Il salice

Il salice Book Cover Il salice
Hubert Selby Jr
Fazi
2006
9788881126996

La scrittura di Hubert Selby Jr è un’iniezione di immediatezza e di profondità: è difficile conciliare la facilità e la freschezza d’uno stile capace di confondere e amalgamare parlato, flusso di coscienza, discorso diretto, naturalmente irrispettoso della punteggiatura e con qualche maiuscola gettata là con disinvoltura, a suggerire fiato spezzato, punto e a capo ma senza allentare nessun filo, con la profondità d’un’introspezione che punta agli abissi della psiche, alla lettura delle motivazioni d’ogni stato d’animo e delle sofferenze e dei dolori più lontani e sedimentati. Selby Jr riusciva nell’impresa – tanto che Baricco lo riconosce sorta di “Céline newyorchese”, e a ben guardare… il discorso dell’innovazione dei puntini di sospensione “emozionali” può essere accostato a questo diluvio di virgole, intervallate da puntini di sospensione celiniani, macchiate da punti interrogativi plurimi come fosse un fumetto (serie da tre o quattro); a queste “e” che vanno a strascicare tutto, dai pensieri ai dialoghi alle descrizioni pennellate con violenza ed efficacia, alle parole che si amalgamano frantumando il lessico e rinnovando fedeltà alla lingua del popolo.

Tutto questo sta a significare che sì, naturalmente in questo suo romanzo – uno degli ultimi in assoluto, uno dei meno conosciuti a quanto pare: “The Willow Tree”, “Il salice”, è parte della sua produzione matura (1998. Selby muore nel 2004) – l’autore di Brooklyn non dimentica la trama: esiste, ma è così asciutta ed essenziale, in termini cinematografici diremmo tre o quattro movimenti di camera a inframezzare torrenziali piani-sequenza assieme a qualche flashback in bianco e nero, che tutta l’attenzione va a concentrarsi e sulla scrittura, e sulla psicologia dei personaggi. In fin dei conti, quel che scopriamo della loro vicenda biografica altro non è che conferma a quel che aleggia loro intorno, come nella tragedia greca; non ci sono straordinari intrecci, né inattesi deus ex machina, né clamorosi colpi di scena. C’è la vita di – diremmo in Italia, memori di certe lezioni – diversi vinti: sono vinti americani, sono quella parte della nazione Wasp, contemporanea vivente, che non riesce ad emergere né sui giornali, né nel cinema di Hollywood, né in narrativa, con poche eccezioni. Recentemente hanno fatto capolino – per chi ha voluto capire, o almeno ha voluto guardare – in Spike Lee o in Michael Moore, a livello mainstream o para-mainstream; e tuttavia ne sappiamo ben poco, e quel poco è filtrato da serial, film tv, alterati format catodici e via dicendo. Troppo poco per dire di poter comprendere, capire o condividere; quel che riceviamo forte è il messaggio, disperato e vivissimo, di queste caste di poveri, dannate dall’appartenenza a un’altra etnia a una vita difficile e piena di compromessi e di miserie: il loro bisogno di comprensione, consolazione, giustizia. Ma Selby forza la mano, e inserisce un personaggio bianco. Si chiama Moishe, è un reduce dai campi di concentramento, ma attenzione – ed ecco la cifra autoriale, il rifiuto della ripetizione di messaggi già espressi altrove, la ricerca della variazione e dell’intelligente distinzione – è un tedesco, protestante probabilmente, finito nei campi per via del tradimento d’un amico. Considerato ebreo e trattato da ebreo in quel periodo infame. Era un bianco onesto che aveva perduto anni di vita e conosciuto morte, sofferenza, dolore e ingiustizia esattamente come i neri e i portoricani di questo libro; curiosamente, per il giovane nero co-protagonista del romanzo, Bobby, tutto ciò è incomprensibile. Non riesce a immaginare un mondo in cui i bianchi vivano ingiustizie del genere, non l’ha mai conosciuto; la sua America fonda la sua fortuna sulle discriminazioni razziali, a quanto pare.

La trama possiamo sintetizzarla così: il nero Bobby vive nella periferia della metropoli, assieme alla madre e ai fratellini, in un contesto socio-culturale scadente e poverissimo. È un adolescente che sogna di fuggire a quella vita esecrabile grazie all’amore della fidanzatina, la portoricana Maria. Una gang di portoricani non accetta il loro amore, per via delle differenze razziali. Massacrano di botte Bobby, versano della soda caustica sul viso di Maria.

