Il carcere

Il carcere Book Cover Il carcere
Cesare Pavese
Einaudi
1948
9788858409510

Primo romanzo scritto da Pavese, “Il carcere” fu pubblicato per secondo, nel volume “Prima che il gallo canti” assieme a “La casa in collina”, nel novembre del 1948. L’esperienza rappresentata ed evocata in questo libro è reale: per amore, Pavese accettò di ricevere corrispondenza clandestina e, una volta scoperto, non tradì la sua compagna. Nel maggio del 1935 fu così condannato per sospetta attività antifascista a tre anni di confino (poi ridotti a dieci mesi), presso Brancaleone Calabro. Al suo ritorno, scoprì dolorosamente che la sua lealtà non era stata ricambiata.

Narrato in terza persona, il romanzo trasfigura l’accaduto. Stefano, appena uscito dal carcere, vive inizialmente l’esperienza del confino come fosse libertà. Si trova in un paese dove si conversa per “occhiate e canzonature” (p. 11), dove le ragazze escono di rado di casa e vanno al mare in una spiaggia appartata, preclusa allo sguardo degli uomini, in un paese infine dove tutto sembra poter essere associato a qualcosa di animalesco: si pensi, in particolare, alle molteplici ripetizioni dell’aggettivo “caprigno”.

Vediamo: la prima volta che Stefano s’accorge della donna che diventerà la sua principale fantasia erotica, Concia, ricorda d’averla vista girare poco prima in paese “con un passo scattante e contenuto, quasi una danza impertinente, levando erta sui fianchi il viso bruno e caprigno(…)”. (p. 14)

Quando beve dall’anfora, sente scendere con l’acqua un sapore terroso, e pensa : “c’era dentro qualcosa di caprigno, selvatico e insieme dolcissimo”. (p. 15). Ancora: quando la sua concubina, Elena, cucina, Stefano osserva: “Nel dolce profumo caprigno che saliva dal fornello, Elena si faceva tollerabile (…)” (p. 43). Non basta: discute delle donne locali con un paesano. “Sembrano capre”, questi gli dice (p. 45). Infine, per eliminare ogni dubbio a proposito delle immagini che infestano la mente del protagonista, vale la pena trascrivere questo breve dialogo con Giannino, a proposito di Concia.

È arrogante?” È una serva”.  Però è ben fatta, a parte il muso”. Dite bene,” – disse Giannino pensoso. È stata tanto nelle stalle e a guardare le pecore, che ha un poco il muso della bestia” (p. 55).

Potremmo concludere che Stefano si sentiva recluso tra animali, sic et simpliciter: in una terra bestiale, dove l’acqua ha qualcosa di caprigno e il profumo del cibo ha qualcosa di caprigno; dove le donne hanno il muso di capra e sembrano trovarsi a loro agio nelle stalle. Stefano in una terra talmente selvatica da meritare d’essere sede di confino: Stefano che non capisce e non comprende “l’altra lingua” e “l’altra cultura”, e percepisce una comunicazione fatta di “occhiate e canzonature”. Il lettore si domanda, a questo punto, a chi fossero realmente rivolte.

Infatti: “Nessuno si fa casa di una cella, e Stefano si sentiva sempre intorno le pareti invisibili. A volte, giocando alle carte nell’osteria, tra i visi cordiali o intenti di quegli uomini, Stefano si vedeva solo e precario, dolorosamente isolato, fra quella gente provvisoria, dalle sue pareti invisibili. Il maresciallo che chiudeva un occhio e lo lasciava frequentare l’osteria, non sapeva che Stefano a ogni ricordo, a ogni disagio, si ripeteva che tanto quella non era la sua vita, che quella gente e quelle parole scherzose erano remote da lui come un deserto, e lui era un confinato, che un giorno sarebbe tornato a casa” (p. 17).

