La milleduesima notte

La milleduesima notte Book Cover La milleduesima notte
Joseph Roth
Adelphi
1991
9788845908354

La milleduesima notte” è uno dei romanzi più scabri e desolati nel panorama narrativo del primo Novecento. Ambientato nella Vienna ottocentesca, descrive l’intreccio delle esistenze di un campione di umanità complesso ed eterogeneo. Chi s’accostasse alle prime pagine dell’opera senza avere la minima informazione riguardo al testo e alla trama potrebbe ritenere di esser prossimo ad avventurarsi in un romanzo dal seducente clima fiabesco e dall’aroma delle perdute, sublimi raffinatezze delle notti orientali; leggendo il dialogo tra lo Scià di Persia e il capo degli eunuchi Patominos, presagirebbe l’avvento di una favolosa milleduesima notte, immersione nella cultura occidentale di uno Scià piagato da un male oscuro, dal desiderio di qualcosa di sconosciuto e di impronunciabile.

Il lettore che vive all’oscuro della conoscenza della produzione del monumento letterario mitteleuropeo potrebbe essere indotto, e giustamente, a salutare nella figura di Patominos quella del saggio che, per via dell’innaturale distacco dalle più istintive pulsioni umane, tutto può vedere con lucidità, assumendo il ruolo del traghettatore dello Scià verso una realizzazione edenica della propria felicità; e dunque s’attenderebbe un romanzo dai connotati erotici e dai contorni ninfali.

Quanto avviene spiazza il pregiudizio delle prime pagine; sin dalla navigazione che permette allo Scià di approdare nel porto absburgico, la narrazione denuncia, per via di una imprevista tempesta, che la dimensione alla quale ci avviciniamo sarà, al limite, costellata da provvisori momenti d’idillio e di gioia, ma inevitabilmente surclassata da quelle stesse tenebre che già annunciano il futuro sgretolamento dell’impero.

La vicenda dello Scià si intreccia con quella di un aristocratico, il barone Taittinger, capitano dell’esercito: avviene infatti che, dopo esser stato ricevuto con generosità e mirabile sfarzo, durante un ricevimento lo Scià si innamori della donna che il barone amava, ed aveva per anni amato, senza mai essere corrisposto. Talmente ossessiva era stata la passione per questa dama che il Barone aveva individuato, diversi anni prima, una sua sosia: una donna del popolo, figlia di un commerciante. Sedotta e abbandonata, una volta scoperto che attendeva un bambino; il barone se ne era liberato, così credeva, regalandole una piccola attività di merceria. Dopo tre anni, era stata convinta ad entrare in una lussuosa casa del piacere da una ruffiana; e fu lì che il barone la ritrovò, poco prima che avvenissero i fatti raccontati nel romanzo.

Così, non appena gli fu rivelata dai cortigiani dello Scià, non senza pietosi imbarazzi, la sconveniente bramosia dello scià per la nobildonna, capriccio che pretendeva fosse assecondato, immediatamente il barone aveva ritenuto di condurre al suo cospetto l’ex sua concubina, evitando così che la sua idea perfetta d’amore fosse intaccata dalla sacrilega unione con lo Scià.

Il barone, allora, in un certo senso consegna l’amore reale, e forse proprio per questo mai accettato, al nobile persiano, difendendo in una condizione di perfetta purezza l’amore ideale, mai consumato: sebbene la donna che lo Scià domanda non gli appartenga, e mai gli sia appartenuta, tale è l’aura che l’avvolge che non potrebbe permettere per nessuna ragione al mondo che venisse sporcata da un adulterio.

In questi tratti risiede il principio del disordinato intreccio nominato in apertura di pagina: ben presto, dopo aver premiato l’amante con un filo di perle, – filo di perle che rimarrà unica, per così dire, entità inalterata sino al termine della storia – lo Scià scompare di scena per far ritorno in patria, ed assistiamo inermi alla altalenante vicenda delle esistenze del barone e della sua concubina, separati e tuttavia uniti inscindibilmente dal figlio mai riconosciuto, sullo sfondo di una Vienna elegante e corrosa dal veleno della decadenza, prossima ad una sublime fatiscenza, una Vienna dalle influenze tenebrose e rapitrici dell’anima dei suoi figli.

Le fortune alterne, si diceva, del barone e della madre dello spurio suo rampollo trascineranno il lettore in un gorgo di cruda, disinibita e irrecuperabile dissoluzione: l’equilibrio dei personaggi vacillerà sino a precipitare, perduti fatalmente pagando paradossalmente tutte le colpe possibili per ogni fortuna, rovesciati da un destino spietato, spietato e diretto, con ogni possibile energia, ad una morte che non rappresenta in nessuna maniera e in un nessun aspetto una porta d’accesso ad una dimensione nuova di quiete ed armonia, ma una agghiacciante ricompensa, la liberazione dal peso della vita, l’estinzione definitiva ed indiscutibile della memoria e dell’anima di un individuo.

