Il male viene dal Nord

Il male viene dal Nord Book Cover Il male viene dal Nord
Fulvio Tomizza
Mondadori
1984
9788804453482

1984. Quarantanovenne, lo scrittore istriano Fulvio Tomizza, triestino d'adozione, pubblica il suo tredicesimo libro di narrativa: “Il male viene dal Nord”, stampato da Mondadori, è il suo secondo romanzo storico; vede la luce a tre anni di distanza da “La finzione di Maria” [Rizzoli, 1981]. Secondo il critico letterario giuliano Elvio Guagnini, “l'operazione che Tomizza effettua presenta esiti e una struttura del tutto originali: la prima parte del libro è uno sforzo di sintesi di tutta la propria esperienza biografica, culturale e di scrittura, precedente. La seconda parte è il ritratto nuovo di un personaggio scomodo della storia europea del Rinascimento, di un umanista che si era adoperato dapprima per la riforma cattolica e quindi, accusato di eresia e scomunicato, aveva avuto un ruolo notevole nella diffusione del protestantesimo [...]” [fonte: introduzione a “Gli sposi di via Rossetti”, Mondadori, 1988; pp. 9-10].

Per Guagnini “Il male viene dal Nord”, insomma, oltre a essere “un penetrante saggio sulle contraddizioni dell'intellettuale lacerato quando si trovi a vivere e a essere diviso tra due realtà, è anche un romanzo, perché il rigore della documentazione non esclude il lavoro creativo, necessario per poter ricostruire ambienti, psicologie, reazioni, rapporti, personalità, ecc., al di là del dato documentale, della testimonianza precisa d'archivio. E ancora, si tratta di un libro penetrante che, al di là di tutte le classificazioni, insegna molto sia su Tomizza sia su Vergerio […]” [stessa fonte].

Il problema è l'eccezionale distanza qualitativa tra le due parti del libro – personalmente ho trovato la prima, quella dedicata alle memorie capodistriane di Tomizza, davvero ispirata, intelligente e degna; e addirittura m'è sembrato, leggendola, di ritrovare il Tomizza che vorrei fosse consegnato ai posteri, quello capace di narrazioni corali, popolari e massimaliste, come già in “Materada” [1960] e “La miglior vita” [1977]. Mentre la seconda parte, quella completamente concentrata su Vergerio, mi è sembrata non soltanto particolarmente mal scritta, tanto che in più di un frangente ho sospettato fosse un adattamento o una traduzione, sciattarella, di diverse fonti, con grottesche interpolazioni ed episodiche e artificiose infiltrazioni dei testi originali, ma – e ciò è più grave – di una noia talmente eccezionale che fatico a ricordarne una simile, negli ultimi quindici anni di letture: forse così prepotentemente palloso aveva saputo essere soltanto l'infelicissimo Umberto Eco de “L'isola del giorno prima”; ma il Vergerio in salsa Tomizza può ambire a scalzarlo, perché è incontrovertibilmente grigio, e disperatamente estraneo a una qualsiasi, pur vaga e amatoriale, velleità artistica.

Il libro ha inizio – letteralmente – “quattrocento anni dopo” Vergerio. E ha inizio con una descrizione di Capodistria, così come conosciuta dall'artista, in gioventù, durante otto anni di studi: la città di Nazario Sauro, “altera e chiusa, suggestiva ma non simpatica”, diecimila abitanti, era “un tessuto umano mantenutosi compatto e quasi uniforme a duecento anni dal tramonto veneziano. Trovarsi a vivere nella cittadina delegata dalla Serenissima a capo dell'Istria, non solo escludeva ogni contatto con gli sloveni spintisi dalle colline di arenaria fin sul bordo litoraneo, ma portava a respingere persino l'effettiva parentela con gli altri paesi della costa, per non dire con le grosse borgate dell'interno, che pure avevano avuto capitani-podestà, tribunali e fondaci veneziani, e sulle torri campanarie ancora ostentavano il leone col vangelo spalancato” [p. 11]. E la differenza con la vicina Trieste era presto spiegata: “Capo corrispondeva inoltre a 'cavo', ovvero termine dell'Istria in faccia all'austriaca e plurilingue Trieste i cui templi di religioni e confessioni differenti mal coprivano, se non rimarcavano, un carattere più agnostico che laico”.

