Lire 26.900

Lire 26.900 Book Cover Lire 26.900
Frédéric Beigbeder
Feltrinelli
2016
9788807888540

L’incipit è di una semplicità e di una immediatezza brucianti: “Tutto è provvisorio: l’amore, l’arte, il pianeta Terra, voi, io. La morte è talmente ineluttabile che coglie tutti di sorpresa. Come sapere se questo giorno è l’ultimo? Crediamo sempre di avere tempo. E poi, di colpo, puf, non ci siamo più, fine del tempo regolamentare. La morte è l’unico appuntamento non segnato sul vostro organizer. Tutto si compra: l’amore, l’arte, il pianeta Terra, voi, io. Scrivo questo libro per farmi licenziare. Se mi dimettessi, non beccherei l’indennità. Mi tocca segare il confortevole ramo su cui sto appollaiato. La mia libertà si chiama sussidio di disoccupazione. Preferisco essere sbattuto fuori da un’impresa che dalla vita. PERCHÉ HO PAURA (…)” (p. 15)

Questo romanzo è stato un singolare caso letterario, nel 2001: perché è un j’accuse gridato dall’interno del sistema, col manifesto intento di contribuire a smascherarlo e a sgretolarlo. La patina di letterarietà, quando subentra – pensiamo in particolare alla prima metà dell’epilogo, che appare facile e sciatta, pensiamo a qualche frammento assolutamente didascalico e tanto inopportuno da apparire miracolosamente estraneo all’editing, pensiamo a qualche scivolone nel cliché tardo novecentesco dell’esibita e autoreferenziale coprolalia – attutisce e mitiga la rabbia iconoclasta che anima i frangenti più ispirati e intensi del romanzo. Beigbeder, a un tratto, sembra ricordarsi d’essere un critico letterario, e non solo un romanziere: e scrive con animo barocco, perde incisività per farsi caricaturale e parossistico; ma la percezione d’artificiosità è, col passare delle pagine, sgradevole. Solo questo il limite? Direi che – a conferma della simpatia manifestata dall’autore nei confronti di Houellebecq, sin dalle prime pagine del romanzo – si può registrare una nuova attestazione della metà oscura dei neo-nichilisti del nostro tempo; ossia l’inattesa epifania del sentimento, il cesellare sul “nulla” fino a scolpire le immagini di una donna, l’ansia di vivere un’emozione pura e non mediata, il rimpianto e il rimorso per l’avventata condotta passata; come un personaggio di Houellebecq, questo Octave beigbederiano scopa con immensa nostalgia dell’amore; e più s’affatica a normalizzare e radiografare il sesso, più sembra scrivere piangendo. È chiaro che il neo-nichilismo è denuncia di aporie e di deserta e degradante corrispondenza della realtà allo spirito dell’artista, non è autentica avidità di vuoto né negazione dei valori dell’esistenza: non ho mai percepito tanta nostalgia dell’amore – d’un amore quasi mistico – e di una nuova metafisica come nelle pagine di Houellebecq e di Beigbeder.

Cosa significa? Significa che l’intelligenza della nuova generazione sta per dare vita a un nuovo sistema di valori, sta per interiorizzare un nuovo ideale, sta per rivendicare universalità a un’Idea: altrimenti, come lo stesso autore del libro, in un frangente, sembra suggerire, l’assenza di senso alimenterà la pazzia d’ogni individuo. Non accadrà, ne siamo convinti: l’umanità è nihil-repellente. Beigbeder ha definito, in una intervista, questo romanzo come “una riflessione sulla dominazione economica, su come il denaro è diventato un fine e non un mezzo, un cerchio senza fine che si autocompiace di se stesso. La pubblicità non è inoffensiva, veicola immagini pericolose, è razzista e non riflette la realtà multiculturale del mondo occidentale”.

