Il mio Carso

Il mio Carso Book Cover Il mio Carso
Scipio Slataper
La Voce
1920
9788842547341

Scipio Slataper, ragazzo, aveva terribili mal di testa. Era cresciuto troppo presto. Era eccessivamente sensibile. Era pieno di sogni. Aveva letto e studiato troppo tempo. La famiglia finì per portarlo dal dottore. Il dottore lo guardò dritto negli occhi: “Dubbioso, severo, quasi maligno. Poi mi proibì la scuola e m'ordinò la vita selvaggia. Avevo vinto”.

E Scipio Slataper, ragazzo, conobbe la vita dei boschi, nel Carso; e nel Carso scoprì per la prima volta la sua essenza, e diventò Pennadoro (giocando a tradurre il suo cognome: in ceko, “zlato” significa “oro”, mentre “pero” significa “penna”). E nel bosco re-imparò a pregare. Diceva: “Dio, voglimi bene, Dio, voglimi bene”, e una volta si buttò per terra e pianse a lungo. E Dio, nel tempo, rispose: “Abbia anche il dolore la sua pace”. E poi Dio disse: “Abbia anche il dolore il suo silenzio”. E infine Dio disse: “Abbia anche l'uomo la sua solitudine” [p. 85].

Pennadoro, nuovo venuto, tua è la terra del sole, e del vento. Carso, mia patria, scrive, sii benedetto.

“Mi conosceva la terra su cui dormivo le mie notti profonde, e il grande cielo sonante del mio grido vittorioso, quando sobbalzando con l'acque giù per i torrenti spaccati o franando dai colli in turbine di lavine e terriccio, d'un colpo di piede rompevo la corsa per cogliere il piccolo fiore cilestrino” [p. 23].

Pennadoro, nuovo venuto, vieni a dare nuova linfa al nostro popolo.

“Conoscevo il terreno come la lingua la bocca. Camminando guardavo tutto con affetto fraterno. La terra ha mille segreti. Ogni passo era una scoperta. In ogni luogo sapevo l'ombra più folta e la più vicina caverna quando mi coglieva la piova. Amo la piova pesa e violenta. Vien giù staccando le foglie deboli. L'aria e la terra è piena di un trepestio serrato che pare una mandria di torelli. L'uomo si sente come dopo scosso un giogo. Ai primi goccioloni balzo in piedi, allargando le radici. Ecco l'acqua, la buona acqua, la grande libertà” [p. 25]

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Spirituale e ribelle, il giovane Slataper raccontava il Carso come un mistico. E parlava ai fratelli slavi: “Io ti faccio padrone delle grandi campagne sul mare. Lontana è la nostra pianura, ma il mare è ricco e bello. E tu devi esserne il padrone. Perché tu sei slavo, figliolo della nuova razza. Sei venuto nelle terre che nessuno poteva abitare, e le hai coltivate. Hai tolto di mano la rete al pescatore veneziano, e ti sei fatto marinaio, tu figliolo della terra. Sei forte e paziente. Per lunghi secoli ti sputarono in viso la tua schiavitù, ma anche la tua ora è venuta. È tempo che tu sia padrone” [p. 31].

Trieste – scriveva – deve diventare la Venezia degli slavi. “Brucia i boschi e vieni con me”, dice, al fratello slavo. Perché il sangue italiano non ha più forza. Perché non potrà più rigenerare la città. Perché il suo sangue non è più vivo. “Ora vogliamo sole sulla terra. Grande sole di deserto. Sole che spacchi le fronti” [p. 79]. E questo basti.

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In città. “Mi piace il moto, lo strepito, l'affaccendamento, il lavoro”, scrive Slataper. Altrove, più avanti: “L'aria è piena di strepito. Il movimento s'allarga. La terra lavora. Tutta la terra lavora in una grande frenesia di dolore che vuol dimenticarsi” [p. 75]. Innamorato della vita del porto, da dove passavano tante merci provenienti dall'Oriente, dall'Italia e dalle Americhe, dirette ai tedeschi, e ai boemi, a volte rimane a guardare i bragozzi ciosoti che si staccano, gonfi e carichi, dalla riva, e sogna la loro navigazione per l'Adriatico, col borino e col sole, sino a Cattaro, magari, o a Costantinopoli.

Scipio racconta la mularia stradaiola, vale a dire i ragazzi di strada. Racconta la loro ribellione contro “le tedesche schiere”. Racconta le manifestazioni per l'Università italiana, sotto regime austriaco. Il giovane Scipio, nato sotto bandiera asburgica, sognava l'Italia. “La nostra patria era di là, oltre il mare. Invece qui, mamma chiudeva le persiane alla vigilia della festa dell'imperatore, perché noi non s'illuminava le finestre e si temeva qualche sassata. Ma l'Italia vincerà e ci verrà a liberare. L'Italia è fortissima. Voi non sapete cos'era per me la parola 'bersagliere'” [p. 7].

