Italiani, brava gente?

Italiani, brava gente? Book Cover Italiani, brava gente?
Angelo Del Boca
Neri Pozza
2009
9788854503199

Una nazione democratica, e un popolo libero e indipendente, non possono non conoscere la loro storia e non possono non pretendere di poter attingere a ogni notizia relativa al comportamento dei propri compatrioti in passato, in epoca di guerra e in epoca di pace. Questo libro di Del Boca ci aiuta molto, in questo senso, aprendo ferite antiche e recenti, esaminandole e nominandole. È un'operazione dolorosa ma necessaria; fertile di approfondimenti e di ricchi esami di coscienza. I nomi di Arbe, Gonars, Pontelandolfo e Casalduni, Debrà Libanòs e Lubiana, possono e devono, al termine dello studio del volume, significare altro. Devono significare coscienza e consapevolezza: devono significare studio e spirito critico. Perché se vogliamo domandare giustizia per quanto accaduto a danno dei cittadini giuliani, fiumani e zaratini, o per quanto accaduto nel corso della guerra civile in Italia (1943-1945), per prima cosa dobbiamo ammettere e riconoscere, con dolore e con maturità, le nostre colpe e le nostre responsabilità. Spero, da cittadino italiano, di aver accolto col giusto equilibrio e la solita onestà il messaggio di uno storico che appartiene, mi sembra di capire, a una parte politica che non apprezzo e non approvo. Ma proprio per questo, e forse a maggior ragione, ho attinto a questa fonte con passione e rabbia, disperazione e depressione, man mano che leggevo. Adesso so di essere più lucido e documentato su troppe questioni fondamentali per la mia formazione di cittadino e di letterato. Quindi, ringrazio.

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Lo storico Angelo Del Boca (1925), ex partigiano, narratore e saggista esperto di colonialismo italiano, pubblica “Italiani, brava gente?” esaminando la storia d'Italia dalla guerra al brigantaggio alla Seconda Guerra Mondiale; scopo del gioco è demolire il falso mito della bontà degli italiani, nato all'epoca delle prime guerre coloniali (1885), mostrando piuttosto quanto brutali siano stati i nostri compatrioti in diversi frangenti della nostra storia.

“Dopo i fasti della romanità era venuto il tempo dei secoli bui, appena interrotto dal miracolo del Rinascimento. Poi, di nuovo, era calata la notte su un'Italia divisa, anzi al massimo della sua frammentazione e impotenza, con governi alle cui corti si parlava francese, tedesco, spagnolo, ma non italiano” (p. 13), leggiamo nel primo capitolo. Infine, tra i vari progetti risorgimentali (Italia repubblicana di Mazzini, neoguelfa di Gioberti, federalista di Cattaneo e socialista di Ferrari e Pisacane) prevalse quello sabaudo di Cavour, imposto, scrive Del Boca, “con la violenza e con plebisciti truccati da un regno i cui codici legali e amministrativi erano tra i più arretrati della penisola” (p. 16). A quel punto serviva unificare davvero i tanti popoli che abitavano l'Italia.

Scriveva Martin Clark che fare gli italiani era un impegno formidabile: Nel 1871, eravamo “un mosaico di diverse società regionali, con economie e stili di vita lontanissimi, diverse culture, diverse storie e persino diverse pratiche religiose” (p. 30): analfabeti, ed estranei alla lingua italiana. L'istruzione elementare obbligatoria e la ferma obbligatoria di tre anni, nell'esercito, avrebbero progressivamente supplito a queste lacune.

Nelle antologie scolastiche, spiega Del Boca, predominava il modello Dio-patria-famiglia, con riferimenti ai valori civili, laici e militari (p. 33). Si insegnava agli adulti che “Volere è potere”: questo era il titolo di un libro di un certo Michele Lessona, nato sulla falsariga di “Self-Help” di Samuel Smiles; spiegava che si poteva raggiungere la fama a dispetto della povertà e delle difficoltà. È su queste basi che poggerà la mistica dello Stato ideata dal fascismo: nata per forgiare un popolo prima non esistente, frammentato e incosciente, era, nelle parole di Emilio Gentile, “una nuova religione laica che sacralizzava lo Stato assegnandogli una primaria funzione pedagogica con lo scopo di trasformare la mentalità, il carattere e il costume degli italiani per generare un 'uomo nuovo', credente e praticante nel culto del fascismo” (p. 43).

