Io, l’infame

Io, l'infame Book Cover Io, l'infame
Patrizio Peci
Sperling & Kupfer
2008
9788820046415

L'altroieri, quando molti di noi nascevano, il terrorismo sporcava l'Italia di sangue: quotidianamente. I nostri concittadini s'erano abituati alla violenza: capitava che osservassero sparare a un povero cristo che tornava a casa, sgradito agli assassini comunisti delle Br, e che allargassero le braccia, come fosse una cosa normale. Perfino i brigatisti restavano stupiti da questa indifferenza (cfr. p. 28 di questo libro, spari a Torino). Il comunismo armato era riuscito a normalizzare le gambizzazioni. Scenario da film dell'orrore, assoluto. Imperdonabile. Italiano. Ma perché certi giovani "inquieti" avevano preso questa strada? Perché avevano deciso di massacrare liberi cittadini in nome del loro ideale? Risponde l'autore: “Ovvio che uno non fa una scelta simile se non crede fino in fondo nel comunismo, se non crede che la lotta armata sia l'unico sistema per instaurarlo e se non ha speranza di vittoria” (p. 41). Ovvio. Insomma: gambizzare era corretto, per quei compagni: “Importante sparare tanti colpi per essere sicuri di colpire l'osso, anche se dal punto di vista politico l'azione può considerarsi riuscita con una ferita qualsiasi” (p. 127). Dio, che rivoluzionari!

“Io, l'infame” è l'autobiografia di Patrizio Peci, ex Lotta Continua, terrorista delle Brigate Rosse col nome di battaglia “Mauro”, primo pentito delle BR, accusato di responsabilità diretta di sette omicidi, diciassette ferimenti, decine di reati; un fratello, Roberto, massacrato dai brigatisti rossi, in rappresaglia. La prima edizione dell'opera, curata da Giordano Bruno Guerri, è del 1983; da qualche tempo, ne circola una nuova, aggiornata (Sperling & Kupfer, 2008). Peci vive sotto pseudonimo in una località segreta, assieme alla sua famiglia.

Nella premessa, Guerri spiega che questo libro è il tentativo di Peci di “rientrare nel mondo, di comunicare alla 'gente' sentimenti e stati d'animo dopo le date e i nomi che interessavano ai carabinieri e alla magistratura (...)”. Durante il colloquio prodromico alla stesura dell'opera, durato una settimana, GBG ha “sollecitato a Peci – militare più che politico – soprattutto impressioni, stati d'animo, giudizi e ricordi banali, che peraltro in un contesto di terrore diventano mostruosi. Ne è nata un'autobiografia divisa, come lui, tra ingenuità e cinismo, umiltà e arroganza, ambiguità e buona fede nel tentativo di spiegare quelle che chiama 'le mie scelte', il terrorismo prima, il pentimento dopo” (pp. 5, 6).

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18 maggio 1983, Torino. Comincia il processo alla colonna torinese, la colonna degli assassini rossi, amici e compari di Peci: il pentito non ha nessun senso di colpa e nessun rimpianto, già li percepisce come bestie. Le bestie stanno bene in gabbia, in gabbia continuino a “propagandare morte” per la loro “organizzazione”. In gabbia hanno perduto l'autocontrollo di prima: Peci scrive che si tratta di un “rigore, morale e formale” e di un modo di fare “rigido, militare, quasi monastico” (p. 12). Non hanno pietà per le vittime, non hanno rispetto per niente. Solo per le direttive dell'esecutivo.

Peci racconta tutto del suo passato: dalla povertà e dalla dignità della sua famiglia (padre muratore) all'affetto che lo univa ai suoi fratelli, dalla cecità a un occhio (destro) agli anni della scuola (amava marinare), dai primi lavori come barista (in famiglia) e cameriere (hotel) sino all'iniziazione politica.

L'antifascismo l'ha respirato a scuola, tra i suoi compagni, e per le strade, come “mito generazionale” (p. 22) e non in casa (questo è interessante; a casa non si poteva parlare di politica, “per l'amor di Dio”): ha semplicemente ritrovato, nella sua adolescenza post 68, un clima fertile per l'antagonismo e per l'azione politica, al fianco di Lotta Continua, all'epoca fortissima nel suo territorio (San Benedetto del Tronto). Quindi, s'è sganciato assieme a qualche altro comunardo smanioso di menare le mani fondando il “PAIL”: Proletari Armati in Lotta. Assieme, hanno cominciato a fare antifascismo attivo, chiamiamolo così, bruciando macchine (fasciste?) per strada, o bastonando professori colpevoli d'essere iscritti al Movimento Sociale (p. 38) oppure militanti missini (in ottanta contro sei: p. 39). Si sono fatti notare. Sono stati ingaggiati dalle BR.

