L’album cremisi

L'album cremisi Book Cover L'album cremisi
Tommaso Ottonieri
Empiria
2000
9788885303928

Pallide luci dell’alba. L’alba di mezzi neon. Al monitor del circuito interno, dieci più dieci dita metalliche intrecciate a cinque per cinque in un valzer lungo quanto il tempo, due più due piccoli obiettivi incassati nelle orbite degli occhi ruotano e si fissano rapiti, muovendosi di piccoli scatti impercettibili, due lingue biforcute roteanti che cominciano a annodarsi, le parole si strozzano di desiderio, gorgogliano come, come, co me na stri qua ndo sta cca te la co rre nte…” (Tommaso Ottonieri, “L’album crèmisi”, parte prima, “Il primo album commerciale”, pezzo VIII, “L’alba delle merci”).

Non è esperienza comune quella d’un letterato che ha la disperata onestà di immergersi nel nostro tempo, di aderire all’incandescente e presto assopito magma convulso del sistema massmediatico e all’appiattimento lobotomizzante della trionfante e boriosa nuova metafisica pubblicitaria; non è pacifico che il letterato si abbandoni, aderendo perfettamente, ai messaggi caotici e snervanti e alienanti, al bombardamento anestetizzante del consumismo. La prima eventualità è il cortocircuito della sua Weltanschauung, la seconda il cortocircuito dello stile e dell’espressione letteraria: che si farà allora abnorme, riverrun inarrestabile, lingua imperfetta neo-joyciana e ascolto (apparizione) imprevedibile dell’ultimo nastro di Krapp. Tommaso Ottonieri si muove tra le pagine delle sue prose quasi fosse l’incarnazione della leggenda di Matheson: ultimo esemplare di una specie che avanza silenziosa al di fuori delle rovine del tempo e della conoscenza, oltre un centro commerciale di George Romero. Nei volti e nelle idee che gracchiano da altoparlanti invisibili nel corso di questo “L’album crèmisi” si respira non più una morte, ma una mesmerizzazione dell’umanità, dedita alla consacrazione del prodotto commerciale e all’apoteosi del farneticante ed elementare messaggio pubblicitario. E dunque ruolo del letterato, ultimo parrebbe di una specie in via di estinzione, è quello di infiltrarsi nel codice espressivo del sistema, nel disperato tentativo di appropriarsene e di rivoluzionarlo, invertirlo, o forse esclusivamente nella velleità di adottarlo per trasformarlo in nuova linfa per una lingua letteraria mai come in passato tutta tesa ad una ricerca d’una nuova sua natura.

Se Guido Morselli, negli ultimi anni settanta, descriveva nella “Dissipatio Humani Generis” la parabola di un individuo che vaga tra l’immobile e cristallizzata e deserta, come in un quadro di De Chirico, città dolente, ormai costretto ad un solipsismo visionario e perfettamente letterario, oggi Tommaso Ottonieri, ne “L’album crèmisi”, va a raffigurare la realtà che a Morselli era stata proibita, o che probabilmente, presentendone l’ultimo epilogo, aveva rifiutato. Quell’umanità che si era resa invisibile agli occhi di chi ricerca arte e vita è qui radiografata, senza l’ombra neppure di un giudizio morale, e all’opposto con una – ripeto – adesione che ha il sapore delle ricerche estetiche di Tondelli, per rimanere nel nostro panorama letterario, e delle lotte di Roy Lichtenstein e soprattutto di Andy Warhol in ambito pittorico, altrove. Dunque assistiamo al trionfo del messaggio commerciale, alla decomposizione e alla rianimazione della lingua letteraria attraverso lo sfavillante buio della pubblicità e nel lento cammino zombesco dell’umanità attraverso sempre uguali corridoi di un centro commerciale. Esistenza ridotta ad una tronfia e insipida superficialità: il codice apparentemente univoco e “chiuso” di uno spot o di una propaganda viene eletto a campo di studio e di osservazione. E qui avviene il miracolo. La miseria della pochezza intellettuale e spirituale e artistica del nostro tempo trova una nuova nascita nella trasposizione e nella trasfigurazione delle sue ridondanze e dei suoi eccessi. Poco a poco, si staglia nelle prose di Ottonieri, nell’urlante rogo di mutezze, la scintilla dell’arte e dell’ispirazione. Attraverso una pericolosa e potenzialmente esiziale accettazione delle regole e del linguaggio del sistema, le visioni del ricercatore, qui osservatore e al contempo ricercatore, consentono che il paradosso della prosaicità dilaghi in un profluvio di poesia. E non è forse un caso, dunque, che versi di Blake incornicino l’opera: il talento visionario permette la percezione di uno spiraglio di luce nella realtà più tetra, e il respiro della lucidità travolge i parossismi del sistema.

