Kult

Kult Book Cover Kult
Ljubko Dereš
Fazi
2007
9788876250323

Leopoli/Lemberg, l'antica capitale della Galizia absburgica, è una delle città ucraine reduci dalla grande e odiosa sofferenza del regime socialista sovietico: l’Ucraina ha una storia dolorosa, fatta di sanguinosi conflitti tra i polacchi e i russi, ostinati tiranni d’un popolo che ha faticosamente appena conquistato l’indipendenza. Faticosamente e orgogliosamente, forse non dignitosamente: non si riesce, sembra, a trovare adeguato equilibrio interno. Le fazioni in causa, allo sguardo di un europeo mediterraneo, sono una filo-occidentale (nessuno dimentica gli “arancioni), l’altra filo-russa. Probabilmente la questione non è così semplice: non è solo opposizione tra liberali e socialisti nostalgici. L’impressione è che il dramma ucraino sia quello classico delle terre di frontiera, composte da diverse etnie: quella delle terre massacrate dal periodico cambio di bandiera. Il problema è la definizione e la consapevolezza della propria identità. Cosa poteva figliare questa Leopoli, città d’arte dai tanti (troppi?) nomi e dalla storia tortuosa e complessa?

Io dico che l’opera prima di Ljubko Deresh è una splendida allegoria dello stato d’animo dei giovani intellettuali ucraini. La realtà si dissolve e muta contorni con una certa facilità, ché basta averne la predisposizione; si ricerca la psichedelia, ossia la distorsione delle percezioni, per poter avere una visione adeguata della difformità e dei contrasti della patria; si annienta l’uniformità dell’io, la prevedibilità della trama, sforando nel fantastico-orrorifico: quando à la Lovecraft, quando à la Bulgakov: alla ricerca d’un’essenza che forse non c’è, e che se solo fosse svelata costituirebbe una direzione da intraprendere con determinazione e dedizione.

Mi attendevo questo, da un giovane ucraino della mia generazione, negli anni Duemila: la negazione del decrepito, marcio e fatiscente realismo ideologico sovietico; la fantasia lasciata libera di galoppare, a briglie sciolte; l’emersione dell’incubo inconscio d’un nuovo rovesciamento della realtà; la ricerca d’una definizione di ciò che è reale, la battaglia per decifrare le tante voci che pretendono d’essere patria. E che vorrebbero imporre confini e leggi, lingua e cultura. Confido che i giovani intellettuali ucraini, future guide della Nazione, ritrovino quella radice mitteleuropea che li accomuna a parte delle popolazioni oggi genericamente considerate italiane; parlo dell’esemplare lezione di tolleranza, convivenza e amministrazione absburgica. L’Europa potrebbe – dovrebbe, una volta sganciatasi dalla sinora poco alleata Inghilterra – tornare in quella direzione: il cuore della nuova Europa è mitteleuropeo, quel che è andato distrutto dopo l’abiura della dottrina Monroe potrà tornare a vivere. Ogni etnia potrà e dovrà tornare a rivendicare autonomia e indipendenza, domandando di confederarsi soltanto a determinate condizioni; il nuovo concerto europeo deve restituire lo Stato ai cittadini, in una struttura estranea al centralismo. Allora sarà possibile tornare a descrivere quel che è reale e quel che è vero: quando forgeremo un’identità almeno vicina alla nostra essenza, e alla nostra fame di libertà, giustizia, democrazia autentica e non nominale.

Tengo a dire – prima di parlare più direttamente dell’opera – che queste mie considerazioni derivano dall’analisi di un romanzo atipico e promettente, del tutto estraneo a quello che qualcuno vorrebbe fosse il vuoto post caduta di uno degli Imperi del Male, il socialismo sovietico: “Kult” è un libro complesso, stratificato, pieno di vita e di intelligenza, caratterizzato da una pioggia di citazioni e di omaggi non sempre correttamente decifrabili; ma in ogni caso mai rivolti a est, sempre e coraggiosamente e orgogliosamente ucraini, mitteleuropei e occidentali. Il protagonista del romanzo è un giovanissimo professore che corregge chi pronuncia le parole alla russa, per capirci. Ne ha piena ragione. È ora di tornare all’essenza, e di rinunciare alla servitù. È l’ora dell’orgoglio e del coraggio. Sarà un caso, ma la prima nazione ad aver ripubblicato e tradotto questo libro è stata la Germania; l’Italia viene subito dopo, grazie alle edizioni Fazi.

