Litania di un arbitro

Litania di un arbitro Book Cover Litania di un arbitro
Thomas Brussig
66thand2nd
2009
9788896538029

Ich habe fertig”, cioè “Io sono finito”, dichiarò Trapattoni al termine d'una memorabile conferenza stampa in Germania, qualche anno fa, guadagnandosi la simpatia di tutto il mondo: incazzato come una iena, aveva confuso il verbo “essere” con il verbo “avere”. Forse è una coincidenza o forse no, sta di fatto che il protagonista del libro di Brussig, scrittore tedesco classe 1964, moderatamente calciomane, ex grande tifoso della (scomparsa) Dinamo Berlino, si chiama proprio “Fertig” di cognome. Non c'è tifoso o appassionato di calcio nel mondo che al solo suono di quella parola non si ritrovi a ridere, ormai inconsciamente, istantaneamente. Immagino che Brussig ne fosse pienamente consapevole. In questo senso, la satira espressa nel romanzo – come vedremo – riesce di lusso, giocando subito molto bene a livello subliminale. Nelle ultime battute, invece, si ritorna a meditare sull'antico adagio “nomen omen”, perché Fertig è letteralmente un uomo finito. E viene voglia di tornare alle prime pagine del libro, per capire come sia stato possibile aver letto un libro fatto di una parentesi di settanta pagine attorno a un evento ridotto a quattro o cinque. Il meccanismo funziona, non ci piove: disorienta e spiazza. La sensazione, comunque, è quella d'aver letto due libri estremamente diversi tra loro. No, non diversi: estranei.

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Uwe Fertig è un tizio che non è capace di stare da entrambe le parti, gli manca l'esercizio: s'è fatto un nome nel non-stare-da-nessuna-parte, nel mondo. Perché “non stare da nessuna parte, essere imparziale, e per di più ad alti livelli, richiede talento” (p. 14). Sì, quello è il talento di un arbitro. Un arbitro FIFA, internazionale. E come tutti gli arbitri Fertig deve combattere contro un'opinione pubblica che lo considera al limite un atletico burocrate, non di rado malato di protagonismo, tendenzialmente scapolo (quando non cornuto), frustrato in quanto calciatore fallito, narcisista e prepotente, cieco e corrotto. Ma come ogni ottimo arbitro sa bene che la storia è ben diversa: senza carisma e personalità non si entra nemmeno in campo (vero: cominciano a insultarti, a volte, già prima del fischio d'inizio), è inutile barare. Serve fegato per tenere a bada trenta persone tra giocatori in campo e in panchina, e centinaia o migliaia o molte migliaia di spettatori in tribuna. Fegato, presenza, lucidità.

Come ogni onesto arbitro, Fertig sa bene che la partita dipende da come, cosa, quanto e quando fischia. E come ogni arbitro di qualunque parte del mondo rivendica che la sua professione è l'unica in cui si è costretti a partire dal basso, dalla gavetta, sperimentando il proprio carattere e le proprie capacità dagli inferi dei campionati giovanili e amatoriali. È, in altre parole, una professione modesta, uncinata all'umiltà.

Come ogni cittadino lucido, Fertig sa che la massa è pericolosa e incompetente: soprattutto quando giudica dagli spalti, o da lontano; e pretende d'avere ragione, senza guardare, vedendo soltanto.

Soprattutto: Fertig, come chiunque ha giocato a calcio, sa che “sul campo non si fa altro che mentire, ingannare, simulare e barare. La consapevolezza di essere circondato da bugie, da nient'altro che bugie, è una cosa che all'inizio mi rifiutavo di ammettere” (p. 46). Eppure, menzogne o no, il calcio è una droga, e partecipare al gioco una fortuna incredibile: quale che sia il ruolo possibile, o il ruolo prescelto. E quando l'amore per il gioco è tanto grande da farti dimenticare o trascurare le cose che contano veramente, possono succedere cose troppo tristi per essere accettare. La negligenza ammazza. Eppure, quelle sono cose vere: vere più delle sceneggiate che si ripetono in campo, sugli spalti, alla tv, e magari devi stare là a giudicare. Sono cose vere, e incancellabili.