Non è certo un caso che questo romanzo appartenga agli ultimi anni dell’esistenza del Roth: si respira la lenta e claustrofobica avanzata nelle tenebre del suo spirito, si percepiscono e si intuiscono la sregolatezza e l’estremismo disperato delle sue ultime scelte esistenziali, tese ad adombrare qualsiasi luce e a spegnere qualsiasi velleità di sopravvivenza: la morte, richiamata a gran voce, si appresta a strappare e spazzare via ogni traccia della vita.

Non sorprende, considerato il contesto storico-sociale, l’identificazione granitica del barone nell’appartenenza all’esercito: unico e ultimo legame con una realtà che altrimenti rifiuta, evitando di relazionarsi, di comprenderla, osservando quelli che definisce figli del popolo con un atteggiamento a metà strada tra l’incuriosito e il divertito, neanche abitassero un parco zoologico, e classificando in tre misere classi qualsiasi creatura vivente.

La stragrande maggioranza dell’umanità scatena nel barone una irresistibile noia. E questa noia ha il retrogusto dello spleen della poesia decadente francese, della sehnsucht, per rimanere fedeli all’ambito mitteleuropeo: una forma d’intollerabile malessere esistenziale, traducibile grossomodo con la parola nostalgia, priva tuttavia della connotazione di deserto spirituale e di irrimediabilità che si sente echeggiare nella parola sehnsucht.

Una tristezza indicibile si impadronisce di Taittinger, nel corso del romanzo: e per un personaggio che appare così smaccatamente vincolato, quasi fosse una marionetta, ad una realtà di superficie, dove niente è simile alla realtà del popolo, e si vive secondo leggi invisibili e abitudini arcaiche al di sopra di qualsiasi umanità, andare incontro ad uno scandalo e vedersi privare del proprio ruolo nell’esercito significa polverizzare i legami con la lucidità: mantenere un’identità orfana del ruolo da sempre rivestito, principio di pazzia.

Quanto agli aspetti simbolici del romanzo, infine, tre mi sembrano particolarmente meritori di attenzione, oltre a quelli appena evidenziati. Con ordine: il figlio nato dalla relazione tra il barone e la giovane sua amante è destinato ad una sorte avversa e infelice: artefice d’un delitto d’onore, non subirà mai il processo, e il lettore lo abbandonerà, mestamente, in prigione, in un’attesa, che così si tramuta in limbo dantesco, d’un giudizio che mai verrà: perché non è giudicabile chi è costretto a nascere e a vivere una vita che non aveva domandato, e in fin dei conti la sorte del padre e della madre è sufficiente, agli occhi di Roth, per evitare di comunicare al pubblico la condanna del figlio. Che pure appare certa: ma mai viene neppure nominata.

Mi sembra poi straordinariamente chiaro che la scelta di ripiegare su una donna, in tutto simile all’amata irraggiungibile, manifesti una deviazione tutta letteraria e, direi, ben poco affine allo spirito di un personaggio come il barone: l’ideale deve rimanere intangibile, intatto, nulla può sfiorarlo. Ali di sabbia, pronte a dissolversi e a disperdersi nel nulla non appena entrino in contatto con la realtà. Il barone individua una sosia: consapevolmente così non ripudia l’ideale, ma incarna per qualche tempo un simulacro del sogno in lei. Ed ecco l’esito della realtà, quello normalmente impedito all’idea: la povertà, quindi la cortigianeria, quindi la prostituzione, infine l’alternanza patetica tra una ricchezza inattesa e la prigione, e una libertà inutile e scevra di qualsiasi impulso vitale e qualsiasi coscienza. Dall’autonomia alla condizione di automa, di burattino manovrato da un aristocratico imbelle e autodistruttivo: la realtà va ledendosi sino all’annientamento. L’ideale, algido adesso e muto, domina in una terra desolata e priva di creature viventi.

Sinistro, infine, il parallelismo che diviene dichiarazione d’affratellamento tra l’impero absburgico e quello persiano: alle spalle, lo sconfitto sgomento d’un’invasione musulmana di Vienna, nel passato ormai quasi epico e sempre più remoto; nel presente, la noia e la fragilità di forme di potere prossime alla sconfitta e alla resa, realizzate solo nell’assecondare qualsiasi torbido e depravato desiderio, in uno sfarzo irreale e baroccheggiante, nel sentore della decadenza e della consunzione della realtà.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Joseph Roth, giornalista e scrittore mitteleuropeo, nacque nel 1894 da famiglia di origine ebraica. Frequentò la facoltà di filosofia di Vienna. Morì a Parigi nel 1939.

Joseph Roth, “La milleduesima notte”, Adelphi, Milano, 1977. Traduzione di Ugo Gimmelli. Biblioteca Adelphi, 69.

Titolo originale: “Die Geschichte der 1002. Nacht”

Fondamentale approfondimento: Claudio Magris, “Lontano da dove – Joseph Roth e la tradizione ebraico-orientale”, Einaudi, Torino 1971.

Gianfranco Franchi, maggio 2002.

Prima pubblicazione: ciao.com. A ruota, Lankelot.