Il nome sulla sabbia

Il nome sulla sabbia Book Cover Il nome sulla sabbia
Bonaventura Tecchi
Bompiani
1960

“Che cosa sono? Che cosa ho fatto finora? Quanto ho raggiunto di quello che m'ero proposto nell'adolescenza? E se non sono niente e non ho fatto niente, perché non ho il coraggio di finirla con una presunzione sterile, che mi trascina a una mediocrità scontenta e ringhiosa, degradante verso la rinunzia? Perché non ho il coraggio di saltare il fosso e mettermi nelle vie comuni dell'azione?” (Tecchi, “Il nome sulla sabbia”, p. 17).

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“Il nome sulla sabbia”, opera prima di Bonaventura Tecchi da Bagnoregio, Viterbo, apparve originariamente nel 1924. Si tratta di una raccolta di racconti e di prose brevi caratterizzate da una compattezza romanzesca, per spirito, stile e argomentazioni; protagonista principale, il contrasto tra l'elegia della vita nei campi della formazione dell'artista e l'intellettualismo e la ricerca letteraria; tra la poesia della natura e la dura prosa delle cose della vita; tra la speranza per un futuro solare e diverso e la sofferenza mai spenta per la perdita della mamma in giovanissima età.

Tecnicamente, Tecchi gioca su un periodare non estraneo a influenze liriche, tendenzialmente estraneo ai dialoghi; lo stile è iperdescrittivo, visivo (mai visionario) e pittorico. Così:

“Vagavo in quella vastità di campagne assolate, sulle strade polverose che hanno appena un piccolo fossato ai lati, sui viottoli che vanno senza siepi attraverso i campi, e ogni tanto sentivo dietro di me, precisa come una cosa materiale, l'impressione di quello sconfinato distendersi senza ripari, che mi dava un senso di squilibrio, come se mi mancasse un appoggio dietro le spalle. Unici, gracili segni a interrompere la monotonia dell'orizzonte, si ergevano da lontano gli steccati dei pascoli” (p. 143).

O così, passando alla descrizioni umane (qui incontriamo Colombino):

“Dal ricordo dell'altra volta credevo che fosse chiacchierino e facile alle confidenze; invece è forastico come un gatto di campagna e non riesco ad acchiapparlo. Appena mi vede, scappa via zitto zitto con quelle gambette un po' incerte, che s'arrampicano su per le scale aiutandosi con le mani o attraversano di corsa la cucina, e se può rifugiarsi nelle braccia della mamma, mi guarda fisso. Mi guarda soprattutto gli occhiali che luccicano e che gli debbono sembrare una cosa misteriosa” (p. 73).

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L'infanzia agreste è sempre più distante. Questa distanza è dolorosa, ma origina ispirazione viva, e forte. Nel più bel frammento del “Nome sulla sabbia”, il più caro amico del narratore appare disilluso e stanco; le uniche vanità che illudono la sua vecchiezza, scrive Tecchi, sono il fumo della pipa e quello dei ricordi. E quei ricordi sono magnifici e terribili; sono i ricordi della mamma morta, della sua disperata richiesta di tutela e protezione sul suo bambino.

E tuttavia questa infanzia agreste ha lasciato un imprint inconfondibile nella scrittura dell'artista. Tutte le volte che sembra uncinarsi al sogno d'una vita serena, quieta e mite, non lo fa poggiando sulla sua identità di letterato, ma sulla sua formazione contadina; tutte le volte che parla con amore di qualcosa, che sia la vita dei paesi o la descrizione dei campi, o l'assimilazione (meglio: la ricerca d'una fraternità) tra i paesi tedeschi e il suo retroterra viterbese, pare tornare bambino. Tecchi, nemmeno trentenne, scrive di aver passato il tempo concentrandosi nella lotta senza fine tra parole e cose, cultura e realtà:

“Questo ho ricavato dai libri di critica: poche formule lucide, scaltrite, capaci di inquadrare tutto il mondo o di penetrare sottilmente nell'intimità del più chiuso organismo di logica e di poesia. Mi sono vestito di esse come di una corazza. E ho avuto torto di andare in giro impettito per parecchi giorni, sicuro di avere con me una grande forza” (p. 22).

...ma invece la grande forza era tutta alle sue spalle. Era il segreto della vita a contatto con la natura, della poesia della semplicità e delle piccole cose, estranee al sogno dell'eternità o dell'immortalità, estranee a una verità diversa dal profumo del pane bruscato con olio e aglio, o della salvia.

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Che impatto poteva avere un libro come questo, firmato da un esordiente negli anni difficili, miserabili, sacrificati e tumultuosi post Prima Guerra Mondiale? Difficile pensare che potesse attecchire nella letteratura italiana ultrapoliticizzata d'un'epoca che preparava il cammino a un nuovo regime, ancora faticosamente impegnata a interiorizzare e storicizzare il senso della guerra e del sacrificio d'una generazione. E così Tecchi andò a cercare uno scrittore triestino, laterale e atipico, ferito dalla morte del suo migliore amico, Slataper, e di suo fratello, Carlo: andò a cercare Giani Stuparich, perché aveva letto il suo primo libro e sentiva fosse spiritualmente affine. Stuparich avrebbe confermato la sensazione di dna condiviso, nel tempo: la nulla ricerca d'effetto, la serietà, la sincerità (“sola garanzia d'una coscienza pura”), riconoscendo un famigliare “senso di solitudine” vissuto in mezzo agli uomini, con tanta angoscia per non saperlo vincere (cfr. carteggio Tecchi-Stuparich).

La limpida umanità di Tecchi, profondamente estranea alle retoriche di tutti i colori, guerrafondaie o pacifiste, patriottarde o socialiste, si concretizzava e si materializzava in queste sue prime pagine come semplice letteratura; come indagine scoperchiante della sua psiche, come angoscia dell'inutilità del proprio cammino, come nostalgia di quanto di buono era stato – aveva vissuto – aveva perduto.

Non stupisce che questo libro non venga ristampato dal lontano 1963: cosa potrebbe insegnare ai contemporanei? La nobiltà della semplicità? L'intelligenza d'una personalità? La ricerca d'uno stile piano ma non elementare, sentimentale ma non artificioso, ricercato ma non barocco? La bellezza delle terre del viterbese? Il sentiero per tornare al bosco? Tutte cose troppo poco popolari, nell'industria del libro e nel circo barnum delle patrie lettere. Peccato.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Bonaventura Tecchi (Bagnoregio, Viterbo 11 febbraio 1896 – Roma 30 marzo 1968) saggista e scrittore italiano, valoroso reduce della Prima Guerra Mondiale. Diresse l’Istituto di Cultura Germanica di Roma; insegnò Letteratura Tedesca all'Università di Roma. Esordì in narrativa con “Il nome sulla sabbia” (1924).

Bonaventura Tecchi, “Il nome sulla sabbia”, Bompiani, Milano, 1963. Prima edizione: 1924.

Approfondimento in rete: WIKI it

Gianfranco Franchi, aprile 2010.

Prima pubblicazione: Lankelot.

“Uscire dal carcere di se stesso: fin allora il nome sarà scritto sulla sabbia” (BT)

Opera prima di Bonaventura Tecchi da Bagnoregio, Viterbo, apparve originariamente nel 1924…