Linea della vita

Linea della vita Book Cover Linea della vita
Dag Hammarskjöld
Rizzoli
1966

Dag Hammarskjöld: svedese, credente, Segretario Generale dell’Onu eletto nel 1953 e confermato nel 1957. Morì “come un soldato” – così scrisse il Corriere della Sera – in un misterioso incidente aereo. Viaggiava per un’importante missione, legata alla questione congolese. Premio Nobel per la Pace, ad honorem e post mortem. Completamente dimenticato a distanza di quarantasei anni, qui in Italia, se non fosse per una nuova edizione del Monastero di Bose, edita nel 2006 (“Tracce di cammino”). La mia lettura si fonda sulla prima edizione italiana, quella Rizzoli 1966, tradotta da Gian Antonio De Toni e Louise Åkerstein, col titolo “Linea della vita”. Ho fortunosamente reperito copia del libro nella biblioteca di famiglia, l’avevo annotato tra gli scandinavi da riscoprire. Onestamente non ne sapevo nulla, della sua vicenda esistenziale e della sua misteriosa morte; né del Nobel. Credevo di avere di fronte un libro d’un letterato alla Dagerman, stando alla copertina e al titolo. Ero ben fuori strada. La consolazione di Dag è diversa da quella di Stig: è Dio, nulla manca. Sa di cosa ha bisogno, crede in Dio e sa di non essere niente, e questo non lo sbilancia e non lo confonde. È presente e persuaso: consapevole d’essere una pedina nello scacchiere misterioso di colui che è.

“Vägmärken”, “Linea della vita”, è un libro di frammenti d’un uomo politico d’altri tempi, d’altra cultura e d’altro spessore; un libro che poteva rimanere segreto, perché raccoglieva pensieri, aforismi, versi, brevi passi di prosa, dialoghi con Dio: è un atipico diario di note e appunti che vede la luce dopo la morte dell’autore, opera unica e opera omnia a un tempo. Un libro della vita d’un uomo disperatamente solo, Segretario dell’Onu e tuttavia o forse per questo assolutamente isolato nel suo mondo interiore, pronto a giudicarsi, a criticarsi, a cercare di non perdere la strada, a pensare a Dio e ai testi sacri. Sono le pagine di un giusto che sembrava presagire una morte che fosse sacrificio cristiano nel nome della giustizia e del popolo: da un punto di vista letterario non mi sembrano una testimonianza eccezionale, al limite caratteristica e in ogni caso non unitaria e non adeguatamente strutturata. Ma questo libro non era l’opera d’un letterato, era la trascrizione della vita interiore d’un importante funzionario. Così va trattato, come il dono d’un uomo morto per una causa.

Sulla base di queste considerazioni, ritengo non opportuna, non sensata e non idonea una recensione, un saggio breve o una puntuale descrizione delle caratteristiche stilistiche dell’autore; nemmeno mi pare il caso di risvegliare certi nomi (Strindberg; Kierkegaard) per comparare la sua tensione verso Dio, verso la morte: o la sua introspezione. Significherebbe aver frainteso la differenza tra arte e diario d’un funzionario dalle buone letture. Non accadrà. Il confronto sarebbe inumano e ingeneroso. Come funzionario intellettuale è grande e intenso, come artista sarebbe stato di passaggio.

Quindi, andrò campionando qualche passo scelto, dialogando idealmente con l’anima solitaria e solipsistica di Hammarskjöld, tracciando l’ombra della sua linea della vita. Così quel pensiero vive, vive ancora e vive d’un confronto che probabilmente avrebbe voluto avere in vita. Niente Letteratura, quindi, ma dialogo tra anima e anima. Dico subito, per saldare i debiti con le sue buone letture, che tra gli altri nomina o si confronta con le ombre di Holderlin, Cocteau, Milton, Eliot, Melville, Conrad; Thomas Browne. Tutti accuratamente decontestualizzati, ridotti a una manciata di righe o di versi, o personalizzati con poca cautela: in altre parole, interiorizzati. Senza senso diverso dalla funzionalità.

