La battuta perfetta

La battuta perfetta Book Cover La battuta perfetta
Carlo D'Amicis
Minimum Fax
2010
9788875212537

Carlo D'Amicis, narratore romano classe 1964, ha scritto un romanzo politico e satirico coraggioso, generoso e frontale: “La battuta perfetta” (Minimum Fax, 363 pp., € 15) è la trasfigurazione letteraria della decadenza culturale d'una nazione che sembra aver deciso, da quasi vent'anni a questa parte, di abbracciare la visione del mondo d'un uomo che ha fondato la sua fortuna su un approccio tutt'altro che politico: piacere, piacere a tutti, piacersi, amare, essere amato. Vendere, vendersi, come niente fosse.

L'angoscia prima degli intellettuali e dei letterati è, dal primo vagito di Forza Italia in avanti, determinare quanto fondante e fondamentale sia stata l'influenza della sub-cultura catodica nella (de)formazione etica e qualunquistica della maggioranza relativa dei cittadini: la risposta tutta letteraria di D'Amicis è ambientare la tragicommedia italiota nello psicodramma d'una famiglia piccolo borghese materana, coprotagonista e corresponsabile, in due generazioni, delle fortune della Rai prima e della Fininvest-Mediaset poi. Due generazioni che più diverse non si può: coscienziosa, umile e dignitosa la prima, quasi religiosamente consacrata al lavoro e al sogno dell'edificazione d'un'Italia migliore; superficiale, amorale e qualunquista la seconda, irragionevolmente lassista e abbandonista, convertita al profitto, al divertimento e alla spoliticizzazione di tutto. “Crollata la Prima Repubblica” – scrive il narratore – “furono milioni i qualunquisti che, anziché disperdersi – appunto – in partiti qualunque, si schierarono compatti per Forza Italia. Era questo, il vero miracolo italiano. Conseguentemente, Silvio era il messia”.

Quel messia era lo stesso che in quattro anni aveva trascinato il fatturato di Publitalia da 12 miliardi a 900, in coincidenza con l'acquisto di Italia 1 e Rete 4, disintegrando i network televisivi di Rusconi e Mondadori. Era lo stesso che aveva restituito il Milan a un ruolo da protagonista nel calcio internazionale. Era lo stesso che aveva fiancheggiato Craxi nel corso della sua lunga e tendenzialmente fortunata carriera politica. È lo stesso che – racconta il narratore del romanzo – ha saputo essere prima “bella fica” fidanzata di tutti, e poi maschio, virile, determinato. Sempre convinto d'una cosa: “voglio piacere”. E a questo punta nonostante le furibonde cadute di stile, come quella della disoccupata che dovrebbe sposare un miliardario, o quella del kapò all'europarlamento, o quella di Obama bello abbronzato, o quella del “no no” fatto col ditino mentre canta “Siam pronti alla morte”, giusto per limitarsi a qualche esempio. L'arte del messia è ricordare che “non c'è più il senso del ridicolo”. La battuta perfetta forse deve ancora pronunciarla, ma è sulla buona strada.

Qualche cenno sulla trama. Matera. Sbarca la tv, proprio nei giorni in cui la cittadina diventa Gerusalemme. Pasolini sta girando il suo Vangelo. E adesso si dispera: i cittadini perdono la purezza, adorano un feticcio. Un prete benedice la televisione. Tutto intorno si brinda a Mike Bongiorno. Il padre del narratore, Filippo Spinato, classe 1934, è il primo proprietario d'un televisore. Piccolo intellettuale (maestro elementare) e lettore forte, convinto che solo la conoscenza renda liberi, uomo semplice e onesto ed estraneo all'esibizionismo, osserva con sospetto la nuova invenzione: s'accorge che è pericolosa, ma che potrebbe avere formidabili potenzialità educative. Intuisce che la televisione ci farà popolo più del Risorgimento. Ha già capito che potrebbe farci diventare stupidi, da ignoranti che eravamo. Qualche tempo dopo si ritrova a lavorare in RAI. Braccio destro del maestro Manzi. Democristiano, si ritrova nei guai per le sue amicizie coi comunisti – a partire dall'imprenditore Marchini.

Il narratore, Canio Spinato, quasi quarant'anni, figlio, è un elettore di Forza Italia e un ossesso dal tubo catodico. Già a otto anni scriveva lettere a Maria Giovanna Elmi e a tutte le soubrette che vedeva in tv. Crescendo pensava che voleva piacere sempre, a tutti, e che chiunque appariva sullo schermo in abito da sera avesse fascino. Suo padre, piuttosto, gli insegnava semplicemente a non dispiacere a nessuno. Cioè a non fare del male. Infine, adulto, Canio s'accorge con gioia d'essere parte d'una società fondata sullo spettacolo. Pensando al padre, scrive: “Che ti piaccia o no, ora tutto è spettacolo. L'esultanza dei giocatori di calcio. La politica. Eluana Englaro. Il passaggio delle bare all'uscita della chiesa”. Il padre era uno che tutto voleva fuorché fare spettacolo. Questione di stile.