Del Boca è convinto che “italiano nuovo” significasse, per Mussolini, “soldato nuovo”: più tenace, più aggressivo, addirittura “più crudele” (p. 44). Il nuovo popolo italiano, insomma, veniva unito e forgiato come popolo soltanto per poter essere mandato al macello con maggior convinzione; questa si direbbe la congettura di Del Boca. Il mito della nostra bonarietà, derivato dalla nostra antica gloria culturale, nasceva tuttavia all'epoca delle prime imprese coloniali, in Africa, nel 1885: sotto i Savoia. Negli anni Trenta, all'epoca dell'invasione dell'Etiopia, il mito era già corroborato da quasi cinquant'anni di propaganda; e questo a dispetto di quanto avvenuto in Libia.

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Torniamo indietro. Cosa anticipò le guerre in Africa? La guerra al brigantaggio. Del Boca virgoletta la parola “brigantaggio”: perché? Perché nelle regioni interessate al fenomeno, spiega, i briganti erano “un'infima minoranza, anche se aggressiva e crudele”. Chi, dunque, nel Meridione, combatteva contro la nuova Italia sabauda? “Almeno 10mila soldati dell'esercito borbonico (…), migliaia di braccianti senza terra e paesani che rifiutavano la leva obbligatoria e gli inasprimenti fiscali” (p. 57). Il movimento eversivo era nato in Basilicata nel 1861; s'era esteso in Irpinia, Sannio, Molise, Abruzzo, Puglia, Capitanata e Terra del lavoro. Si componeva, secondo alcune stime riferite da Del Boca, di 80mila gregari divisi in circa 400 bande. I soldati impiegati dai Savoia nella repressione passarono da 15mila a 116mila nel 1863.

Queste bande erano capaci di occupare villaggi e cittadine per giorni interi, uccidendo o sequestrando i liberali; tendevano a esibire le bianche bandiere dei Borboni. In cambio, le esecuzioni dei briganti avvenivano, tendenzialmente, nella piazza principale del paese. Perché tutti potessero vedere. Spesso, non erano nemmeno precedute da regolare processo. La guerra durò circa dieci anni, fino al 1870. Non mancarono episodi di violenza assoluta e gratuita per mano sabauda, come i massacri di Pontelandolfo e Casalduni, completi di saccheggio e stupri (p. 62): nascevano per rappresaglia, costituirono un focolaio d'odio. Sembra che i morti furono alcune centinaia; le fonti dell'epoca parlano di 164 persone. Non ci fu nessun processo. Del Boca sostiene che si trattò di una guerra civile, insabbiata nei libri di scuola: “Non un cenno alla grande alleanza politica tra le classi dominanti del Nord e i latifondisti del Sud, a tutto danno delle classi subalterne”, chiosa. Insomma: ribelli, non briganti. Così andrebbero chiamati nei libri di storia.

Sembra che abbiano perduto la vita, nei primi 5 anni di guerra al “brigantaggio”, 5212 persone; 5044 furono gli arrestati e 3597 gli arresi all'autorità (pp. 65-66); secondo altre fonti (Carlo Alianello, “La conquista del Sud”), furono, in assoluto, 9860 i fucilati, 10.604 i feriti, 13.629 gli arrestati, a fronte di “alcune migliaia di morti” tra i soldati sabaudi. I briganti avevano infatti disposizione di uccidere, scannare e massacrare i prigionieri nemici, per impressionare i loro commilitoni.

In Africa, nel 1885, le tecniche furono le stesse: “abuso costante dei tribunali militari straordinari, fucilazioni sommarie, repressioni segrete seguite dalla scomparsa dei cadaveri, ondate di carcerazioni, deportazioni in Italia, mancato rispetto per le stesse leggi vigenti in colonia. Di nuovo, rispetto al Meridione, la precisa volontà di tenere le popolazioni eritree segregate nell'ignoranza e nella miseria” (p. 74), avallando, contrariamente a quanto raccontato in Italia, la permanenza dell'odioso fenomeno dello schiavismo.