E questo è, senza ombra di dubbio, l’aspetto più affascinante di questo libro: spurgato dalla mal velata patina sentimentale, orbato dal cerebrale e falso sperimentalismo (exempla: il libro è strutturato in sei capitoli, intitolati – indovinate perché – “Io”, “Tu”, etc.; intervallati da prose para-pubblicitarie, concluse da un memorabile spot del suicidio), è un libro dall’alto potenziale distruttivo (non dico: “rivoluzionario”). Senza pars costruens, è naturale: l’alter ego di Beigbeder non crede – apparentemente – in nulla. È un integrato che si rivela apocalittico: come l’innominato protagonista del “Fight Club” di Palahniuk, per intenderci. Con episodica esplosione di violenza – senza plagiare eccessivamente “American Psycho” di Ellis – e franca consapevolezza del proprio benessere economico, che pare determinare un’abulia morale e viene descritto come responsabile d’una sfrenatezza e d’una licenziosità un po’ grottesche. Valga quanto s’era scritto, in passato, a proposito di “Less than Zero” di Ellis: c’è un oscuro legame tra certi narratori degli ultimi venti anni, chiarissime sono le analogie estetiche e speculari le miserie etiche ed esistenziali dei loro personaggi. Le motivazioni – serve ancora ribadirlo? – non sono misteriose: morte delle ideologie, fragilità dell’etica, ostentato edonismo e mortificazione del culto della bellezza, spontanea avversione nei confronti della società dell’immagine, disgusto nei confronti dell’avidità, della grettezza e della volgarità della nazione padrona del mondo; negazione del sentimento, precipizio e rifugio nella “visceralità” dell’essere umano.

È un libro assolutamente contemporaneo per ambientazione, trasandatezza del linguaggio, manifesta tendenza del protagonista all’autodistruzione e compiaciuta conflittualità con “il sistema”. Come (richiamo ovviamente esplicitato nel libro: Beigbeder è, del resto, un astuto critico letterario) il Bardamu céliniano, Octave vaga in cerca d’un responsabile del male suo, e del suo tempo: il male è rappresentato dal potere economico, mediatico e politico delle multinazionali. Stop.

Octave sogna di annegare senza chiedere aiuto, in un mare popolato da nuotatori che annegano muti. Vuole liberarsi dal sistema, andare in pensione a trentatre anni: essere un liberatore (Prometeo, Cristo, Che Guevara) liberale (per così dire: preferiremmo: “borghese”) dell’umanità condizionata dalle pubblicità a soffrire per acquistare, a volere senza possedere mai quel che è giusto, opportuno e alla moda, e via dicendo.

Octave è uno di quei pubblicitari che “inquinano l’universo”, facendoci sognare quel che “non avremo mai”: è uno stimolatore di gelosia, dolore, soddisfazione, un profondo conoscitore delle debolezze della psiche umana che si diletta, per denaro (13mila euro al mese, più extra, poi 30mila), ad educarci al postmoderno “spendo dunque sono”. Perché “glamour è un paese dove non s’arriva mai”: Octave ci droga di novità, ci propina un prodotto dopo l’altro, mentre noi – ex individui, ex cittadini, ora, come qualcuno vorrebbe, “consumatori” – ci illudiamo del libero arbitrio: “credete di possedere il libero arbitrio, ma un giorno o l’altro riconoscerete il mio prodotto negli scaffali di un supermercato e lo acquisterete, così, tanto per assaggiarlo, credetemi, conosco il mio mestiere” (p. 19).

Octave è un narratore che dichiara di voler essere detestato, prima ancora che il lettore possa detestare l’epoca che l’ha generato: è disgustato dalla stupidità degli uomini di questo tempo – e da un sistema che, come insegnava Churchill, è il peggiore a eccezione di tutti gli altri (p. 21). Reputando la letteratura una delazione, e ogni scrittore una spia (p. 27), scrive questa “confessione” (in accezione agostiniana) prima di levarsi da torno.

Entriamo nel mondo della pubblicità: oggi si parla di claim, non più di slogan, e la lingua di quella gente è orrendamente americana: preparatevi a una sequenza di odiosi e barbari lemmi come “brand review”, “insight”, “script”, “concept”, “account”, “roughman”, “Key Visual”, “headline”, “tv producer”, e via dicendo; Beigbeder rivela il codice vuoto e idiota di questi antropoidi, e la tentazione del lettore è di buttare un cerino acceso su ognuna di queste parole, e di osservarne, godendo, la polverizzazione, tanto inquinano il libro.

