In una città atta agli eroi e ai suicidi. Trieste e il “caso Svevo”

In una città atta agli eroi e ai suicidi. Trieste e il "caso Svevo" Book Cover In una città atta agli eroi e ai suicidi. Trieste e il "caso Svevo"
Giampiero Mughini
Bompiani
2011
9788845266843

Quando mi hanno segnalato l'esistenza di questo libro, con un sms proveniente dalla città in cui sono nato, e in cui vorrei tanto poter tornare a vivere, sono rimasto abbastanza interdetto: non capivo che interesse potesse avere avuto Giampiero Mughini, intellettuale irrequieto e non sempre decifrabile, un tempo comunista ma poi collaboratore di testate allineate al forzismo, un tempo attore nei film di Nanni Moretti ma poi catodico e sciagurato opinionista di calcio, a parlare di Trieste. Mi domandavo cosa questo cittadino romano di sangue siciliano e toscano avesse a che fare con la città di Svevo e Magris, di Slataper e Stuparich, del giovane storico Karlsen e del grande imprenditore democratico Illy, di Renzo Rosso e dell'esule Fulvio Tomizza. La risposta è scritta con discreta chiarezza nel libro, e con sincera disinvoltura: niente. In settant'anni di vita Mughini ha trascorso una manciata di giorni, a Trieste: cinque o sei. Paradossalmente, questa sua estraneità tutt'altro che relativa – chiamiamola pure abnorme, e incontrovertibile – alla città e alla cultura di Trieste ha potuto dare vita a un singolare omaggio come “In una città atta gli eroi e ai suicidi” (Bompiani), a metà strada tra la scoperta di qualche buon litro di acqua calda, un sincero tributo a un letterato borghese, nevrastenico e geniale (Italo Svevo) e il tentativo di sintetizzare un secolo di grandi intellettuali e grandi letterati triestini in centotrenta pagine (non senza incursioni storiche, con qualche sciagurata superficialità: sembra quasi che abbiano più peso i libri di Petacco che quelli di Pupo: per carità, no, non ci siamo). Il risultato è dignitoso: niente di eterno, niente di memorabile. Sicuramente, però, qualcosa di piacevole. Il sentimento del saggista, oltretutto, è straripante e diventa davvero un valore aggiunto, man mano. È come se Mughini avesse giocato un certo gioco di Mann – ma è blasfemo dire quale. E quindi glissiamo.

Devo aggiungere che, complice la respingente immagine del Mughini calciomane, e del Mughini collaboratore di certi quotidiani (come “Libero”, per capirci), non ho mai sentito nessuna curiosità nei confronti delle sue pubblicazioni: leggo che il giornalista catanese, classe 1941, ha firmato più di venti libri, sino a oggi. Devo ammettere che non ne ho mai sfogliato uno, prima: e non ricordo che nessuno mi abbia mai parlato di un suo libro. Curioso. In ogni caso, non sono in grado di posizionare questo suo saggetto nel contesto della sua opera omnia. Mi spiace. Ammetto candidamente che ho comprato questo libro solo perché parla di Trieste. E perché da Trieste mi hanno detto che valeva la pena leggerlo. Tutto qua. Hanno fatto bene? Hanno fatto bene.

Hanno fatto beni perché ho letto un libro in cui ho ritrovato nomi cari a una minoranza di noi che studiamo Trieste, come Fabio Cusin, e nomi cari a una maggioranza di noi che amiamo la grande letteratura mitteleuropea e italiana, come Bobi Bazlen. Perché quando Mughini ha parlato di Saba, in questo libro, ha ricordato che il suo mestiere era quello di “custode di nobili morti”, come il poeta chiamava il lavoro del libraio antiquario: e ha scritto del suo garzone e della sorte di quel negozio senza retorica. La retorica stucca.