Tomizza veniva dalla parrocchia di Materada, poche anime, a metà strada tra il borgo marinaro veneto di Umago e il retroterra slavo. Dalle sue parti si parlava sia in istroveneto sia in uno strano “dialetto slavo, che nell'incontro col veneto ne invertiva le sillabe e ne faceva saltare le vocali (come quest'ultimo si riappropriava dei termini croati più piani, ritenendoli suoi) […]. Per il suo suono aspro, il corso troppo limitato e tuttavia disuguale, ad adoperarlo davanti a un estraneo ci si vergognava come del velo di terra rossa che nessun'acqua levava del tutto dalla biancheria e che il primo sole di marzo stampava sulle facce degli uomini più esposti alla fatica” [p. 15].

Invece a Capodistria l'aria e il dialetto erano ben diversi: già nei primi, tetri giorni della fine della guerra, “nulla poteva indispettire di più questa gente che l'udire la parlata dei contadini elevata a lingua e pronunciata con una disinvoltura che era una sfida […] e questa animosità esisteva da sempre, da quando nemmeno si profilava l'idea di una nazione jugoslava e l'elemento slavo era rappresentato da timidi contadini distribuiti fuori del giro delle carrozze, che venivano a fare compere per l'intero mese sforzandosi di esprimersi in Veneto” [p. 19].

S'avvicinava, man mano, il disastro: “Oltre a essere slavi, i vincitori della guerra si dichiaravano contro la proprietà e contro la religione, per cui a trovarsi colpiti qui erano proprio tutti: preti e persone pie, commercianti e aristocratici, operai e mendicanti d'ininterrotta tradizione e mentalità italiane” [p. 20]. E in città il clima, in quei giorni d'assurda incertezza sulle sorti della propria terra, s'arroventava. Pian piano, la città stessa cambiava aspetto. Rimosso il monumento a Nazario Sauro, demolite le carceri regie; palazzi privati diventavano pubblici; comunisti distruggevano le mura del ginnasio-liceo e distruggevano tutti i muri più alti, sfregiando l'anima della città. Sempre più persone si trasferivano a Trieste, raccontando con sdegno e rabbia quel che stava succedendo. Sempre più contadini sloveni s'inurbavano. Capodistria stava per diventare “il porto di mare per una repubblica federativa che solo adesso si affacciava sull'Adriatico” [p. 37]: altro che ritorno a Venezia.

E in questo particolare clima Tomizza racconta d'aver assistito, studente, alla riscoperta e alla rivendicazione d'una celebrità cittadina che sembrava poter tornare comoda ai nuovi abitanti: Pier Paolo Vergerio il Giovane, di sangue veneto, sodale di Lutero, protestante, morto in esilio in Germania. Perché gli sloveni volevano improvvisamente cerebrarlo? Per il suo antagonismo con la Romana Chiesa, e per la sua amicizia e per la sua collaborazione editoriale, in Germania, con un prete di Lubiana, Primož Trubar, considerato tra i fondatori della letteratura slovena. Possibile fosse tutto qui? Tomizza era stupito e curioso, ma le cose della vita – l'improvvisa morte del povero padre, la fine del suo vecchio mondo, l'esilio – portarono altrove i suoi pensieri.