Già, cosa poteva essere? Qualcosa di difficile da capire per noi, che leggiamo cent'anni più tardi: e troviamo quasi grottesco che un artista possa pensare che sente la nostra Italia semplicemente così: “Patria, esclusiva e sacra. Mi tremava il petto leggendo di Oberdan. Avrei voluto morire come lui […]. Garibaldi mi fu un venerato amico e dio. Ancora oggi, quando sento parlare storicamente di lui, il cuore mi balza in rivolta. Io sono ancora un bimbo che vorrebbe combattere sotto i suoi occhi” [p. 46].

La città che racconta Scipio è una città ragazzina, senza letteratura. Una città giovane, il cui passato sono “i ginepri del carso”. È la città raccontata da un giovane irrequieto, che ha fede in se stesso e nella vita, non nella letteratura (“tristo e secco mestiere”). Uno che sa che la sua anima vien da dove è pietrame e morte – così scrive. “Ma quando una genziana riesce ad alzare il capo e fiorire, è raccolto in lei tutto il cielo profondo della primavera” [p. 84]. Il carso è “duro e buono”: il suo latte “sano”, il suo miele “odoroso”. E questo perché “ogni suo filo d'erba ha spaccato la roccia per spuntare, ogni suo fiore ha bevuto l'arsura per aprirsi” [p. 103]. E ha saputo essere ostinatamente nuovo, ed eterno.

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“Alberella di primavera”, Gioietta [Anna Pulitzer], l'amore adolescente di Scipio, se ne è andata. E non può tornare. Scipio non accetta la sua morte. Non la conosce, la morte. “Io sono davanti alla morte e la guardo incantato come guardo questa roccia spaccata sotto ai miei piedi. Ma io non voglio morire, perché non so che cos'è la morte” [p. 87]. E Scipio s'angoscia, s'ossessiona. Benedice il giorno della nascita di lei, benedice confusamente il giorno in cui ha voluto morire, vagheggiando un senso che non c'è. Non ci può stare.

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A dar retta a Natalino Sapegno [“Compendio di storia della Letteratura Italiana”, La Nuova Italia, 1972], questo “libretto unico” è, nelle sue pagine migliori, “testimonianza straordinariamente intatta e fresca, che si esprime con una assoluta novità di linguaggio e di immagini”: e si fonda su un “lirismo acerbo e esplosivo, germinale e indistinto, ma schietto e tutto immerso nei sensi e nelle cose”.

Secondo Emilio Cecchi [“Storia della Letteratura Italiana, Il Novecento”; Garzanti, 1988], critico famoso per aver salutato in Slataper un “Sigfrido dilettante”, in questo libro “tutto vibra in una musica agretta, con certe bruscherie deliziose, e sordità più espressive d'ogni sfoggio di sonorità a forti colori”, ma nel racconto si muovono i fatti e le persone, e “l'autore sta fermo, o rigira in un circolo vizioso”, e “il fondo resta inafferrabile, nebbioso e come distaccato”.

Secondo Giulio Cattaneo [Rizzoli, 1989], “Il mio Carso”, in piena linea con la letteratura di ambito “vociano”, è un “libro composito e discontinuo, se non disorganico”: non un romanzo. La parte migliore di questo libro sta, secondo il critico, “nella prima e terza parte, nell'allegro feroce del racconto sulla vita nel Carso dove la 'sovrabbondanza vitale' costringe lo scrittore a espandersi nel tutto, ad aggredire e a compenetrarsi nella natura selvaggia”.

Stando a Mauro Bersani [in “Viaggio nel Novecento”, a cura di Maria Corti, Mondadori 1984] questo libro ha una natura “caotica e frammentaria”; lo stile dell'artista giuliano si basa “su una lingua tesa e concentrata, ricca di forme dialettali, di neologismi, di neoformazioni deverbiali e denominali, di suffissazioni modificate. Dovizia è pure nell'aggettivazione, quasi sempre rara e raffinata, e nelle metafore spesso fantasiose”.

Il maestro Francesco Flora [in “Storia della Letteratura Italiana”, quinto volume, Mondadori, 1966] aveva le idee più chiare di tutti. “Slataper, in una prosa fragrante e nodosa, che aderisce come la luce al sasso e all'arbusto e all'odore del sasso, attraverso memorie d'infanzia e di adolescenza fa sentire la sua passione di triestino e di italiano. […]. Le culture varie che confluivano in un paese come il suo, italiane, alemanne, slave, hanno contribuito alla tempera del suo stile”.