L’estraneo alla vita in patria, non può che essere l’estraneo alla vita nel confino: ogni interazione rimane a livello d’intenzione profonda o di profonda superficie. Stefano ha l’anima e il pensiero rivolti verso casa: e se anche ama quel mare che osserva ogni giorno, in più circostanze ricorre all’aggettivo “anonimo” per connotarlo. Perché? Perché l’estraneo alla vita rifiuta la bellezza, quando s’incarna nella realtà. Si dissolve nel suo sguardo, non sfiora neppure i suoi sensi. Non ha nome: non ha più anima.

Pensiamo all’eros in questo romanzo, per approfondire il discorso ed evidenziare l’analogia. Stefano incontra due donne: Elena, sposata e costretta a prestar servizio come domestica, e Concia, selvatica servetta che dapprima chiama “ragazza dei gerani”, quindi, come di consueto, descrive in termini animaleschi: “è bella come una capra. Qualcosa tra la statua e la capra” (p. 31). Concia, che non può avere o non riesce ad avere, è “capra” (e dunque: nell’immaginario dell’autore cosa mai avrà significato?) e “statua”. Irraggiungibile. Contempla la bellezza perché è idea: se deve diventare realtà, dev’essere una realtà intangibile, inavvicinabile. “Ideale”.

Elena, che lo ama d’amore spesso “materno”, che entra nel suo letto come una moglie e di soppiatto, per evitare i pettegolezzi dei paesani, gli dà disagio (p. 35). Sembra rifiutarla: sembra concedere se stesso, per poi negarsi e rifiutarsi. Non può amarla. Scopriamo perché: “Le immagini di Giannino, di Concia e degli altri, l’immagine del mare e delle pareti invisibili, le avrebbe ancora serrate nel cuore e godute in silenzio. Ma Elena non era purtroppo un’immagine, Elena era un corpo: un corpo vivo, quotidiano, insopprimibile, come il suo”. Pur registrando con la dovuta perplessità l’accostamento dell’amico Giannino alle due donne, qui s’evidenzia il dramma dell’estraneo alla vita: dell’uomo di pensiero inetto alla (e incapace di) interazione con l’alterità.

Quel che è idea, quel che è astratto e – in fin dei conti – spettro o “altro da sé” si contempla, si interiorizza e forse si adora. Quel che è reale, “corpo”, “materia”, pur non “caprigno” come l’immaginario di questo individuo vuole che tutto sia, perde di valore e si sgretola. Un atteggiamento semplicemente allucinato.

Sembra impazzire d’insonnia, Stefano. Crogiolarsi nella solitudine che s’impegna a mantenere, a preservare da ogni intrusione di vite “reali”.

L’insonnia è “l’incubo più vero degli antichi” (p. 63). Nell’isolamento ideale, nel “carcere dalle pareti invisibili”, Stefano rifiuterà a un punto pure di gestire la corrispondenza. Il condono lo libererà dal confino, dal male di vivere non potrà liberarlo più nulla. È un dannato che sembra benedire la maledizione. “Vi sbagliate – disse Stefano – la prigione consiste nel diventare un foglio di carta” (p. 88).

Il carcere” è stato composto tra il novembre del 1938 e l’aprile del 1939, col titolo “Memorie di due stagioni”. I curatori dell’opera di Pavese affermano che il primo nucleo del romanzo può essere riconosciuto in “Terra d’esilio”, un racconto scritto nel 1936 (fonte: “Prima che il gallo canti”, Einaudi 1968).

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE.

Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, 1908 – Torino, 1950) scrittore italiano. Laureato in Lettere con una tesi “Sulla interpretazione della poesia di Walt Whitman”, all’attività di romanziere e poeta affiancò quella di saggista e traduttore e fu tra i fondatori della casa editrice Einaudi.

Cesare Pavese, “Prima che il gallo canti”, Einaudi, Torino 1968.

Prima edizione del “Carcere”: inclusa in “Prima che il gallo canti”, Einaudi, Torino 1948.

Gianfranco Franchi, febbraio 2004.

Prima pubblicazione: Lankelot.