Nelle prigioni eritree, nel 1890, riposavano 1500 detenuti locali, a fronte dei 200mila abitanti di quella terra. Nel penitenziario di Nocra – con tanto d'acqua razionata nei periodi di siccità, e lavori forzati nelle cave di pietra – i detenuti morivano di fame, scorbuto e di altre malattie. Chi cercava un'impossibile evasione veniva fucilato. Questo ameno luogo fu attivo tra 1887 e 1941; post Etiopia (1936) ospitò soldati e guerriglieri etiopi.

Undici anni dopo, ad Adua, finiva la prima, disastrosa esperienza coloniale italiana; 5000 morti, 2000 deportati, 10 milioni di lire versate per riscattare i prigionieri. Per la prima volta, un esercito africano sconfiggeva un esercito europeo. Nel 1900, non paghi, partimmo assieme a truppe di diverse nazioni per la Cina, con l'intento di aggiudicarci un porto e un pezzo d'entroterra nella futura grande colonia occidentale: ufficialmente, s'andava a reprimere la rivolta anticristiana dei “boxer”. Andarono 83 ufficiali, 1882 soldati e 178 quadrupedi. Francesi, tedeschi, americani, inglesi, russi, austriaci, italiani e giapponesi – come racconta Barzini (p. 97) - saccheggiarono e depredarono quanto poterono; l'impresa, per l'Italia, si concluse in pura perdita. La Cina non rese mai una lira all'erario, rispetto ai patti (indennizzo di guerra); il terreno conquistato, Tianjin, 17mila abitanti, era un'area paludosa completa di “lurido villaggio di 700 tuguri di fango” (p. 100).

Nuovo obbiettivo dell'Italia giolittiana fu la Libia. A convincere gli italiani che l'occupazione della “quarta sponda” rientrava “negli inviolabili diritti di Roma e negli incancellabili disegni del destino, ci pensavano i nazionalisti e gli organi della grande stampa” (p. 105). Del Boca è convinto che non ci fosse nessuna giustificazione per l'impresa libica: “C'era soltanto il desiderio di menare le mani, di fare la guerra, una qualsiasi, di imporre la propria volontà agli altri, di distruggere, di darsi al saccheggio” (p. 107); assieme, c'era la speranza d'essere accolti come liberatori dopo secoli di dura dominazione ottomana. Non fu esattamente così: al fianco dei turchi combattevano gli arabi, “non soltanto i guerriglieri giunti dall'interno, bensì gli stessi abitanti dell'oasi e di Tripoli” (p. 110).

Gli arabi non facevano prigionieri. “I nostri morti di Sciara Sciat giacciono insepolti dovunque; molti sono inchiodati alle piante di datteri come Gesù Cristo. A molti gli hanno cucito gli occhi con lo spago; molti sono stati messi sotto terra fino al collo, si vede solo la testa; moltissimi hanno avuto le parti genitali tagliate” (pp. 110-111). 21 ufficiali e 482 soldati caddero nella battaglia di Sciara Sciat; altri a Tripoli.

Rappresaglia italiana: dai 1000 ai 4000 morti arabi (dipende dalle fonti), con tanto di esibizione di quindici morti nella Piazza del Pane di Tripoli, perché servisse da esempio. Quella delle forche fu un'abitudine (p. 112). Tra 400 e 4000 (dipende dalle fonti) soldati nemici furono deportati in Italia: il numero esatto è difficile da decifrare per via del fatto che non venivano identificati al momento dell'imbarco. Tra loro, donne, bambini e ragazzi, vecchi e mendicanti. Nelle nostre carceri morivano di tifo, vaiolo, colera.