Maria versa in condizioni disperate, all’ospedale; sconvolta dalla coscienza d’essere rimasta sfigurata, dopo giorni vissuti tra bendaggi e infermiere ciniche, sotto lo sguardo disperato della madre e della nonna, una notte prende e si lancia dalla finestra. Bobby invece viene medicato prima in un bar, da un alcolista con la mano molto ferma, quindi da un vecchio che diventa quel padre che non ha mai avuto, Moishe. Moishe lo rianima, lo coccola, stabilisce un rapporto empatico e paterno; si raccontano vite e disgrazie – Moishe ha perso un figlio in Vietnam, Moishe ha conosciuto i campi di concentramento, Moishe è solo e non voleva più legami – e riescono a riscattarsi entrambi dalla solitudine e dal dolore. Bobby si vendicherà dei portoricani, senza tuttavia uccidere: sarà questa la sua prova di maturità, l’accettazione dell’ingiustizia della sorte e degli esseri umani, l’incapacità a essere altrettanto crudele e spietato.

Dio è sempre presente. Nelle preghiere delle portoricane per la piccola Maria è un Dio che sembra parlare diverse lingue, e conoscere diverse leggi: è un Dio diverso dalla sua cultura, e dalle sue tradizioni, quello che hanno conosciuto in America. “Pregare? Ma come faccio a pregare… qui? prego in questa strana lingua, una lingua a me sconosciuta? Prego il dio di questa città? In questo ospedale in cui ricoprono di bende un bel visetto e conficcano aghi nelle braccia della gente? È qui che devo pregare? Questo Dio di macchine, camion e bande di delinquenti riuscirà mai a sentire il tintinnio del mio rosario? E lei lo sentirà?” (p. 32).

Moishe invece sente nostalgia e sente il richiamo di Dio, speranza di giustizia e di amore eterno, di cessazione del dolore: prima, tuttavia, sa di dover vivere per testimoniare quella speranza e quell’amore, a dispetto della natura umana, a dispetto del corpo-carcassa, a dispetto del male: “sì, io torno sempre al corpo, anche se vorrei tanto lasciarmelo alle spalle per poter essere semplicemente la Luce e il Canto. Un giorno non tornerò più, ma c’è ancora del lavoro da fare… Sì, ci sono altre cose che vanno fatte… Oh, il corpo è così pesante… Come facciamo a muoverlo… Come facciamo a sopravvivergli?” (p. 311).

E allegoria della sua esistenza è il suo salice, in un parco: meta di pellegrinaggio sua e di Bobby, fonte d’ispirazione per insegnare a non vivere d’odio, ad assorbirlo e interiorizzarlo, per non disseminare altro dolore. Spiegò Selby, a proposito della scelta del salice: “HS – I chose a willow tree because they are so comforting. They seem more animated than most trees. They’re huge, powerful looking, yet comforting and protective. They will shield you from all the elements, and hang low to greet you” (Intervista su Spike Magazine). Moishe era e rimane Werner Schultz: ma è anche quel nome ebraico che ha assunto per rispetto della sua storia e della memoria di quella tragedia, è quel codice che macchia la sua pelle. È un’altra emigrazione in America; l’ultima degli europei, quella post 45, quando sembrava ad alcuni che fosse questa la patria degli uomini liberi e della democrazia. Moishe pagò l’illusione col sangue del figlio in una guerra sentita chiaramente assurda ed estranea; infine, in vecchiaia, incontrò un ragazzino del Bronx che restituì all’umanità e alla speranza, educandolo a sopportare e vincere il dolore. Interiorizzandolo. Gran libro, e notevole lezione di stile.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Hubert Selby Jr (Brooklyn, New York City 1928 – Los Angeles, California 2004), scrittore americano. Esordì pubblicando “Last exit to Brooklyn” nel 1964.

Hubert Selby Jr, “Il salice”, Fazi, Roma 2006. Traduzione di Marco Pittoni. Progetto grafico e illustrazione di copertina: Maurizio Ceccato.

Prima edizione: “The Willow Tree”, 1998.

Gianfranco Franchi, luglio 2007.

Prima pubblicazione: Lankelot.