Letture del giovane Peci: ovviamente Marx, “Il capitale” (tutto?), quindi favolosi opuscoli di Potere Operaio e Lotta Continua, i pensieri di Mao e “qualcosa di Stalin” (testuale), considerato chiaramente un eroe, e “qualcosa sui tupamaros”. Quando entra nelle BR, riceve “più sicurezza, più efficienza e più capacità di dibattito politico” (p. 39). Il nemico, genericamente “il fascismo”, diventa più vago – diciamo qualsiasi cosa non sia comunista, ossia lo “Stato” (come moloch) e “i centri del potere economico, dell'informazione, della politica” (tutti). Deve agire nelle metropoli, per preciso ordine dell'esecutivo: le piccole città non sono ancora pronte. Si ritrova nella poco solare Milano, a campare di stenti, frustrato e irritato. Passerà a Torino.

Fermiamoci un attimo: cos'è questo “fascismo” che tanto avversavano negli anni Settanta? Il fascismo è “prepotenza di voler imporre le proprie idee con la forza e con la violenza”, scrive chi uccideva per imporre le proprie idee. Il fascismo “è l'esaltazione dell'individualismo”, scrive uno che si gasava quando qualcuno capiva che era il capo di un'azione armata. “Il comunismo è l'esaltazione del collettivismo”, scrive uno che uccideva o gambizzava privati cittadini, e che sognava di esser parte della futura classe dirigente di una società comunista; di una minoranza, quindi, con potere decisionale. Curioso, no? Quante contraddizioni.

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Leggeremo dello stato d'animo prima, durante e dopo le azioni; dei pedinamenti delle future vittime, loro nomi e cognomi e ragioni delle violenze (capofficina Fiat “servo del padrone”, “troppo esigente” con gli operai, “guardione” o giornalista nemico, etc); proiettili andati a bersaglio, e proiettili finiti negli organi sbagliati; dialoghi con le vittime, e via dicendo.

Cosa emerge? A sentire Peci, i brigatisti non avevano affatto “straordinari addestramenti militari” (p. 16), piuttosto spesso si ritrovavano a improvvisare per via dei loro errori grossolani. Si trattava di persone “normali sotto tutti i punti di vista: non falliti, non stupidi. Gente con un'intelligenza media (…) e spirito di avventura (…) Per ideale” (pp. 42-43). Ricevevano uno stipendio (“ridicolo”, p. 18: 200mila lire al mese nel 77, 250 nel 79) e avevano le ferie pagate. Casa, luce, gas, vestiti, spese di munizionamenti e travestimenti e spostamenti li pagava l'Organizzazione. Ricca, si direbbe, come un partito. Curioso.

Erano molto giovani: Curcio, poco più che trentenne, sembra un vecchio. Le donne erano considerate capaci di uccidere e di gambizzare proprio come gli uomini; potevano avere ruoli dirigenziali – diciamo così. Quando una come la Ponti girava in topless per casa emozionando i sin troppi scapoli ci si accorgeva che la parità dei sessi era un'invenzione politica. Gli aborti clandestini, poi, costavano cari: più delle azioni, si lamenta Peci. Eh.

C'erano brigate e colonne; le colonne uccidevano, le brigate si occupavano di ferire. Un esecutivo teneva contatti internazionali (ETA, IRA, OLP): questo aspetto, curiosamente, nel libro non è approfondito affatto. Chi fiancheggiava i brigatisti? Stando a Patrizio Peci, i primi volontari erano gli ex partigiani: a Milano si ritrova ospite di un certo Mario Bondesan, che gli racconta come sparava ai fascisti durante la guerra, e via dicendo (p. 76). La conclusione era: “sconfiggeremo lo Stato come abbiamo sconfitto i fascisti, ma questa volta non ci faremo fregare: i nemici al muro, mentre noi costituiremo lo stato comunista, il paradiso” (p. 77). Proprio.