La guerra libica ci costò 3431 morti e 4220 feriti. Nell'entroterra, i guerriglieri arabi diventavano, post annessione della Libia all'Italia, “ribelli”. Sanzione prima, post arresto, la forca (p. 116). Era il 1912. Piena italia sabauda. La rivolta libica sarebbe terminata nel 1915, costandoci – sembra – 10mila morti. Più dei caduti di Adua. Chiosa Del Boca: “Così finiva, nel sangue e nella vergogna, il primo tentativo di occupare la Libia. Era durato quattro anni. Per raggiungere l'occupazione integrale della 'quarta sponda' sarebbero occorsi altri diciassette anni e l'annientamento, in combattimento e nei campi di sterminio, di un ottavo della popolazione libica” (p. 121).

Nel 1915 entrammo in guerra per decisione del Re, del presidente del Consiglio e del ministro degli Esteri; il parlamento non venne interpellato, così il popolo. Tuttavia – è bene ricordarlo, perché Del Boca dimentica di farlo – si andava a combattere per restituire alla patria le città di Trento e Trieste, l'Istria costiera, Fiume, Zara: città storicamente venete, etnicamente, e quindi italiane. Non mancarono enormi manifestazioni di entusiasmo popolare a sostenere la spedizione. Chiaro che fu dolorosissima, massacrante, triste, diretta da chi, come Cadorna, si dimostrò sinistro macellaio più che grande stratega: nella Prima Guerra morirono 652mila italiani; 450mila furono gli invalidi; il debito pubblico salì a 157 miliardi di lire. Ma è da quel sangue che deriva, ad esempio, la mia presenza come italiano nel 2009, qui tra voi. La presenza mia e quella di centinaia di migliaia di altre persone che non potranno che essere riconoscenti al sacrificio dei loro patrioti, e non intendono sporcarlo con un socialismo retrospettivo, o un pacifismo d'accatto. L'alternativa – cadendo l'Austria – sarebbe stata quella di slavizzarci, al confine orientale. Trent'anni dopo, la tragedia della slavizzazione/comunistizzazione forzata ha causato quel che sappiamo: 300mila esuli, migliaia di infoibati. Del Boca dovrebbe andarci cauto.

Del Boca racconta una pagina nera della Prima Guerra Mondiale: sulle pendici del Mrzli, presso Tolmino, alcuni civili sloveni, sospettati di avere assassinato dei feriti italiani, vennero fucilati (p. 131); la vicenda è documentata da un certo J.R. Schindler, in “Isonzo” (LEG, 2002). Mi piacerebbe saperne di più.

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Al termine della guerra, salvo l'Eritrea, la colonia libica era in condizioni disastrose, quella somala in condizioni critiche; Del Boca racconta prima delle repressioni anti-somale, accennando alla “più abietta schiavitù” mantenuta dal regime; quindi – siamo entrati nel ventennio fascista – alle operazioni condotte da Graziani in Libia. La vergogna, ancora non adeguatamente interiorizzata dalla nostra memoria collettiva, è quella dei campi di concentramento del Sud bengasino e della Sirtica: sei lager da 78.313 cirenaici, più altri campi minori da 12.448; inclusi i caduti per malattia e denutrizione durante la deportazione, si arriva a 100mila persone. Dei 100mila prigionieri, 60mila sarebbero tornati a casa nel 1933.

Del Boca: “In nessun'altra colonia italiana la repressione aveva assunto, come in Cirenaica, i caratteri e le dimensioni di un autentico genocidio” (p. 179): la popolazione cirenaica era scesa in vent'anni di 60mila unità, 20mila costrette all'esodo in Egitto, 40mila “per i rigori della guerra, della deportazione e della prigionia nei lager”.

1935. Invasione dell'Etiopia. Scopo del gioco, “vendicare Adua” e dare agli italiani “un posto al sole”: ossia, spiega Del Boca, “finalmente un paese ricco e fertile, non più una collezione di deserti (…). Una nuova frontiera per chi amava l'avventura” (p. 187); al contempo, significava diventare impero coloniale come Francia o Gran Bretagna, per non essere secondi alle grandi potenze. Il giovane Montanelli, all'epoca, ringraziava il “Gran Babbo” per questa guerra, che sentiva come “una bella lunga vacanza in premio di tredici anni di scuola. E, detto tra noi, era ora” (p. 191).