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Confidenze arbitrali. “Devo ammettere che quando estraggo il cartellino rosso per espellere una superstar mi sento come un boia che impicca un re” (p. 16). Non dev'essere male, immagino. “L'arbitro è il creatore del gioco, nel vero senso della parola, è il vero uomo-partita, ma nessun arbitro riesce a godersi fino in fondo questo ruolo. E non deve neanche goderselo. L'arbitro è tanto più bravo quanto meno si fa notare” (p. 17). Classico. Presuntuoso ma classico.

Confidenze politiche. “A Berlino Est, ai tempi della caduta del Muro, l'arbitraggio era l'incarnazione dell'orrore visto che era crollata ogni tipo di autorità; l'autorità stessa veniva ridicolizzata e ignorata, e gli arbitri non se la passavano tanto meglio” (p. 20). Vittoria sul regime. Comunismo, addio. I giocatori e i tifosi stavano per scoprire la libertà: la libertà di criticare, di fischiare, di opporsi alle ingiustizie. La democrazia bagnava la povera Germania Est, come una benedizione.

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Brussig non è un tifoso come Nick Hornby, non è nemmeno un ossesso dal calcio, a quanto leggiamo nelle appendici: è un letterato appassionato di calcio, capace – con intelligenza – di leggerlo e raccontarlo eticamente e politicamente, raccontandoci qualcosa delle due Germanie e della nuova Germania che difficilmente avremmo scoperto, come la storia delle squadre di Berlino Est, o della romantica fortuna del St. Pauli, o dell'insperato successo cittadino dell'Hertha Berlino.

In questo racconto lungo, Brussig prende le parti di un protagonista del gioco che non ha facile letteratura, l'arbitro. Paradossalmente, riesce a essere trascinante e convincente, quasi fosse stato davvero un arbitro anche lui. Per quanti, come me, hanno fischiato per qualche anno nei campi di periferia dei campionati giovanili e amatoriali o dilettanteschi, questo libro è – per molti aspetti – una conferma del delirio di cui ci si era presi carico, per quattro lire e molta passione, e stupido amore per un gioco che forse non ci apparteneva se non come tifosi. Le ultime battute del romanzo, però, sgretolano tutto il resto, e spingono semplicemente a pensare al senso e all'importanza delle passioni e delle attività di ognuno di noi. Se una passione cancella il senso del dovere e della responsabilità là dove essi hanno importanza, e cioè fuori dal campo, fuori dal posto di lavoro, nel mondo degli affetti, allora quella passione è tossica, e va respinta. Se quella passione implica la nostra assenza ripetuta e prolungata e gelida nel nostro vero campo da gioco, è una cazzata, e non vale la pena viverla. E non importa se quella passione è un sentiero di lettura della realtà e della società unico e straordinariamente efficace, come il calcio. Importa soltanto dimenticarsene, e ritornare al proprio posto.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Thomas Brussig (Berlino Est, DDR, 1964), scrittore, drammaturgo, saggista e sceneggiatore tedesco. In IT, Mondadori ha pubblicato “Eroi come noi” e “In fondo al viale del sole”. È stato tradotto in 29 lingue.

Thomas Brussig, “Litania di un arbitro”, 66THAND2ND, Roma, 2009. Traduzione di Elvira Grassi e Nikola Harsch. Collana “Attese”, 2. In appendice, “Appunti di un tifoso”, “Il calcio”, “Breve excursus sulla mia vita da tifoso”.

Prima edizione: “Schiedsrichter Fertig. Eine Litanei”, 2007.

Approfondimento in rete: WIKI en / Brussig su YOUTUBE / Sito di TB

Gianfranco Franchi, Dicembre 2009.

Prima pubblicazione: Lankelot.

Brussig non è un tifoso come Nick Hornby, non è nemmeno un ossesso dal calcio, a quanto leggiamo nelle appendici: è un letterato appassionato di calcio…