A questo proposito: “Kult” dovrebbe essere l’opera prima di Ljubko Dereŝ, narratore ucraino classe 1984, pubblicato quando era poco più che sedicenne, nel 2001, composto – stando all’edizione esaminata – in una manciata di mesi, tra agosto 2000 e gennaio 2001. Scrivo “dovrebbe”, perché – pure con prevedibili difficoltà – ho dragato il web in cerca di notizie biobibliografiche chiare, puntuali e attendibili. L’impresa, è bene chiarirlo subito, non è riuscita.

Ad esempio: Wikipedia tedesco ci informa che il suo libro d’esordio è: “Die Anbetung der Eidechse. Oder: Wie man Engel vernichtet”. Il formidabile letterato poliglotta Simone Buttazzi traduce per noi il contenuto della scheda (nei primi giorni di Ottobre del 2007): “Deresch è autore di quattro romanzi e di numerosi racconti. Il suo secondo romanzo, ‘Kult’, è uscito nell'ottobre del 2005 per i tipi dell'editore tedesco Suhrkamp. Il suo romanzo d'esordio ‘L'adorazione della lucertola, o come si annientano gli angeli’ [traduzione letterale] è uscito nel novembre del 2006 sempre presso Suhrkamp. I romanzi di Deresch prendono a modello la letteratura fantastica e orrorifica di Lovecraft, Poe e King. Contengono svariate allusioni a questi autori, così come alle opere di scrittori ucraini classici e contemporanei. Nell'estate del 2006 Deresch si è laureato in Economia presso l'Università di Lemberg. Al momento, campa di scrittura”. [è uno "scrittore libero professionista"]

Wikipedia tedesco può sbagliare? Naturalmente, immagino di sì. Senza dubbio la pagina potrebbe non essere aggiornata: secondo BusinessWeek, infatti, il giovane ucraino ha già pubblicato cinque romanzi. Purtroppo non sono in grado di verificare nessuna delle notizie: non parlo l’ucraino e capisco solo poche parole del tedesco. Domanderò chiarimenti alla redazione di Fazi: sia a proposito della sequenza delle pubblicazioni di Deresh, sia a proposito dell’eventualità di future traduzioni. A questo punto, prendo a cuore l’opera omnia di Ljubko Deresh. Sperando in una prossima, limpida evoluzione politica.

Bene. A chi consigliamo di leggere le vicende di Jurko Banzaj, il protagonista di quest’opera? In prima battuta a chi è interessato ad accostarsi alla cultura ucraina; in seconda battuta a chi ama Lovecraft: ai suoi cultori posso assicurare che rimarranno ampiamente soddisfatti della rilettura e dell’interiorizzazione della lezione del maestro. Quindi, a chi vuole avanzare per il sentiero tracciato da Castaneda; qui il Don Juan è chiamato in causa sin dalle prime battute, sebbene come “allievo” (immagino sia errore di traduzione: rinvio a p. 14), e la rotta è quella del sogno lucido (dubito che Deresh possa leggere o aver letto Van Eeden: altrimenti avrebbe nominato il padre di quella ricerca, in Europa almeno).

Ancora: consiglio la lettura agli amanti del prog rock, della psichedelia, del rock; tra i nomi o le allusioni che vi suoneranno famigliari, stabilendo le premesse per certe atmosfere, ecco King Crimson, Jethro Tull, Van Der Graaf Generator, quindi Creedence Clearwater Revival (p. 94), Jimi Hendrix, The Doors. Infine… e con qualche cautela: a chi ha amato “Il Maestro e Margherita” di Bulgakov, per via della nuova rappresentazione d’un volo, e d’una sovrapposizione di realtà (dimensioni). Le cautele sono dovute alla natura lisergica di questi voli; dichiarata in ouverture (il protagonista ha già conosciuto tre rianimazioni per via dell’ingestione di funghi inadatti), efficacemente rappresentata nella narrazione. Una narrazione d’un tratto febbrile, caotica, al confine con la decifrabilità: apparentemente estranea alla coerenza, annebbiata dall’utopia. Perché quella è la meta. Da sempre: il non luogo, incarnazione del sogno di chi cerca – come lo Jurko di Deresh – di accedere alla Biblioteca di Babele, lingua delle lingue, conoscenza universale, principio della liberazione nuova.

