Se vogliamo dirla tutta, il toreato è un “ischemico animale”.

Frequenti altri grecismi, da “isoipsa” a “isologia”: ma Serpieri non è Savinio, il lettore l’avrà forse compreso. Potrei continuare a lungo, ma lascio il compito ai linguisti, concludendo la campionatura con il lemma “bulinato”, voce forse longobarda, da *boro, “succhiello”, attraverso l’arcaico “burino”.

Ora che tutto è finito, questa conclusione ci sembra vera come una profezia, con i due soli appesi in cielo a fare confusione tra giorno e notte, alba e tramonto, genesi e apocalisse. Ormai non pensiamo più nei termini del tempo trapassato, non diciamo più ieri o domani, era o sarà. Non ci rivolgiamo più a un futuro inesistente. Vaghiamo sulle coste boscose della nostra isola bruna, contiamo gli ultimi uccelli appesi nel cielo, nutriamo i pochi pesci dello stagno e pisciamo alle radici degli alberi che muoiono asfissiati. Ci teniamo, insomma, buona compagnia: noi due, gli eletti, i posteri, gli antenati, i signori degli abissi, di tutte le stalattiti e stalagmiti che trafiggono un’isola deserta per l’eternità” (“Cronaca fedele dell’apocalisse”, p. 108). Amen.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Alessandro Serpieri (Molfetta, 1935 - Firenze, 2017), docente, critico letterario e traduttore italiano. Ha insegnato Lingua e Letteratura Inglese presso la Facoltà di Magistero di Firenze.

Alessandro Serpieri, “Mostri agli alisei”, Bompiani, Milano 1977.

Gianfranco Franchi, ottobre 2004.

Prima pubblicazione: Lankelot.