Scrive Del Boca che il fascismo insegnava “disprezzo dell'avversario, assenza di pietà, inclinazione allo sterminio, esaltazione della bella morte” (p. 188): in questo senso, bella morte esclusa, era come il bolscevismo. Sprezzante dell'avversario, estraneo alla pietà (genocidio ucraino in primis), inclinazione allo sterminio (non per razza ma per censo: kulaki), mancava forse dell'esaltazione della bella morte. Tragedia del nostro maledetto Novecento è questa somiglianza speculare tra ideologie nemiche. Andrebbe rimarcata.

Del Boca riferisce che fu Mussolini ad autorizzare l'uso delle armi proibite dalla Convenzione di Ginevra, ossia i gas tossici. Il problema è che diverse delle fonti nominate le ha soltanto Del Boca, nei suoi archivi; nemmeno Montanelli ha mai ricordato e testimoniato l'uso di armi di questo genere. Secondo Del Boca Montanelli è stato un “negazionista” (p. 197) sino a quando, nel 1996, il ministro della Difesa Domenico Corcione ha ammesso che nella guerra italo-etiopica furono impiegate bombe e proiettili caricati a iprite e arsine, e che il loro impiego era noto a Badoglio, che firmò relazioni e comunicazioni in merito. Allora Montanelli ha dovuto prenderne atto, con stupore. Per approfondire la vicenda: Del Boca, “I gas di Mussolini”, con tanto di note sulla polemica con Montanelli.

Del Boca riferisce che Mussolini “Di questi aggressivi chimici ha autorizzato lo sbarco segreto in Eritrea di 270 tonnellate di bombe per l'aeronautica (caricate a iprite), 60mila granate per l'artiglieria (caricate ad arsine)”: l'ordine di usarle viene soltanto da lui (p. 193).

Mussolini autorizza come “ultima ratio” l'impiego di gas a Gorrahei, nell'ottobre 1935, con un telegramma (attenzione alla fonte: Documenti sull'Etiopia presso l'Autore. Altro non è dato di vedere); idem per “supreme ragioni di difesa” a Dolo (p. 194). Il resto sospetto meriti lo studio del libro di Del Boca citato poco fa, con tanto di analisi completa e scientifica di tutte le fonti.

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Nel 1936, post annuncio della vittoria contro l'Etiopia, “due terzi dell'immenso Paese erano ancora da occupare” e i resti dell'esercito imperiale (100 uomini) erano ancora attivi in diverse regioni. Secondo Del Boca (fonte: archivio privato di Del Boca), Mussolini avrebbe dichiarato che era il caso di impiegare i gas, per debellare la resistenza. Del Boca parla di 552 bombe caricate a iprite e a fosgene per complessive 60 tonnellate: come sia arrivato a questa cifra è un mistero che qui, purtroppo, non è chiarito. Immagino che altrove sia tutto spiegato con puntualità e precisione, e che le fonti possano essere visionate e consultate da tutti. Immagino sia pacifico.

Veniamo al dramma di Debrà Libanòs. 1937. Un attentato eritreo contro il vicerè Graziani e le autorità italiane ed etiopiche causò sette morti e 50 feriti. La rappresaglia fu, a quanto leggiamo, terribile, violentissima, gratuita: nel suo diario segreto (Longanesi, 1971), il giornalista Ciro Poggiali parla di violenze commesse, a danno di innocenti, con manganelli e sbarre di ferro. Civili e soldati incendiarono case e chiese; 4000 etiopi finirono in “improvvisati campi di concentramento” (p. 212). Si trattò di tre giorni di violenze che determinarono un numero imprecisato di vittime: 30mila secondo il governo etiopico, tra 1400 e 6000 secondo i giornali inglesi, francesi e americani dell'opera (p. 214). Atroce, in ogni caso. Atroce e grottesca fu la sorte di “cantastorie, indovini e stregoni”, responsabili di propaganda anti-italiana: altri settanta morti (p. 216). Dicevano soltanto che la guerra sarebbe finita presto e che l'Etiopia sarebbe tornata libera.

