I Shot A Man in Reno

I shot a man in Reno. Storia della morte nella popular song: di omicidio, suicidio, incendio, alluvione, droga, malattia e altre sventure Book Cover I shot a man in Reno. Storia della morte nella popular song: di omicidio, suicidio, incendio, alluvione, droga, malattia e altre sventure
Graeme Thomson
Arcana
2009
9788862310901

Amleto parla di morte, fallimento, indecisione. Pensiamo che sia deprimente? No, sappiamo che Amleto è una delle più grandi opere della storia e che tutti possiamo trarne un'esperienza grande e utile. Ma il rock'n'roll è una forma d'arte molto più giovane. Alcune persone prive di immaginazione, non sorprende, pensano che la musica che parla di temi oscuri e guarda alla morte e alla depressione e ai dilemmi esistenziali debba essere un'esperienza deprimente. Non è assolutamente così. Penso che vedere qualcuno che mette alla prova i confini dell'arte e crea qualcosa di nuovo sia... assolutamente eccitante” (TONY WILSON, 2005. Cfr. p. 9 di “I Shot a Man in Reno”).

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Da “See That My Grave Is Kept Clean” di Blind Lemon Jefferson e “Death Letter Blues” di Son House alle nuove band emo, come i para-alternativi My Chemical Romance e i Jimmy Eat World, passando per Beatles (“Eleanor Rigby”, considerata un vero choc per il 1966, e almeno “Tomorrow Never Knows”), Bob Dylan, Sisters of Mercy e Joy Division: ecce “I Shot a Man in Reno. Storia della morte nella popular song: di omicidio, suicidio, incendio, alluvione, droga, malattia e altre sventure”, affascinante e lugubre indagine sociologica pop-rock firmata da Graeme Thomson, giornalista inglese, ex grande fan dei Cure (p. 40). L'autore struttura la sua analisi in tre blocchi: introduzione, dieci capitoli divisi per argomento (“Musica, omicidio e moralità” o “La morte negli anni Sessanta” o ancora “Il canzoniere della morte”) e un epilogo, costituito da brevi note sui quaranta dischi della morte. Non c'è nessun intento autodistruttivo, in questo studio; né tanto meno vi si nasconde la macchia dell'amore per la morte. C'è – sic et simpliciter – uno sforzo enorme per raccontare, attraverso la musica, la normalità della morte; per raccontare l'importanza di saperla accettare e di saperne riconoscere la naturalezza; per raccontare l'importanza di saper ascoltare musica malinconica o depressiva come fosse un ricostituente, come fosse una lezione di resistenza al male, o come un momento di empatia con un artista sensibile; per leggere la nostra società attraverso decenni di musica leggera; infine, per meditare sulle epifanie del male, del dolore e nella morte nella canzone popolare, e per leggere la società occidentale attraverso di lei.

Oggi, “La musica pop sta ancora faticando per costruire il suo lessico della morte, il suo approccio al tema che dia un senso ai tempi che cambiano. I grandi gesti si frappongono nel cammino: diventa troppo eroica, o troppo sdolcinata, o troppo sanguinolenta, o troppo didattica” (p. 34): sono passati gli anni in cui giovani e meno giovani ascoltavano la drammatica storia d'amore di “Tell Laura I Love Her” (1960), pezzo tanto fortunato da aver spopolato, allora. Secondo Thomson, una canzone come quella serviva a mantenere lo status quo. “Una morte sconsiderata e accidentale venne usata dagli autori di canzoni come mezzo per mantenere la purezza e l'innocenza delle storie d'amore adolescenziali, non ancora toccate dalle complicazioni del sesso. Non potevano usare una cosa tanto forte come l'omicidio. Né poteva trattarsi di cause naturali. Cosa di meglio di un incidente d'auto, del deragliamento di un treno, dell'attacco d'uno squalo?” (p. 53).

Sostiene Thomson che dovremmo immaginare gli anni Sessanta come un 45 giri: “Il lato A è generalmente ritenuto quello che ha prodotto la musica pop più gioiosa, solare e vitale di sempre. Giratelo, però, e troverete un lato B lungo, sperimentale, che ha trascorso molto del tempo a disposizione a contemplare la Fine e a cercare (…) di vedere l'Abisso. All'alba della prima e più enfatica Grande Visione della musica pop, niente era impossibile” (p. 95); e in quel periodo nacque un tipo di musica della morte senza parole, “sensuale”: oggi, quel ramo sotterraneo della musica è una “corrente sotterranea deviata”; allora, era “un oceano” (p. 114). Insomma: nihil sub sole novi.