Octave è impegnato in una campagna per uno yogurt; il committente, Duler, ha fede nella crescita economica e reputa il consumatore un sub-umano. Il copywriter (creativo?) soffre per il recente distacco dalla sua compagna: l’ha abbandonata perché non voleva diventare padre della creatura che lei attendeva. Questo avalla un consumo di cocaina quotidiano, qualche critica al sistema, un briciolo d’autocritica (mai eccessiva), tanta nostalgia e perfino qualche accesso di romanticismo. E intanto, mentre la sua Sophie rifiuta di recuperare il rapporto (è dunque l’amore ad aver risvegliato l’assassino dell’intelligenza: non la coscienza della terribile mediocrità del suo lavoro, che altrimenti avrebbe conservato), Octave cita Goebbels per spiegare cosa sia la pubblicità (“non verità, effetto”), si definisce un pubblicitario “pubblifobico”, ribadisce d’essere un rivoluzionario che, fedele alla lettera gramsciana, vuole dirottare l’aereo salendoci a bordo, e via dicendo.

Ricorda che gli stagisti sono i nuovi schiavi (p. 47: sacrosanto), spiega come e quanto siano sfruttati e ridicolizzati nelle aziende, ricorda che siamo sottoposti a circa quattromila messaggi commerciali al giorno (p. 51), che le multinazionali sono tanto ricche da poter cancellare il debito delle nazioni povere del mondo, e che il PIL d’una nazione europea come il Belgio o la Danimarca equivale al fatturato della Microsoft, o della General Motors. Predice un mondo in cui il nome dei popoli sarà quello delle aziende (ma ne aveva parlato Rifkin, ne “L’era dell’accesso”, se non ricordo male), ibrida il verbo della Klein di “No Logo” con quello, appunto, rifkiniano e conduce un attacco frontale.

Come si conduce un attacco frontale di questo tipo? Ricordando, ogni tanto, che in Francia ci sono 12mila suicidi l’anno (più di uno l’ora), che – mentre le mele passano da 60 a 3 varietà, i polli diventano adulti a furia d’antibiotici e d’ansiolitici in 42 giorni e non più in 90, la coca cola non contiene più coca ma altro (si veda a p. 63) – aumentano tumori, leucemie; e forse neppure l’HIV è estraneo, ab origine, dalle pessime abitudini alimentari e dalla scarsa qualità della vita (inquinamento, alimentazione). Rivelando che esistono lavatrici indistruttibili che non vanno sul mercato, calze che non si smagliano che non vengono commercializzate, pneumatici antiforo che rimangono ai box, che il dentifricio è inutile per l’igiene orale, che la circolazione delle macchine elettriche è ostracizzata dalle lobbies del petrolio; e via dicendo (p. 65).

Intanto, perde diciassette chili in tre mesi, spende 400 euro di cocaina al giorno, ascolta musica di cantanti suicidi, si ritrova internato in un ospedale psichiatrico dove legge libri di scrittori suicidi, mentre si lascia disintossicare (paga l’azienda): piange il perduto amore, piange il suicidio del suo capo, piangerà altri suicidi e – indirettamente – si suiciderà, come vedrete.

Sognava un’ecologia della comunicazione nuova. Si domandava se essere uomo libero, o etico e prigioniero. Il problema del narratore è tutto qui: nell’equazione etica:prigionia, e libertà:anarchia. Intanto, conclude il suo libro orgogliosamente anti-sistema, dopo essersene nutrito e dopo essersi arricchito; racconta cose che avremmo potuto leggere nei saggi della seconda metà degli anni Novanta, condendole con pseudo-nichilismo e autentico post-romanticismo. È assai compiaciuto, e – se è lecito – eccezionalmente astuto. Ma è vivace, e godibile. Non posso scrivere che sia “onesto”.

È un cannibale e un parassita al contempo; ma è un parassita intelligente, che ascolta buona musica e legge buona letteratura. E sa flagellarsi quando s’accorge d’essere noioso o d’essere falso. Da leggere – preferibilmente, dopo “No Logo” e “L’era dell’accesso”: se doveva essere un libro di rivelazioni, è opportuno ricordare che come “rivelazioni” sono decisamente datate.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Frédéric Beigbeder, (Neuilly-sur-seine, 1965), romanziere e critico letterario francese. Ha esordito nel 1990 pubblicando “Mémoire d’un jeune homme dérangé”. Prima della pubblicazione di questo libro, lavorava per l’agenzia pubblicitaria “Young & Rubican”. È stato licenziato.

Frédéric Beigbeder “Lire 26.900”, Feltrinelli, Milano 2001. Traduzione di Annamaria Ferrero.

Prima edizione: “99 Francs”, Grasset & Fasquelle, 2000.

Gianfranco Franchi, ottobre 2004.

Prima pubblicazione: Lankelot.