L’amore non guasta

L'amore non guasta Book Cover L'amore non guasta
Jonathan Coe
Feltrinelli
2013
9788807883170

A Touch of Love” (1989), secondo romanzo di Jonathan Coe, è un’opera di narrativa che non dovrebbe mancare nelle biblioteche di nessun lettore, e di nessun letterato della nuova generazione. Non è soltanto una lettura della tragedia degli intellettuali del nostro tempo – della coscienza dello scollamento della realtà, della percezione dell’inautenticità della comunicazione, dello strapiombo esistente tra gli studi, le aspirazioni e la ricerca degli uomini di Lettere e la realtà. “A Touch of Love” è un documento letterario attendibile di quanto banditesca e assassina sia stata la politica della coalizione atlantica negli anni Ottanta – e di quante analogie e similarità esistano, pur succedendosi diverse amministrazioni, nella strategia politica angloamericana. Considerando la straordinaria attualità delle considerazioni dell’autore, in un breve frammento del romanzo dedicato alle sue riflessioni sul senso, sulle cause e sulla responsabilità dei bombardamenti in Libia, preferisco siano queste a introdurre il lettore all’opera – più avanti, discuteremo dei personaggi, della struttura del testo, del talento di Jonathan Coe e via dicendo.

L’intervista che Robin, il protagonista del romanzo, sta immaginando di concedere è ovviamente una simulazione. L’intervistatore ha appena registrato un’affermazione interessante: lo scrittore asserisce d’essere atterrito dal comportamento dei governi Reagan e Thatcher – definito “da barbari”; così, incalza: «Gli Stati Uniti agivano per legittima difesa, entro il quadro delle leggi internazionali. Lei non mi verrà a dire che bisognava lasciare che i terroristi tagliassero la corda impunemente?» (p. 114)

Replica Robin: “Ho solo l’imbarazzo di dove cominciare per demolire questa argomentazione: avrei un’infinità di modi per farlo. Gli Stati Uniti si trincerano dietro l’articolo 51 del Trattato ONU; ma se è così, perché non si sono rivolti al Consiglio di Sicurezza prima di passare all’azione (come fece persino la signora Thatcher al tempo della crisi delle Falkland)? Il perché l’ha spiegato martedì in Parlamento la stessa Thatcher: ‘Perché il Consiglio di Sicurezza non avrebbe potuto adottare misure efficaci, così come non è stato in grado di adottare misure efficaci per scoraggiare il terrorismo a matrice statale’. In altri termini, perché non li avrebbe autorizzati a fare niente. Reagan si è messo sotto i piedi le procedure legali. Sapeva che un attacco alla Libia non costituisce legittima difesa secondo i termini dell’articolo 51, perché gli atti terroristici contro i quali ha scatenato la rappresaglia non si potevano attribuire con certezza alla Libia e non erano nemmeno sufficientemente gravi da giustificare una rappresaglia delle proporzioni che voleva lui” (p. 114).

Ricorda molto da vicino quel che le amministrazioni Bush e Blair si sono dilettate a fare, in questi ultimi anni: ma le analogie non finiscono qui: sentite cosa scrive Robin poco dopo, a proposito della ormai consueta tecnica di creazione d’un diabolico e infido nemico da far coincidere con una nazione sovrana, da bombardare a piacimento: “Nessuno sa con certezza se ci fosse la Libia dietro l’esplosione dell’aereo della TWA. Al momento pare più verosimile che sia stata opera del gruppo libanese di Abu Nidal (…) E nessuno, né in America né in Inghilterra, ha mai fornito una prova lampante del presunto collegamento tra la Libia e questo attacco (…) In ogni caso, cinque americani sono rimasti uccisi dalla bomba sull’aereo della TWA e un altro è morto il 5 aprile in un attacco contro una discoteca di Berlino Ovest. Per vendicare questi morti, Reagan ha montato un attacco che ha ucciso almeno cento persone (secondo le stime più prudenti), tra cui la figlia adottiva di Gheddafi. (…) Ma la verità, come pure ammettono molti diplomatici e uomini dei servizi americani, è che in questo momento Paesi come l’Iran e la Siria sono troppo grossi per poterli affrontare. E allora Reagan ha deciso di trasformare Gheddafi in un capro espiatorio perché è abbastanza piccolo da poterlo schiacciare (…). Ecco perché ora lancia questa campagna di odio contro di lui e se ne esce in discorsi come questo (…): ‘Sappiamo che questo cane pazzo del Medio Oriente ha per obiettivo la rivoluzione mondiale, la rivoluzione islamica fondamentalista…forse noi siamo il nemico perché, come il Monte Everest, esistiamo’. (…)” (pp. 116-117). Infine, Robin ricorda che queste aggressioni angloamericane avvenivano senza il consenso della maggioranza della cittadinanza; spiega che esisteva una “marea montante” di opinione pubblica avversa; conclude, riflettendo a proposito del ‘popolo libero’, dicendo: “Mi spiace ma io non mi sento più libero. Mi sento senza potere, spaventato e incazzato” (p. 117).

Questo romanzo è stato pubblicato nel 1989. Sfortunatamente, non ricordo d’aver ascoltato nessun intervento d’un giornalista o d’un intellettuale, nelle radio o nelle televisioni, che abbia rimarcato quanto eccessive siano queste analogie nella strategia di comunicazione delle grandi potenze atlantiche, a distanza d’anni e di amministrazioni differenti. Non ricordo d’aver letto su nessun quotidiano un’inchiesta, o una ricerca, volta a esaminare e analizzare la strategia mediatica angloamericana prima d’ogni bombardamento o d’ogni invasione, dagli anni Settanta ad oggi. Ricorrenze, ripetizioni e analogie sono di un’evidenza addirittura imbarazzante. L’ONU è la marionetta da manovrare a piacimento: il Grande Nemico muta soltanto nome, di volta in volta. Gli assassini, e gli assassinii nel nome del petrolio rimangono gli stessi.