Il movimento emo, discendente diretto (emanazione semplice?) del dark degli anni Settanta-Ottanta (Cure, Bauhaus, Virgin Prunes, Siouxsie), non va letto e trattato come un pericoloso segno dei tempi, della decadenza delle nuove generazioni o peggio della loro depressione; la fascinazione degli adolescenti e dei giovani per la morte e per il suicidio ha radici antiche (scomodiamo il Werther e la nobile Didone? Scomodiamoli) ed è, semplicemente, una fase della formazione dell'identità; dolorosa, intensa e necessaria. Che esista musica per accompagnarla non è una novità; forse la novità è che esista un'estetica giovanile che accompagna quegli anni malinconici, e l'ascolto di quella musica. Negli emo, secondo l'autore, si riconoscono semplicemente “i principi fondamentali di tutte le precedenti tribù di adolescenti: angoscia, morbosità, introspezione, un rigido codice etico di gruppo travestito da individualismo, innocenza e ingenuità fatte passare per esperienza e stanchezza del mondo, e il desiderio di scioccare portato a livelli olimpionici” (p. 42). Oltre a qualche vestito più scuro, e a un pallore spesso spettrale.

La rimozione della normalità della morte, e la sua spettacolarizzazione, sembrano spingere a una passione per il suo apparente segreto, e per i suoi tabù: è il destino di tutti, prima o poi, e studiarlo deve spingerci, come insegnano gli Eels, a vivere con maggior intensità e pienezza la vita. Dura poco, è cattiva, è dura: ma sa essere magnifica. Basta accorgersene. Il pop serve anche a questo.

Aggiunge Thomson: “Dalle esplorazioni extracurriculari di Lord Byron e Samuel Taylor Coleridge, attraverso le attività dei sordidi ragazzi immagine proto-punk parigini com Arthur Rimbaud e Paul Verlaine, fino ai beat e agli hippie, la nozione di fare scoperte artistiche attraverso il dolore, il pericolo, l'intossicazione, l'infelicità, il masochismo, e irrompere 'dall'altra parte' della coscienza si è rivelata molto seducente. È sanguinata nella pop music, al punto che il mito più grande e potente del rock'n'roll è che in quanto strumento richiede ai suoi partecipanti devoti il sacrificio supremo dell'autodistruzione” (p. 115). Il pubblico giovanile o fanatico sembra desiderare il sacrificio dell'artista, insomma, quasi fosse un tributo sacro alla grande causa del rock (“Muori giovane. Rimani bello”): questa è davvero una strana forma di dedizione al mistero della morte. Più avanti, Thomson spiega meglio: “La pop musica evoca costantemente la morte e la distruzione perché sono concetti che significano vera dedizione alla causa e danno ai fan l'illusione del totale coinvolgimento emotivo che desiderano: morirei per voi. Ma canzoni di suicidio e autodistruzione non sono scritte come una serie di istruzioni da prendere alla lettera o un manifesto. Pete Townshend ha scelto di non morire prima di diventare vecchio. Dopotutto Leonard Cohen non ha messo su l'ultimo spettacolo dopo la nervosa prova generale davanti allo specchio. David Bowie non è morto con Ziggy Stardust” (p. 144). Semplice, no? Una è l'espressione artistica, una è l'esistenza dell'artista.

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Lo scrittore inglese ha le idee chiare sulle “canzoni di perdita”. Le migliori sono quelle “dure come il cuoio vecchio. Non sentimentali, né isteriche o svenevoli o facili: si parla davvero poco di angeli, ci sono pochissime false speranze. Sono saldamente alle redini del loro uso della lingua e delle loro emozioni. Sanno che nulla più sarà lo stesso e non si esimono dal dichiararlo” (p. 205)

E allora ecco un libro da leggere e ascoltare, canzone dopo canzone. Per esempio, così: ritrovando gli ultimi brani scritti da chi stava per morire: “Quando Jimmie Rodgers stava morendo di tubercolosi scrisse My Time Ain't Long; quando Warren Zevon stava morendo di cancro ai polmoni scrisse Keep Me In Your Heart, altrettanto risoluta. Bill Monroe, malato, compose la propria elegia, My Last Days on Earth, al mandolino; quando Freddie Mercury stava morendo di aids compose la riflessione magniloquente The Show Must Go On, una specie di My Way in canotta e baffi, che forse non sarà adatta ai gusti di tutti ma almeno esibiva una consapevolezza priva di ambiguità di quello che lo aspettava dietro l'angolo” (p. 31). Oppure, più semplicemente, concentrandosi sulla top 40 finale. Bella da morire.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Graeme Thomson, giornalista e scrittore inglese. Collabora con “The Observer”, “The Guardian”, “The Herald”; ha scritto per “Mojo” e “Rolling Stone”. Vive a Edimburgo.

Graeme Thomson, “I Shot a Man in Reno. Storia della morte nella popular song: di omicidio, suicidio, incendio, alluvione, droga, malattia e altre sventure”, Arcana, Roma 2009. Traduzione di Chiara Veltri. Copertina di Maurizio Ceccato. In appendice, bibliografia e indice dei nomi.

Prima edizione: “I Shot a Man in Reno. A History of Death By Murder, Suicide, Fire, Flood, Drugs, Disease and General Misadventure, As Related in Popular Song”, 2008.

Gianfranco Franchi, novembre 2009.

Prima pubblicazione: Lankelot.