Hanno fatto bene perché non avevo mai letto il giudizio di Bazlen su Svevo, rimasto in una lettera spedita a Montale, comune amico di entrambi. Questo giudizio: “Non aveva che genio: nient'altro. Del resto era stupido, egoista, opportunista, gauche, calcolatore, senza tatto”. E la chiosa di Mughini non è male: “Un giudizio perentorio, o forse sarebbe meglio definirlo tranchant, com'era nel gusto e nella maniera intellettuale di Bazlen, uno che per tutta la sua vita ha scritto breve e in modo da colpire in pieno petto il lettore”.

E nemmeno avevo letto, per dire, un ricordo di Montale su Svevo come questo: “Grande viaggiatore e insieme grande sedentario, questo produttore di vernici sottomarine che divise la sua vita fra Trieste e Londra portava il suo mondo con sé come la chiocciola”.

Hanno fatto bene, i miei amici, perché Mughini, a un certo punto, sale in cattedra e fa un gran ritratto di Ettore Schmitz, in arte Italo Svevo. Comincia dicendo che a guardare le foto che lo ritraggono dapprima trentenne, e poi via via quarantenne e cinquantenne, Svevo è un “borghese sputato”, con un gran capoccione e parecchie difficoltà a trovare cappelli della misura adatta – in quell'epoca la cosa poteva dare parecchie noie. Ha dei “baffi folti e spioventi, l'aria rigata non sai se dall'ironia o dall'ambiguità con cui sta guardando e giudicando il circo umano che gli ronza attorno”. E a giudicare dalle apparenze, “è un borghese dalla corteccia tranquilla, uno che conosce il linguaggio e la religione degli affetti, uno che antepone seppure dolorosamente il dovere al piacere, uno che nel 1896 s'è sposato trentacinquenne con una donna di tredici anni più giovane di lui [...]”. Però, scrive Mughini, “è come se un vulcano gli bruciasse dentro a minacciare lui e chi gli sta attorno”. Quel vulcano sappiamo tutti cosa sia, e quale sia la sua essenza: è la letteratura.

Un'esistenza così onesta, semplice e antieroica come quella di Italo Svevo nasconde fonti di ispirazione e rivela ragioni di meditazione che hanno dato vita ad almeno due grandi libri, “Una vita” e “La coscienza di Zeno”, e a una grande amicizia letteraria, come quella con James Joyce, un tempo suo insegnante di inglese, nell'amata Trieste. Il loro sodalizio è stato qualcosa di unico. Mughini racconta parecchi aneddoti interessanti, a volte commoventi – come nel caso della vera vicenda dell'ultima sigaretta – e si spinge sino a raccontare che ne è stato del ghenos (ramo Svevo, ex Schmitz, estinto nel 1945: maledetta guerra) e della splendida e perduta Villa Veneziani-Svevo, bombardata dagli alleati.

Mi piace sognare che ci sarà qualche ragazzina o qualche ragazzino che a partire da questo libro (comprato magari perché Mughini è un giornalista popolare per ragioni non proprio letterarie) andrà in cerca di almeno quindici o venti dei libri indicati in bibliografia. Almeno di quelli di Slataper, di Stuparich, di Renzo Rosso, di Quarantotti Gambini. Magari, ecco, quel ragazzino sappia che non tutto quel che ha scritto Pahor è oro colato, come qui a un tratto pare di capire: Pahor è un nazionalista sloveno, mai dimenticarsene. Ma transeamus. Portiamo a casa il risultato. Un intellettuale catanese ha parlato con amore di Trieste e dei grandi letterati triestini: oltretutto, in un'epoca di profonda decadenza come questa, in sordida epoca forzista. C'è speranza, insomma. E c'è ragione di orgoglio.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Giampiero Mughini (Catania, 1941), scrittore ed ex giornalista italiano, laureato in Letteratura Francese. È stato uno dei fondatori del “Manifesto”. Ha collaborato col “Foglio” e con “Libero”.

Giampiero Mughini, “In una città atta agli eroi e ai suicidi”, Bompiani, Milano 2011.

Gianfranco Franchi, Marzo 2011.

Prima pubblicazione: Lankelot.

È come se Mughini avesse giocato un certo gioco di Mann – ma è blasfemo dire quale.