Tra il 1925 e il 1930, scriveva: “Domani ci incontreremo, / la morte ed io. / Spingerà la sua spada in uno che vegliava. / Ma come morde il ricordo d’ogni ora / sperperata”. In questa strofa ritroviamo diverse delle tematiche presenti nell’opera: l’incontro e l’attesa della morte, la dedizione al presente, all’istante; la consapevolezza che ogni cosa è nelle mani di Dio, e che noi non siamo niente. Al di là del valore simbolico e della scolasticità dell’immagine, mi premeva proporla subito come viatico a questo florilegio di passi dell’intellettuale svedese. Negli anni Cinquanta, l’autore si consigliava: “Prega che la tua solitudine sia spronata a trovare qualcosa per cui vivere, che sia qualcosa di abbastanza grande per cui morire” (p. 64). Eppure, in giovinezza si diceva: “Quello che devi osare: di essere te stesso. Quello che potresti ottenere: che la grandezza della vita si rispecchi in te a misura della tua purezza” (p. 12). L’impresa era semplice: non disertare. Accettare la sofferenza, accettare la critica, accettare la morte, accettare i rovesci della sorte. Perché “quanto è necessario che venga deve venire. Entro i limiti di questa necessità sei dunque invulnerabile” (p. 37). Sa già quel che accadrà: “Fedele al proprio futuro. Anche se ciò significa semplicemente ‘se préparer à bien mourir’” (p. 49). I sogni, un tempo, erano magnifici: “Non misurare mai l’altezza del monte prima d’aver raggiunto la cima. Allora vedrai quanto era basso” (p. 12) – che sembra eroismo romantico, a ben guardare, massimalismo puro. È solo giovinezza.

Fulcro della coscienza: solitudine, ricerca di senso. E infatti: “Chiedo l’assurdo: che la vita abbia un senso. Mi batto per l’impossibile: che la mia vita ottenga un senso. Non oso credere, non so come poter credere: di non essere solo” (p. 64). Ancora: “E che senso ha alla fin fine la parola ‘sacrificio’? Ovvero anche la parola ‘dono’? Chi non ha nulla non può dare nulla. Il dono è di Dio a Dio” (p. 66). Siamo meno di polvere. Il prezzo è chiaro: “Alle mie condizioni, quelle poste da me. Vivere sotto questo segno significa comprare la conoscenza di una linea della vita, al prezzo della solitudine” (p. 15). Versato, in nome di Dio e degli esseri umani, per il futuro. Per avere avuto senso.  Allora il niente promesso avrà colore, altrove, e musica. Essere, essere soltanto in Dio. Qui e ora: ecco la maturità.

1950. “Questa felicità è qui e ora, / nell’eterno attimo cosmico. / Una felicità presente in te, ma non tua”. (p. 30).

1957. “Non guardarti indietro. Non sognare il futuro: esso non ti ridarà il passato né soddisferà altri sogni di felicità. Il tuo dovere e il tuo compenso – il tuo destino – è qui e ora” (p. 108). E quindi: “Signore… tuo è il giorno, / io sono del giorno” (p. 118). La fede – unione di Dio con l’anima – è indagata, analizzata, interrogata. “La fede è: dunque non si può afferrare né tanto meno identificare con le formule in cui parafrasiamo ciò che è. (…). La notte della fede, tanto oscura che non vi possiamo cercare neppure la fede. È la notte di Getsemani, quando gli ultimi amici dormono, tutti gli altri cercando la tua rovina e Dio tace mentre l’unione si compie” (p. 69).

Ubi sum ego, et vos sitis (Gv, 14, 3).

Ti rispondo: Non omnis moriar. (Orazio, Odi, III, 30, 6).

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Dag Hjalmar Agne Carl Hammarskjöld (Jönköping, Svezia, 1905 – Ndola, Nord Rhodesia, oggi Zambia, 1961), uomo politico svedese, figlio d’arte. Segretario Generale dell’Onu, eletto nel 1953 e nel 1957. Morì “come un soldato” – così scrisse il Corriere della Sera – in un misterioso incidente aereo. Era in missione per affrontare la questione congolese. Premio Nobel per la Pace.

Dag Hammarskjöld, “Linea della vita”, Rizzoli, Milano 1966. Traduzione di Gian Antonio De Toni e Louise Åkerstein.

Nuova edizione: “Tracce di cammino”, Qiqajon, 2006. Prima edizione: “Vägmärken”, Stockholm, 1963.

Il manoscritto fu rinvenuto nell’abitazione newyorchese di Hammarskjöld, subito dopo la sua morte, assieme a una lettera indirizzata al sottosegretario svedese agli Affari Esteri, Leif Belfrage. Nella lettera l’autore affidava l’opera al suo amico, spiegando che poteva essere pubblicata come una specie di “libro bianco” che riguardava il commercio con se stesso e con Dio.

Gianfranco Franchi, luglio 2007.

Prima pubblicazione: Lankelot.