La torre capovolta

La torre capovolta Book Cover La torre capovolta
Fulvio Tomizza
Mondadori
1971

“Ma Dante l'avrà vista?, mi chiesi, ricordando la leggenda che vuole che il poeta sia stato da noi, nel Quarnaro e quasi sicuramente al vecchio castello di Duino. Ecco doveva aveva potuto trarre ispirazione per i cerchi del suo inferno. Volli scendere alla bocca della torre: i gradini vecchi, sconnessi, conducevano tuttavia simmetricamente verso il fondo [...]” [Tomizza, “La torre capovolta”, p. 85].

1971. Trentaseienne, l'artista istriano Fulvio Tomizza pubblica un'atipica raccolta di racconti, frammenti e bozzetti, dedicata a sua figlia Franca: si chiama “La torre capovolta” e comprende 73 pezzi. È un'opera che fa fatica a dialogare con un pubblico che non sia quello degli aficionado: perché sembra assemblata con qualche artificio di troppo, perché ha il respiro dell'eserciziario, perché a volte sprigiona bellezza e memoria e altre volte nevrosi ombelicale. Nei momenti più affascinanti sembra composta della materia di diversi sogni, e sa giocare con allegorie potenti o almeno seducenti, come nel caso del racconto eponimo; nei momenti più bislacchi si fa contorta, ondivaga e irrisolta, come nei vaghi omaggi alla Grecia e alla classicità, e nell'incerta e arrancante lettura di Kosovo Polje. In più d'un frangente arriva dritta alle coscienze e ai ricordi di tanti giuliani, istriani e dalmati, più veneti che slavi o più slavi che veneti. E finisce per cartografare un territorio di grande bellezza e vero fascino, con la naturalezza di chi di quella terra è figlio – da secoli.

Qualche esempio. In “Isole Dalmate” appare l'isola di Arbe, “coi suoi camini spenti, le sue prigioni”; tanto è l'ossigeno del cielo azzurro e dell'acqua azzurra, “circostanti a perdita d'occhio, che bastava da sé a estinguere la sete degli antichi isolani”. E da Arbe, passando per Fiume, vagheggiando le isole del Quarnaro, Tomizza finisce a Pola, pensando a Brioni – e infine a Segna, città degli Uscocchi, tra Fiume e Zara. L'artista umaghese là omaggia due bei dalmati: san Gerolamo da Portole e il nostro grande Tommaseo, da Sebenico, una delle città di san Michele.

In “Oltre il confine” siamo dalle parti del canale di Leme, Rovigno. Diciamo a metà strada tra Pola e Parenzo. Tomizza, suo fratello e l'amico Gino Usco stanno passando il confine con un oggetto misterioso: un nuovo brevetto di sedia o di borsa in pelle “che non costava niente”, ma poteva rappresentare una grossa noia se finiva nelle mani della grottesca finanza jugoslava. Il brevetto è ben nascosto, ma Tomizza, ciononostante, vive male la dogana: “fui attanagliato dall'oscuro terrore del passaggio di confine, persistente anche quando si aveva la coscienza tranquilla, immaginarsi ora con quella insinuante derisione o minaccia all'economia nazionale [...]”. S'arriva quindi a Pola, dove per sbarcare al porto si rovina per uno stravagante passaggio segreto, diciamo così. Episodio etilico.

“L'erba àuca” è un frammento dedicato alla famiglia Zacchigna, antica amica della famiglia Tomizza, una volta tutti insieme un'“unica famiglia”, vicina di casa nel paese d'un tempo, Giurizzani di Materada, frazione di Umago. Sono morti Filumena e Gigi, il suo santolo, e intorno “i ciliegi sono isteriliti, le prugne secche sui rami; poca gente guardinga, ragazzi taciturni”. Tanta erba è stata bruciata, da quelle parti, da quando i figli di quella terra se ne sono dovuti andare. Quell'erba alta, fitta e resistente si chiamava “àuca”. Adesso non era più nulla.

In “Saturno” s'intravedono le “tante case abbandonate dell'Istria, lugubri e cadenti”, cicatrice del disgraziato esodo degli istroveneti, costretti alla fuga dalla sciagurata cessione della penisola istriana al regime socialista jugoslavo. Sembra un incubo – Tomizza è sul tetto d'una stalla e deve attraversare il mare, e lo specchio d'acque “si riapriva profondo e trasparente subito nella valle sottostante e nei suoi abissi di alberi trottavano cavalli normali per la grandezza ma di un'altra specie, cavalli marini dal mantello pomellato [...]”. Tomizza, prima d'andarsene, dovrà liberarsi d'un gatto morto, nascosto nella sua testa – passerà dal naso – e infine si sentirà “purificato”.