Canio crede che chi ha il coraggio di ridere sia padrone del mondo. Ex impiegato Mediaset, ha un simpatico avviso di garanzia sul groppone: favoreggiamento della prostituzione. Esteticamente è brutto come suo padre: e suo figlio sarà brutto come lui. Canio saprà inventarsi lo Scrondo, tanto per capirci. È grande amico di Berlusconi, suo testimone di nozze. Sa metterlo in contatto con le donne giuste. Sa scrivergli buone barzellette, per sedurre le piazze di nonne e zie. È il suo love trainer: l'uomo che sa parlargli d'amore e procurargli l'amore tutte le volte che ce n'è bisogno. Ed è così sedotto dal suo presidente che battezza suo figlio – rubato ai rom, a quanto pare, con perfetta inversione delle leggende urbane – col suo nome. Incontriamo Silvio II nel pieno della sua adolescenza sconclusionata e ribelle, diciassette anni, diciassette tatuaggi, parecchi piercing, una vaga e inconsapevole fascinazione per Evola. Silvio II non cresce come voleva suo padre. È un ragazzino alla deriva. Estraneo al faustiano e dionisiaco piacere di piacere del mentore del padre, è un italiano ben diverso dal nonno e dal padre: a livello etico, estetico, antropologico. È forse più vicino al paradigma mendace e plastificato imposto, niente affatto proposto, dal sottoproletariato culturale allevato dal tubo catodico post legge Mammì: si ribella senza sapere nemmeno perché. Soltanto, a che cosa.

“La battuta perfetta” è narrativa capace di emozionare, divertire, irritare: è il più coraggioso atto d'accusa non di Berlusconi, ma del berlusconismo – e quindi, a ben guardare, di tutta quella parte del popolo e della nazione che ha avallato e plasmato le sue fortune. D'Amicis veniva da romanzi niente affatto politici, profondamente elegiaci e intimisti come “Escluso il cane” (2006, già pubblicato in Francia da Gallimard) o d'amarcord generazionale e adolescenziale (“La guerra dei cafoni”, 2008): in questo senso, La battuta perfetta è una svolta inattesa. Nel romanzo rimangono vive tutte le caratteristiche principe della narrativa dell'artista romano: la sua grande capacità di sprofondare nella psiche dei suoi personaggi, la sua sensibilità nei confronti del dialetto e del parlato, la sua ironia, caustica ma mai farsesca, mai cattiva, mai ipocrita.

D'Amicis decide, come scoprirete nelle ultime pagine, di concludere il romanzo senza più riferirsi alla realtà, virando su un esito plausibile della storia italiana del premier di Arcore. Direi che la magnifica umanità di Carlo sa tingere anche il nero – come di rado accade – di una patina di gentilezza imprevedibile, perfetta. Ha ragione Lodoli quando scrive, su "Repubblica", che questo è il romanzo della nostra trasformazione: l'imperdibile opera che spiega perché l'Italia ha finito per scoprirsi, tutto a un tratto, non insensibile alla cocaina, facile al cinismo e alla volgarità, istintivamente narcisista, quotidianamente ossessionata dal denaro e dal sesso. È proprio come rileva Lodoli, c'è poco da girarci attorno: è come se in una manciata d'anni avessimo tutti normalizzato ciò che prima ci scandalizzava o ci offendeva. Allucinante. Sulla "Stampa", Paolo Ruffini invece bofonchia, perplesso, che “la qualità della televisione sta nella sua libertà”: la nostra di liberi cittadini sta allora nel tenerla spenta, quando è tanto libera che uno nemmeno si ricorda com'era quando non era libera.

Onore a Carlo D'Amicis, uno dei più grandi narratori italiani viventi. Sicuramente il più gentile e il più franco di tutti. Un kamikaze col sorriso da bambino. Un letterato esemplare: etico, democratico, libertario.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Carlo D’Amicis (1964), giornalista e scrittore italiano. Ha esordito pubblicando “Piccolo Venerdì” (Transeuropa, 1996).

Carlo D'Amicis, “La battuta perfetta”, Minimum Fax, Roma 2010.

Gianfranco Franchi, maggio 2010.

Prima pubblicazione cartacea dell'articolo, con qualche minima variazione: Il Secolo d'Italia, 21 maggio 2010, pagine 8, 9. A ruota, Lankelot.

Uno dei più riusciti romanzi antiforzisti degli anni Zero.