Opera strutturata in tre parti (“Amalgama”, “L’eclisse della coscienza”, “L’ora della magia”), suddivise a loro volta in capitoli e paragrafi, principia nei giorni dello stage da insegnante in un Liceo d’un giovane, brillante studente di Biologia, prossimo alla laurea. Si ritrova in una località sperduta, tra cittadini che fanno incetta di candele in previsione del prossimo black-out. Porta tutto sulle spalle, come insegna Don Juan in Castaneda. Ha vicini odiosetti, bizzarri e poco comunicativi; psicologi, chimici. Con i colleghi il rapporto non sembra formarsi neppure. Si presenta agli allievi, cercando di decifrare appartenenze e convinzioni sin dalle prime battute. Tra loro, si segnalano i promettenti neopagani Run-Vira. Intanto, fuma, beve, dorme, prepara le lezioni e pensa a lei. Lei è inevitabilmente una sua allieva, Darcja Borges, lettrice di King e di Vonnegut: una maloljetka, “come dicono a Kiev”, ossia una minorenne (pp. 57-58). Predisposta alla percezione di altre realtà: bellissima e seducente. L’esito non è del tutto prevedibile, come apprezzerete.

Ultime annotazioni. Diamo un’occhiata a una libreria d’un giovane intellettuale ucraino. C’è qualche nome degno di annotazione: “(…). Guardò le cassette e i dischi, si avvicinò alla libreria: Kafka, Izdryk, Borroughs (William, e non Edgar Rice) e Kerouac, McKenna e Skovorodà. Grof, Wasson, Perfeckyj, Bach, Marquez, Vonnegut e Andruchovych, e Beckett, Pokal’ĉuk e tanti altri” (p. 96: carte false per la rivelazione di “tanti altri”).

Scopriamo le divisioni di casta tra gli studenti della cittadina di Midni Buki. Almeno: quelle principali. Ecco i chuvaki (sinonimo di “informali”) e i patsany (sinonimo di “formali”), come sunniti e sciiti nell’Islam, secondo l’autore.

“Formali (sinonimi: hop, hopniki, chiamano se stessi: patsany): portano di solito i capelli corti a spazzola, jeans con la cintura a doppio ardiglione (molto caratteristici), scarpe sportive e camicie a quadri infilate nei pantaloni. Attenzione: i formali indigeni, autoctoni di Midni Buki, hanno un aspetto leggermente diverso, spiegabile per via del sanguemisto. La data area è popolata da generi ibridi: hopnik-campagnolo, hop di Carpazi, l’hopnikobyk. (…). Gli hop di sangue impuro si riconoscono dal maglione infilato sciattamente nei pantaloni della tuta (…). Gli hopniki preferiscono tinte nere con miseri (…) accenni di bianco (…). I paesani più importanti possiedono telefonini propri, che di solito portano bene in vista (…) i telefonini cellulari qui non funzionano” (pp. 64-65). Aggressivi e ostili nei confronti dei “pacifisti”, “liberali”, “capelloni” informali chuvaki.

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Benvenuti nella nuova Ucraina libera: cominciamo a farci i conti, scopriamo nuova cultura e nuovo popolo, fraternizziamo, magari. E magari a partire dalla Letteratura, come sempre. Non dovranno americanizzarli, non dovranno russificarli: gli ucraini dovranno essere finalmente liberi, e liberi di aderire al sogno d’una nuova realtà; confederazione di liberi popoli in un libero Stato, Nazione tra le Nazioni Europee. L’inconscio è popolato da mostri lovecraftiani, la meta è la biblioteca borgesiana: l’intelligenza potrà dominare, e vincere i regimi. L’incubo sovietico è finito, Ljubko. Il nemico è scappato, è vinto, ma ancora non è battuto.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Ljubko Deresh (Leopoli/Lemberg, oggi Ucraina, già capitale della Galizia, 1984), scrittore ucraino. Studente di Economia presso l’Università di Leopoli.

Ljubko Dereŝ, “Kult”, Fazi Lain, Roma 2007. Traduzione della redazione di Fazi. Superbo progetto grafico di copertina di Maurizio Ceccato.

Prima edizione: “Kult”, 2001

Gianfranco Franchi, settembre 2007.

Prima pubblicazione: Lankelot.