Ancora “Case abbandonate” nel racconto omonimo, più avanti: così descritte. “Un ininterrotto budello di stanze per le quali si procedeva in leggera salita anche da armadio ad armadio, ma proprio dentro come nelle gallerie carsiche del binario morto che portava a Sant'Elia, non una porta chiusa perché gli ex proprietari, in segno di odio prima di andarsene, avevano buttato la chiave. Ignoranti, commentavo, riferendomi al loro stesso mobilio, ai vecchi canterani che marcivano”.

In “Paese medievale” appare l'Istria interna – descritta per una camminata “memorabile, di venti e più chilometri, da crollare a terra svenuto”. Scrive Tomizza: “Fui a Pinguente o a Montona ch'era appena l'alba, solo tra quelle rovine di importante centro storico medievale. Era Pinguente o Montona? Portole, Piemonte d'Istria o Grisignana? […] Venne il prete e il luogo doveva essere Grisignana o Piemonte, abitato da soli italiani, perché il reverendo era costretto a parlare, commentare il vangelo del giorno, nella nostra lingua” [p. 93]. E Tomizza viene accolto da donne sole, vecchie, che lo salutano con gioia perché parla nella lingua di Dante. E domandano che giustizia hanno avuto, loro, come tanti altri istroveneti; e che sorte, gente nostra.

“Concerto serale” è ambientato a Rogaška Slatina, in Slovenia, località termale cara a povero nostro Franz Joseph. Tomizza medita sull'eternità e sulla religione nuova degli uomini, “precaria e disperata, e perciò grande”. Forse.

“Il fungo di vetro” è ambientato a Cranzetti, presso il vecchio borgo medievale di Sanvicenti. È la storia di come, mutando il panorama, s'altera la bellezza del territorio. Sulle prime, Tomizza indica a un amico un campo di spini arsi: “si chiamano cardi”, osserva, tutto compito. Ma più avanti, là dove un tempo era un grande ciliegio selvatico – e sotto il vecchio tronco, si giurava, era sepolta la testa del padron di casa: buona ragione per non mangiarne i frutti – adesso stava un'esecrabile e anonima villetta in cemento, tutta colorata. L'amico guarda Tomizza e gli domanda come si chiama “quella specie di fungo di vetro o stalattite novecentesca, prosperata all'incrocio di due muri in materiale moderno”. Tomizza è incerto tra alternative come “parassita” e “osmosi”. Chissà.

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Secondo Bruno Maier: “La torre capovolta si connette, strutturalmente e tonalmente, alle pensose e problematiche pagine diaristiche, sospese in un difficile equilibrio fra la realtà e il sogno, con cui si conclude L'albero dei sogni. Ciò dimostra, in primo luogo, che il Tomizza non è soltanto l'interprete (e il poeta, per intima, sofferta congenialità) del piccolo mondo istriano in mezzo al quale per tanti anni è vissuto e del quale ha seguito con accorata partecipazione le sorti, nel periodo della seconda guerra mondiale e del drammatico dopoguerra; ovvero che un siffatto mondo è ben lontano dal costituire, con il nucleo centrale, il limite di un'attività narrativa che sorprende per il rigore e la continuità con cui si svolge e lascia libero un ampio spazio ad altre dimensioni tematiche e ad altri registri di stile, almeno in apparenza diversi […]. La torre capovolta è uno di quei libri di confessione, di scavo d'anima, di conquista e dominio di se stessi che proprio per la maturità (di mezzi e di sussidi introspettivi, oltre che stilistici) che presuppongono, sono scritti di solito dopo una lunga esperienza di vita e d'arte o addirittura alla fine e a coronamento di un'intera attività letteraria. Che il Tomizza l'abbia composta a poco più di trentacinque anni è una cosa sorprendente e anzi, per più ragioni, eccezionale” [Alto Adige Cultura – Il Cristallo, 1973 XV 3].

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Fulvio Tomizza (Giurizzani di Materada, frazione di Umago, Istria, Italia; 1935 – Trieste, FV-Giulia, Italia, 1999), scrittore e giornalista istriano. Esordì, come narratore, pubblicando “Materada” nel 1960.

Fulvio Tomizza, “La torre capovolta”, Mondadori, Milano, 1977.

Prima edizione: Mondadori, 1971.

Approfondimento in rete: WIKI it

Gianfranco Franchi, aprile 2012.

Prima pubblicazione: Lankelot.

Atipica, seducente raccolta di racconti, frammenti e bozzetti…