Vent'anni e rotti più tardi, esule in Italia da un pezzo, Tomizza ritrova interesse per Vergerio; ma prima di raccontarne la storia ricorda la sua vicenda, e quella della comunità istroveneta di Capodistria, una volta giunta la tragica notizia dell'annessione della Zona B del Territorio Libero di Trieste al regime jugoslavo. Con queste memorie e queste immagini nel cuore entriamo nella buia e polverosa seconda parte del libro, quella dedicata al vescovo capodistriano eretico. Il titolo del romanzo si chiarisce presto: l'omaggio a Geremia, I, 14 [“Omne malum a Septemtrione”] nasconde un riferimento alla Germania della Riforma di Lutero, “nation perversa dove si coltiva inimicizia non solo per il papa ma per l'Italia in genere” [p. 96]. Il Vergerio passerà da una posizione di fedele e ossequioso rispetto per la Romana Chiesa a un'altra perfettamente antagonista. Veniva da una terra particolare, la provincia d'Istria, che paradossalmente, “lontana da Roma, alla periferia dei domini di Venezia e della casa d'Austria, entrambi sensibili alla trasformazione in atto nel Nord, poteva manifestare le proprie caratteristiche distintive e il permanente malcontento soltanto attraverso un salutare contagio dei principii innovatori” [p. 206]. Magari, romanticamente, quella istriana sarebbe stata una ribellione spirituale nata infine per riconsegnarsi a Roma, perché Roma si ravvedesse, tornasse a essere veramente cristiana, convocasse un concilio libero e universale, e finalmente fosse rappresentata da persone degne.

Secondo Guagnini, in questa seconda parte del romanzo appare con chiarezza “il ritratto complesso del personaggio, rappresentato nelle contraddizioni, nella ricchezza di sfumature: un personaggio che vive al limite di culture, nazionalità, atteggiamenti religiosi differenziati dalla storia, messo al centro di un complesso discorso sullo scontro e il possibile incontro tra modelli di sviluppo diversi, mondi e mentalità in conflitto e in contraddizione” [sempre tratto dall'introduzione a “Gli sposi di via Rossetti”, p. 10]; e allora, in questo senso, è abbastanza evidente che Tomizza si riconoscesse, o volesse almeno con convinzione sentirsi simile, a un personaggio che, proprio come lui, era nato gentiluomo della provincia veneta, e già in gioventù aveva imparato a parlare un poco di lingua slava, parlando – altri tempi - coi braccianti del villaggio di Zucole, a un passo dalle saline di Sicciole; quell'infarinatura, pensava Vergerio, sarebbe potuta servirgli, un giorno, nel “rischioso viaggio da Vienna a Costantinopoli” [p. 159]. E invece avrebbe finito per aiutarlo a comunicare e collaborare con un grande intellettuale come Primus Trubar, giovane prete sloveno, protestante, già familiare del vecchio vescovo Bonomo, a Trieste; uno destinato a essere ricordato tra i padri fondatori della futura letteratura slovena. Ma questa è un'altra storia.

Per quanti fossero interessati ad accostarsi alla vicenda biografica di Pier Paolo Vergerio, suggerisco di partire dalle pagine web pubblicate da Istrianet e da Wikipedia; per una diversa e più piana lettura del romanzo, rinvio all'articolo di Luigi De Bellis. Scongiuro quanti non siano specialisti o cultori della materia – non partite da qui per scoprire Tomizza, per carità. Al limite fermatevi non appena ha inizio il romanzo storico. Davvero per pochi.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Fulvio Tomizza (Giurizzani di Materada, frazione di Umago, Istria, Italia; 1935 – Trieste, FV-Giulia, Italia, 1999), scrittore e giornalista istriano. Esordì, come narratore, pubblicando “Materada” nel 1960.

Fulvio Tomizza, “Il male viene dal Nord”, Mondadori, Milano 1984. In appendice, nota bibliografica – completa di opere di e su Vergerio

Prima edizione: Mondadori, 1984. Quindi Mondadori, 1998. 9788804453482.

Approfondimento in rete: WIKI it

Gianfranco Franchi, aprile 2012.

Prima pubblicazione: Lankelot.

La prima parte del libro è uno sforzo di sintesi di tutta l’esperienza biografica tomizziana. La seconda parte è il ritratto nuovo di un personaggio scomodo della storia europea del Rinascimento…