Letteratura come menzogna

La letteratura come menzogna Book Cover La letteratura come menzogna
Giorgio Manganelli
Adelphi
2004
9788845919374

Questo libro è diviso in tre sezioni ed è formato da venticinque brevi saggi ed articoli pubblicati da Giorgio Manganelli nell’arco di dodici anni, tra il 1955 e il 1967. La menzogna, come già accennato nella recensione dell’opera di Torquato Accetto, è stata uno dei topoi nella ricerca artistica di Manganelli: queste pagine, suddivise con particolare eleganza secondo criteri di affinità o di analogia tematica o stilistica, si concludono in un ultimo capitolo che può senza difficoltà essere definito un manifesto della poetica dell’autore. Ne estraggo una breve frammento perché introduca nitidamente la visione della letteratura del creatore dell’ "Hilarotragoedia": “L’opera letteraria è un artificio, un artefatto di incerta e ironicamente fatale destinazione”; ossia, una “pseudoteologia”, dove “tutto è esatto, e tutto è mentito” (p. 176).

Nel primo saggio, inizialmente apparso nel 1964 come introduzione a "Il cardinal Pirelli" di Firbank, un breve paragrafo illumina il sentiero della nostra ricerca: “Con le sue alterazioni, gli errori, gli spostamenti, le distrazioni calcolate vuole raggiungere un risultato: una invenzione di assoluta, coerente artificialità. Implicita a tutto il lavoro di Firbank è la convinzione che ogni descrizione linguistica è artificiale, che nulla va fatto per nasconderne questa sua illuminante e difficile qualità” (p. 14). Infatti, “Il linguaggio non serve a conoscere una eventuale realtà, ma a sfiorarla, a non vederla, pur sapendo esattamente dove si trova, anzi presupponendo appunto che questo si sappia in modo indubitabile” (p. 14).

Quest’ultima affermazione rimane sospesa, e paralizza. Il linguaggio può limitarsi a sfiorare la realtà, conosciuta integralmente solo dal pensiero. La letteratura è quindi la più onesta espressione dell’artificialità del linguaggio: è consapevole della sua limitatezza, e sin dal principio si propone fisiologicamente menzognera. Compito del letterato, come leggiamo nel saggio dedicato a Stevenson, è di far divenire destino e struttura “ogni orrore e dolore, verità e menzogna” (p. 27).

Quale realtà diviene allora quella dell’espressione artistica? Quali verità nasconde il linguaggio, quali profondità si celano nella superficie perfetta dell’artificiosità? Parrebbe di assistere al tentativo consapevole di pronunciare l’ineffabile; quel “nulla di inesauribile segreto”, il segreto del porto sepolto di ungarettiana memoria, la consapevolezza che il linguaggio altro non è se non il segno di una verità unica, perduta, dimenticata, oppure tragicamente impronunciabile. Ma non inconoscibile: la sacra menzogna, la letteratura, ne potrebbe essere il segno.

Ci consola la coscienza dell’artificio, della recitazione, del ben lavorato inganno” (p. 30) scrive Manganelli in altro contesto, nel saggio dedicato a Dumas. Qual è il senso di questo desiderio di consapevolezza dell’inganno? Forse è un’innata vocazione umana al gioco; al piacere dell’illusione, alla gaiezza dell’irrealtà; altrimenti, ben più doloroso può essere riconoscere che, nell’inganno costituito dal linguaggio e dalle strutture sociali dell’uomo, diviene necessario, ipotizzo, per non implodere creare dall’artificio della comunicazione l’inganno della creazione artistica: una dimensione dove tutto è menzogna, teoricamente antitetica a quel che dovrebbe essere la reale esistenza. Dimensione dove invece, paradossalmente, si riflette ciò che è. Ciò che non possiamo accettare, ciò che non potremmo forse mai accettare; il sogno e l’incubo ripudiati e trasfigurati trionfano nel gioco più perfetto e vivo: l’arte.

Uno dei tratti più brillanti di questo libro è il quarto saggio, ossia la prefazione alla splendida edizione Adelphi di “Flatlandia”, la terra bidimensionale abitata da figure totalmente piatte creata dal reverendo Edwin A. Abbott nel 1882.

Ecco come Manganelli illustra la definizione di luogo: Un luogo è un linguaggio: noi possiamo essere qui solo accettando le regole linguistiche che lo inventano. Essendo il porsi di un linguaggio arbitrario e non deducibile, i diversi linguaggi indicheranno luoghi totalmente discontinui. Come è appunto Flatland, nei confronti di qualsiasi luogo umano” (p. 35).