Poesia dunque che accetta la discesa nell’Ade della realtà: canto orfico, in un certo senso, di chi accetta di mettere a repentaglio la propria mente cedendo ai richiami e ai messaggi della sua società, che pare rifiutare arte e conoscenza e gozzovigliare nei resti della cena delle aristocrazie e dell’alta borghesia. Come in un romanzo di Bradbury, si ha dunque la sensazione di assistere ad un rifugio della conoscenza e dell’arte in un riservato cenacolo di ricercatori e conservatori della memoria e della tradizione: l’umanità ha rifiutato il messaggio catartico e consolatorio della parola, e come nei testi di Houellebecq si celebrano le dissacranti sevizie della carnalità e della fisicità.

Ottonieri, nell’introduzione alle due sezioni della raccolta di prose, svela di aver lavorato per oltre due lustri a queste pagine: trattenuto a volte da un “terrore che mai avrebbe potuto sconfiggere”; ha voluto “trapassare l’etere”, “non essendone più nulla che orchestrato”.  E si ha la sensazione che, in alcuni tratti, quel concerto di anticaglie aliene e quotidiane cui ha assistito abbia avuto ripercussioni nel suono stesso delle parole: misteriose alchimie di allitterazioni e anafore, registrazione ossessiva della ripetitività del nostro tempo, beckettiana cruda contemplazione della rovina del logos e del significato stesso della parola, al punto che Ottonieri giunge a scrivere che “Noi sentiamo di non poter essere nel vero, quanto più profondamente noi siamo conficcati nel vero. Noi, sentiamo che non è questa, non viaggia su questo canale, la verità che avevamo sognato. Noi, sentiamo che nessun sogno può sognarci più”.

Dunque una verità ha accecato i ricercatori: ritorna, ancora una volta, l’idea del porto sepolto di ungarettiana memoria, da cui si torna con quel nulla d’inesauribile segreto: il viaggio della conoscenza conosce naufragi, inattese derive e miracolosi approdi – e tuttavia, qualcosa di ineffabile, o di inintelligibile, sempre permane a crucciare lo spirito di chi combatte per tornare dalla ricerca con un messaggio universale. Elemento interessante, sempre mi richiamo all’introduzione, è che all’orrore si siano accompagnati ira e furore: un’ira e un furore che hanno il sapore di un’iconoclastia eroica, della rabbia del giusto che rifiuta l’abisso di dolore e abulia che ha coraggiosamente scelto di affrontare e contemplare, tornandone ammettendo che “qualcosa si è guastato nella mia testa: io non ho più cognizione del tempo, non ho più ordine nelle mie idee, non ho più lucidità nelle mie memorie”. Giunge, per chi ha rubato la luce agli uomini, una punizione prometeica: un sonno senza sogni. Liberare gli uomini ha confuso la coscienza di chi ha compromesso la propria esistenza nella filantropica ricerca di un senso nel tempo del non senso: e non è allora solamente evocativo il testo di Arrigo Boito che conclude l’opera. “L’album crèmisi” è il relitto fonico visivo, per dirla con Morselli, del nostro tempo. Le prose sono divise in due sezioni: “Il primo album commerciale” e “Il lato crèmisi”.

Una lettura sconvolgente, come sconvolgente e impossibile appariva la ricerca pittorica della pop art: un’opera d’arte, senza ombra di dubbio, che restituisce alla nostra lingua letteraria uno sperimentalismo non più velleitario ma finalmente consapevole del debito nei confronti di superbe ispirazioni della tradizione letteraria occidentale.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE.

Tommaso Ottonieri (1958), poeta, narratore e critico letterario italiano.

Tommaso Ottonieri, “L’album crèmisi”, Empiria, 2000.

Gianfranco Franchi, maggio 2002.

Prima pubblicazione: ciao.com. A ruota, lankelot.