A Debrà Libanòs c'era un monastero del XIII secolo, protetto da monaci e sacerdoti, sacro per la cultura abissina. Convinti da Graziani che si trattasse di pericolosi nemici della civiltà italiana, corresponsabili dell'attentato, gli italiani e gli ascari libici fucilarono 297 monaci e 23 laici sospetti di connivenza; qualche giorno dopo, il martirio sarebbe toccato a 129 diaconi e – a quanto stanno dimostrando due docenti universitari inglesi, Ian L. Campbell e Degife Gabre-Tsadik, altri 276 cittadini estranei al monastero. La cifra complessiva della rappresaglia andrebbe, dunque, tra i 1423 e i 2033 caduti (pp. 220-221). Dovremmo chiedere perdono per questo massacro, e dovremmo studiarlo – al pari degli altri – a scuola. Graziani, alla fine della guerra, non venne processato per un crimine come questo (p. 224). La giustizia è stata ferita.

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Veniamo al confine orientale. Al di là delle dichiarazioni, l'annessione di Lubiana, oggi Slovenia, procedeva con scarsa serenità. Nei due anni di occupazione, stando alle fonti jugoslave, nella sola provincia di Lubiana furono fucilati 1000 ostaggi e uccise “proditoriamente” 8000 persone; 35mila persone furono deportate in Italia; 4500 morirono nel campo di concentramento di Arbe; migliaia di case furono bruciate. Del Boca parla di “operazione di autentica bonifica etnica” (p. 235). Durante la “bella marcia” nei boschi sloveni furono uccisi 1807 partigiani in combattimento; 847 fucilati; 167 furono i civili uccisi (p. 239).

Sei furono i campi di concentramento in territorio italiano: Arbe, in Dalmazia; Gonars e Visco, in Friuli; Monigo e Chiesanuova, in Veneto; Renicci, in Toscana. Nel 1942, 6577 furono i deportati ad Arbe, 2250 a Gonards, 3884 a Renicci, 3522 a Chiesanuova, 3172 a Monigo: secondo gli sloveni, invece, erano già 26mila. Ad Arbe, il tasso di mortalità era del 19 percento; morirono tra le 1495 e le 3500 persone, a seconda delle diverse fonti (p. 243). Secondo Roatta, all'epoca capo di stato maggiore dell'esercito, non si trattò di campi di concentramento ma di “campi di internamento protettivo e volontario”: nati per difendere quei cittadini dall'avanzata delle formazioni bolsceviche (p. 248). Del Boca è eccezionalmente amareggiato per questa menzogna.

I Ministeri degli Esteri dei due paesi – Iugoslavia e Italia – si scambiarono liste di criminali di guerra, in cima alla prima il massacratore Tito, capo del loro Stato; rinunciando a consegnare gli italiani responsabili di crimini di guerra non potemmo domandare alla Germania la consegna dei nazisti stragisti. In compenso, servirono circa 55 anni perché le parti in causa – almeno: due delle parti di esse, ossia Italia e Slovenia – si sedessero a tavolino per scrivere la storia dei vinti e dei vincitori con ben diverso equilibrio.

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Mancano notizie relative a quanto avvenuto in Montenegro, Albania, Grecia e Dodecaneso, Croazia e Dalmazia; idem per la Russia, laddove lo storico tedesco Thomas Schlemmer sta cercando di portare alla luce crimini di guerra tedeschi e italiani (p. 293). In compenso, la conclusione di Del Boca – dopo una discutibile, ma personalmente largamente condivisa digressione sul forzismo e su Berlusconi – esalta l'opera dell'esercito senza uniforme degli italiani volontari nelle organizzazioni umanitarie, in tutto il mondo. La brava gente, a quanto pare, sono loro.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Angelo Del Boca (Novara, 1925), narratore, giornalista, saggista e storico del colonialismo italiano, direttore della rivista di storia “Studi Piacentini”, ex partigiano. Vive a Torino.

Angelo Del Boca, “Italiani, brava gente”, Neri Pozza, Vicenza 2005. Collana “I Colibrì”.

Gianfranco Franchi, novembre 2009.

Prima pubblicazione: Lankelot.