Che dono, la Letteratura – in circostanze come questa, offre informazioni altrove curiosamente soffocate, o dimenticate. Onore al coraggio e all’onestà di Jonathan Coe. Con quindici anni di ritardo, il suo libro assume altro valore, soltanto per queste poche pagine.

La tragedia del suo protagonista – di questo giovane Robin – è anche in questa capacità di comprendere l’ipocrisia e la menzogna della politica del suo Stato, e di non saperla più nemmeno denunciare, se non in un’intervista che non ha mai avuto luogo altrimenti che nella sua immaginazione. La verità è chiara e trasparente e tuttavia l’intellettuale ha smarrito il coraggio, o la possibilità, o l’ascendente per poter denunciare queste infamie.

Il popolo sembra intuire d’essere oggetto d’un raggiro, e tuttavia non si ribella: quando manifesta, in certe circostanze, può finire arrestato (a Londra, in quegli anni, come negli USA dal principio del mandato di Bush padre). L’esempio di 200 arresti a fronte di 20mila manifestanti incide comunque: è un ricatto e un monito severo. Nulla cambia. Sappiamo poco, forse – quanto basta per comprendere che non ha più senso illudersi. Niente muta. Soltanto, dentro, s’incrina qualcosa – è la fiducia nell’umanità. Mi fermo qui, e passo a parlare del romanzo.

Coventry, seconda metà degli anni Ottanta. In questa città “devastata due volte, una dalle bombe di un esercito straniero, un’altra dall’urto di una recessione orchestrata dai politici, che in questi ultimi anni ha morso, ha morso di brutto, diffondendo inerzia e indifferenza, mangiandosi il lavoro e il benessere della gente” (p. 186), assistiamo alla drammatica parabola esistenziale di Robin Grant. Ventiseienne, laureato a Cambridge cinque anni prima, prepara ormai da quattro anni una tesi di dottorato che nessuno ha potuto vedere mai.

Vive in un appartamento buio, con le tende abbassate. Il letto è sempre sfatto, i vestiti disseminati per il pavimento; due librerie stracolme e quattro taccuini che ospitano i suoi racconti brevi completano la descrizione del suo nido. Scrive “a periodi”. Di amicizia, di scelte di vita, di sesso. Robin si sente stanco, in debito di sonno. Sente che deve stare solo. Non vuole legarsi mai più a una donna. È spaventato. Ha sempre fame, e sente tanto freddo.

Vuole andarsene, e ricominciare tutto daccapo. Tutto gli sembra sbagliato e futile. S’avvicina il momento di prendere una decisione. Di vivere in quel modo non ne può più. Non sente più senso nella sua esistenza: non ha più senso scrivere, se non esistono lettori. L’amore è perduto da quando Kate s’è sposata con Ted. Un amico che non è più amico. Osso di seppia degli anni dell’Università. E proprio a lui Robin domanda: “Ti sei mai chiesto che senso abbia, in assoluto, prendere delle decisioni, visto che il mondo è governato da maniaci e visto che ci troviamo tutti quanti in balia di interessi che sfuggono al nostro controllo, e non possiamo sapere in quale momento ci succederà qualcosa di tremendo tipo, che so io, una guerra?” (p. 23): non ha più serenità. La coscienza del fallimento inevitabile nella sua missione di intellettuale sradica ogni speranza. È finito: è svuotato. Ted è quello che lui non sarebbe diventato mai, invece. E non solo perché è il padre del figlio di Kate. È stato per due volte “venditore dell’anno” nella sua azienda: è metodico, ma culturalmente grezzo e grossolano. È un cittadino modello: non crea problemi. Lavora, produce guadagno, consuma, prolifera e infine va a fertilizzare la terra. Del resto, quale miglior fertilizzante per la terra?

Il libro è strutturato in quattro parti ed un poscritto. La prima è ambientata nell’aprile del 1986; la seconda, tre mesi dopo; la terza, ancora nell’aprile e nel luglio 1986; la quarta, in dicembre. Ogni parte ospita uno dei racconti di Robin, integrato nella narrazione per evocare, simbolizzare o rappresentare un suo stato d’animo, o una “verità” a proposito della sua condizione e della sua ultima decisione. Precipitato in un processo intentato dall’ex amico Ted – probabilmente innocente – per molestie al figlio, Robin si congederà dalla vita quando si sentirà rivelare, da un’amica che avrebbe potuto divenire sua compagna (se solo…se…sempre questo “se” – non serve, a chi serve?), quel che non avrebbe dovuto ascoltare mai a proposito dei suoi scritti, e del loro tema princeps. Testimonia infine coerenza con la sua produzione artistica: senza pubblico.

Un grande romanzo. Che annuncia i massimi risultati futuri: “La casa del sonno” e “La famiglia Winshaw”. Assolutamente da leggere.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Jonathan Coe (Birmingham, 1961), musicista, giornalista, critico letterario, biografo e scrittore britannico. Ha studiato nel Trinity College di Cambridge e si è laureato presso la Warwick University, dove ha insegnato Poesia Inglese. “Donna per caso” è stato il suo primo romanzo.

Jonathan Coe, “L’amore non guasta”, Feltrinelli, Milano 2000. Traduzione di Domenico Scarpa.

Prima edizione: “A Touch of Love”, Duckworth, 1989.

Gianfranco Franchi, dicembre 2004.

Prima pubblicazione: Lankelot.