Sì: come cantava Cergoly, “Hohò Trieste / Del sì del da del ja / Tre spade de tormenti / Tre strade tutte incontri”: Scipio era l'ultima essenza di Trieste, rinnovata e perfetta. Era la ginestra cresciuta sul Carso.

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Qualche anno fa, così leggeva questa piccola pietra miliare lo storico giuliano Patrick Karlsen, studioso e poeta di sangue norvegese, giuliano e sloveno: “Scipio Slataper, con questo libro, ha consegnato Trieste alla nazione italiana e alla patria del Carso, in un atto d’amore incondizionato e disperato, quanto può esserlo l’amore di una giovane suicida. O piuttosto: con questo libro la Trieste italiana si è guardata allo specchio, e in esso si è scoperta irriducibilmente diversa dalla nazione cui proprio allora si stava offrendo con tutta la sua anima; con l’imbarazzata consapevolezza della propria diversità, il batticuore di non saperla spiegare e di non farsi accettare: di qui l'esitante e pudico vorrei dirvi d'apertura. Carso, Gioietta e Italia sono i termini entro cui si va a fondare la personalità matura dello Slataper poeta; e poeta egli è nel senso più carico, giacché scioglie l’uno nel tutto, e cantando di sé canta il destino di una comunità intera. Il mio Carso, se vogliamo, è un romanzo di formazione: ma di una città” [webzine “Lankelot.com”; webzine “Sconfini”, 2005].

E allora, questo romanzo concludiamolo così, con le parole del povero, grande Scipio. “La storia di Trieste è nei suoi porti. Noi eravamo una piccola darsena di pescatori pirati e sapemmo servirci di Roma, servirci dell'Austria e resistere e lottare finché Venezia andò giù. Ora, l'Adriatico è nostro” [p. 42]. Così sia, così torni a essere.

Preghiamo. “Noi vogliamo bene a Trieste per l'anima in tormento che ci ha data. Essa ci strappa dai nostri piccoli dolori, e ci fa suoi, e ci fa fratelli di tutte le patrie combattute. Essa ci ha tirato su per la lotta e per il dovere. E se da queste piante d'Africa e Asia che le sue merci seminano tra i magazzini, se dalla sua Borsa dove il telegrafo di Turchia e Portorico batte calmo la nuova base di ricchezza, se dal suo sforzo di vita, dalla sua anima crucciata e rotta, s'afferma nel mondo una nuova volontà, Trieste è benedetta d'averci fatto vivere senza pace né gloria. Noi ti vogliamo bene e ti benediciamo, perché siamo contenti magari di morire nel tuo fuoco. Noi andremo nel mondo soffrendo con te. Perché noi amiamo la vita nuova che ci aspetta. Essa è forte e dolorosa. Dobbiamo patire e tacere. Dobbiamo essere nella solitudine in città straniera […] Ma noi, tesi di orgoglio, con il cuore che ci scotta di vergogna, vi tendiamo la mano, e vi preghiamo d'esser giusti con noi, come noi cerchiamo di esser giusti con voi. Perché noi vi amiamo, fratelli, e speriamo che ci amerete. Noi vogliamo amare e lavorare” [p. 105].

Per Trieste. Per il grande Slataper, suo poeta, suo fiore, suo padre.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Scipio Slataper (Triest, Austria, 1888 – Monte Calvario, Gorizia 1915), scrittore e traduttore triestino, sanguemisto. Collaborò con «La Voce» di Firenze. Insegnò Ibsen agli italiani. Fu lettore d'italiano al Kolonial Institut di Amburgo. Fu volontario nell’esercito it nella Prima guerra mondiale. Cadde in combattimento sul monte Podgora, nei pressi di Gorizia, il 3 dicembre 1915. Medaglia d’oro.

Scipio Slataper, “Il mio Carso”, Mondadori, Milano, 1995.

oppure: Rizzoli, Milano, 2000. Introduzione di Giulio Cattaneo. Commento di Roberto Damiani. Oppure: Mursia, 2011. Introduzione di Diego Zandel.

Prima edizione: Libreria della Voce, 1912: XX tra i “Quaderni della Voce”, “raccolti da Giuseppe Prezzolini”, stampati in Firenze.

Prima edizione straniera: in Francia, nel 1921, per interessamento di Benjamin Crémieux.

Approfondimento in rete: WIKI it / Treccani

Gianfranco Franchi, febbraio 2012.

Prima pubblicazione: Lankelot.

Scipio Slataper, ragazzo, aveva terribili mal di testa. Era cresciuto troppo presto. Era eccessivamente sensibile. Era pieno di sogni.