Quali erano le principali attività delle brigate “logistiche”? “Falsificazione documenti, reperimento case, furto auto e materiale vario, falsificazione targhe, a volte anche reperimento armi” (p. 56). Rubavano soprattutto le Fiat 128 perché erano macchine comode e sicure (ma Peci aggiunge: “Non voglio fare pubblicità alla Fiat”. Colpo di genio, a p. 143).

Il capo della colonna di Torino, Fiore, è un alcolista da due bottiglie di vino a tavola e tre grappe; aggressivo, egoista, ladro (creste sulle spese mensili presentate al misterioso “esecutivo”) e maiale (si pulisce le unghie dei piedi, a tavola, con il coltello del pane). Curioso che Peci scriva che nell'organizzazione veniva guardato male chi beveva anche un solo bicchierino di più, figuriamoci chi si drogava (p. 106). Inimicizia per Fiore, o caos nell'organizzazione? Diciamo che non dovevano brillare per intelligenza: c'è chi, come Morucci, è capace di bruciare, per leggerezza, una villa da 450 milioni (negli anni Settanta) perché vuole far sparire del materiale (p. 81).

La comunicazione non era il punto forte dei comunisti armati per la rivoluzione: Prima Linea, un giorno, gambizza la dottoressa Nigra per “combattere gli aborti clandestini”: peccato fosse l'abortista di riferimento delle BR (p. 94). Cose che succedono quando uno è intelligente come un comunista.

In generale, dall'interno sembravano l'armata br-ancaleone (la battuta è di Pecci): “Non c'era azione in cui non capitasse qualcosa di imprevisto, comico, grottesco, imbarazzante, anche se non filtrava all'esterno. Se la gente avesse saputo per filo e per segno tutto quel che ci capitava non avremmo fatto tanta paura” (p. 114). Probabile. Eppure, questi sinistri idioti non tolleravano l'ironia né le beffe, perché dovevano mantenere un'immagine dura ed efficiente (p. 137).

“Il risultato finale qual è stato? Che non abbiamo concluso niente se non criminalizzare tutta l'aria di dissenso a sinistra del partito comunista. Di fatto ora chiunque si pone all'esterno o alla sinistra del sindacato o del partito comunista è un terrorista o un potenziale terrorista. Così, in pratica, abbiamo distrutto anche quel poco di movimento rivoluzionario che c'era. L'abbiamo distrutto con le nostre mani: avevamo la forza per creare una spaccatura – una sola – e abbiamo finito per spaccare proprio il movimento (…). Adesso sono o morti o in galera (…). Oggi sono in galera 5000 persone per reati legati al terrorismo” (p. 49)

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Peci sostiene di essere entrato in crisi già nel 1979, ben prima dell'arresto del 19 febbraio 1980. Unico arresto – ribadisce, smorzando le voci di un precedente fermo nel dicembre 1979, e di un successivo doppiogioco. Le ultime pagine sono dedicate ai giorni del pentimento e della galera, agli incontri con Dalla Chiesa e Caselli, ai suoi pronostici sul futuro dell'organizzazione. Questo documento rimane – in ogni caso – unico. Nella sua ingenuità, nella sua schiettezza, nella sua vaghezza, relativa ad aspetti come le collaborazioni internazionali, i finanziamenti autentici, dinamiche dell'arresto e del pentimento, è un pezzo di (rossa) storia d'Italia, recente, che dovrebbe circolare casa per casa. Magari a qualcuno passa la voglia di pubblicare il “Libretto rosso dei partigiani: manuale di resistenza, di guerriglia e di sabotaggio antifascista”, nel 2009. Già, accade a Roma. L'operetta serve a scoprire tecniche utili per “la manomissione delle vie di comunicazione”, “il danneggiamento dei macchinari industriali”, “l'interruzione delle forniture di energia”, “la distruzione delle derrate alimentari destinate al nemico”. Cose necessarie, no? E certo.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Patrizio Peci (San Benedetto del Tronto, 1953), ex terrorista delle Brigate Rosse, primo pentito delle Brigate Rosse. Ha cambiato nome e vive in una località segreta.

Patrizio Peci, “Io l'infame”, Mondadori, Milano 1983. A cura di Giordano Bruno Guerri. Nuova edizione: Milano, 2008.

Gianfranco Franchi, agosto 2009.

Prima pubblicazione: Lankelot.

La drammatica confessione del primo “pentito” delle BR, raccolta da Giordano Bruno Guerri.