Il linguaggio è “l’assoluta contraddizione che è tuttavia l’unica sede abitabile”. Una volta stabiliti i valori, subentrano il gioco e il rito: bisogna convenire sui significati delle parole, sul senso degli atti compiuti. L’uomo crea luoghi; forgia simboli; innalza al cielo totem di divinità inesistenti, spingendosi ad antropomorfizzarle nel disperato tentativo di illudersi, o nella volontà di costringere i suoi simili ad accettare che una verità esista.

La splendida intuizione di Accetto fiorisce nel Manganelli, suo interprete ultimo: accettiamo dunque di dissimulare la menzogna per vivere? Conosciamo l’origine della verità, la salutiamo nella menzogna; conveniamo che un concetto sia vero, costruiamo sensi e significati, definiamo luoghi; e la memoria delle passate verità diviene leggenda o mitologia. L’uomo sa: l’uomo è consapevole che tutto ciò che lo circonda sia creazione del suo linguaggio e condivisione dei suoi simboli. Tuttavia, preferisce credere inganno il gioco sublime della letteratura, stabilendo in tal modo che la sua ideale antitesi sia la realtà. Questa ragione può indurmi a predire che la letteratura non morirà mai, né si dissolverà progressivamente: è necessaria più degli dei agli uomini, perché gli dei dalla letteratura realmente nascono, e nella letteratura realmente muoiono.

Un esito forse caricaturale di questa affermazione ci viene prestato dalla breve prosa Ragnarők, presente nello zibaldone di Borges “El hacedor”, ossia “L’artefice”: gli Dei si presentano nell’Aula Magna della facoltà di Lettere e Filosofia, dopo millenni di oblio. Secoli di vita “randagia e ferina” avevano “atrofizzato quanto avevano di umano”: il loro aspetto è grottesco, e per evitare di essere preda della paura o della pietà, sentimenti pericolosi, Borges e Ureňa “allegramente” li uccidono a revolverate, ben consapevoli dei potenziali drammi causati dal ritorno delle antiche divinità. Manganelli, come accennato in apertura, sosterrà che la letteratura sia una pseudoteologia, perché prima sua figura retorica è l’invenzione degli dei e dell’inferno. Mi domando quale sia la necessità di aggiungere il prefisso “pseudo” alla parola teologia. “Non sarà forse ogni linguaggio, il nostro, e qualsiasi altro che possa prenderne il posto, un sistema di coerente follia, una delirante organizzazione nel nulla?” (p. 43)

In questo libro troviamo non la descrizione degli elementi fisici utili ad individuare il mentitore o la cruda disamina della sua condizione di nervoso fuggiasco prossimo alla resa; ma un suo ritratto. Manganelli riferisce che costui sia l’escogitatore della letteratura fantastica: Da sempre si aggira sulla terra, in diverse e riconoscibili incarnazioni, un uomo singolare: scostante, e affascinante; tiene del sordido, e certo dell’ambiguo; e alla spregevolezza mescola qualcosa di grandioso. Lo si direbbe imperfettamente umano: sebbene sia difficile dire se la sua sottile inesattezza venga da commistione angelica o animale. È il Grande Mentitore. [...] La sua parlata è strana ed esotica, ma ignoriamo se ciò venga da naturale, invincibile simulazione, o da quella umanità inesatta [...]. Non ha dimora, neppure nome certo [...]. Vi è in lui una fondamentale vocazione all’anonimato. Forse, per estrema mistificazione, si è scelto un nome tanto ostico e impronunciabile, che si preferisce indicarlo con un termine allusivo: è il Marinaio, il Cieco, l’Ospite, Tusitala – il raccontatore di belle storie” (p. 44).

Yeats, autore amatissimo da Manganelli, che tradusse le sue poesie, potrebbe concludere il discorso con questo splendido frammento, incarnando l’identità del menzognero, del sublime cantastorie: “Io sono una folla, sono un uomo solitario, sono nulla” (p. 75).

Salutiamo in questo libro il tentativo di Manganelli di estendere significativamente i margini della letterarietà e della letteratura; al di là di qualche provocazione di stampo moralistico, allorché si allude al cinismo della letteratura o alla doppiezza dello scrittore, tradendo probabilmente l’intenzione di utilizzare le tecniche della latina occupatio, si percepiscono una lucidità e una incisività espositiva non comuni, unitamente ad una franchezza intellettuale davvero mirabile.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Giorgio Manganelli (Milano, 1922 – Roma, 1990), narratore, critico e saggista italiano.

Giorgio Manganelli, “Letteratura come menzogna”, Feltrinelli, Milano 1967.

Edizione consigliata: Adelphi, Milano 2004.

Gianfranco Franchi, luglio 2002.

Articolo originariamente integrato nella tesi di laurea “La menzogna nella Letteratura del Novecento”. A ruota, Lankelot.