Gli sposi di via Rossetti

Gli sposi di via Rossetti Book Cover Gli sposi di via Rossetti
Fulvio Tomizza
1986
Mondadori
9788804409281

1986. L'artista istriano Fulvio Tomizza, cinquantunenne, pubblica il suo quindicesimo libro di narrativa: a un anno di distanza dalla raccolta di racconti “Ieri, un secolo fa”, apparsa per Rizzoli nel 1985, vede la luce quello che buona parte della critica considera uno dei suoi massimi risultati artistici, vale a dire “Gli sposi di via Rossetti”. Per il critico letterario triestino Elvio Guagnini, tra i più grandi esperti dell'opera tomizziana, “Gli sposi di via Rossetti” sono “un'opera veramente di frontiera. Non solo per un fatto di contenuti, ma anche perché si tratta di un viaggio dentro l'uomo, le sue frontiere, i suoi strati complessi, dove psicologia, storia, tradizione, utopia, forze e debolezze si intrecciano compattamente” [Introduzione, p. 15].

Giuseppe Bonura, su “L'Avvenire” del 16 febbraio 1986, non aveva dubbi: “Gli sposi di via Rossetti” sono “un'architrave, un muro maestro dell'opera di Tomizza. L'impressione è che questo suo romanzo sia vicinissimo al capolavoro”. Cesare De Michelis, su “Il Gazzettino” del 22 febbraio 1986, confermava le sue buone sensazioni: “Un libro straordinariamente bello, umanamente straziante, moralmente limpido fino alla trasparenza, appassionante e avvincente come un giallo irrisolto e fragile e delicato come un'opera di tesa e vibrante poesia”.

Geno Pampaloni, su “Il Giornale” del 21 marzo 1986, chiosava: “Una tormentosa, tempestosa, tenera e veritiera storia d'amore”. Una storia tormentosa, tenera e drammatica in cui, come rilevava lo storico Elio Apih, ruolo rilevante aveva il destino, in accezione greca: “Non tragedia per la materia del racconto ma per l'afflato che vi si coglie, per la presenza in essa del 'fato' – quello della tragedia classica e antica – come forza suprema e determinante” [fonte, «Metodi e ricerche», N.S., a. V, n. 2, luglio-dicembre 1986, p. 103; rif. Introduzione di Guagnini a “Gli sposi di via Rossetti”, p. 15].

**

Gli sposi di via Rossetti – una via cara a Umberto Saba, che la chiamava la 'via della gioia e dell'amore' – sono due giuliani di etnia slovena; Stanko Vuk, da Merna, Gorizia, e Danica Tomažič, da Trieste. Sono sposi negli anni più delicati per la loro minoranza, in città: quelli del regime fascista, della severa repressione di qualunque ribellione nei confronti dello Stato, della progressiva cancellazione dei diritti per quelle comunità minoritarie che volevano mantenere almeno la diglossia, pur vivendo in territorio italiano, e difendevano diritti basilari – che oggi daremmo per irremovibili, non solo per acquisiti. Sono anni delicati per un'altra ragione: in Venezia Giulia, a quanto sostenevano diversi giudici, stava operando, in previsione della prossima guerra, una quinta colonna jugoslava col mandato di operare con “azioni di propaganda, attentati e sabotaggi, fino a scatenare una vera e propria insurrezione armata. Della situazione avrebbero allora approfittato i comunisti, decisi a costituire una repubblica sovietica slovena” [p. 90]. Erano anni in cui, all'interno delle comunità slave, in città, c'era differenza tra irredentisti slavi e slavi comunisti. Irredentisti slavi, già: una terminologia che può stupire ma che, in considerazione della secolare presenza slovena (e serba) a Trieste e nella Giulia, è eccessiva ma non impossibile, non del tutto insensata.

Stanko e Danica rappresentano le due anime della comunità slovena di quel periodo: Stanko è un giovane intellettuale cattolico, espressione d'un partito cristiano-sociale che ha già avuto fortuna a Gorizia e in Carso, mentre Danica è una giovane comunista, sorella di un grande combattente, l'utopista Pino, destinato a una morte simbolica nelle galere italiane. Stanko è laureato in scienze diplomatiche, a Venezia, ma non ha imparato l'arte della dissimulazione.

Sono sposi ragazzini, pieni di sogni; sono sposi ragazzini con la prospettiva d'una vita serena e divertente, una volta terminato quel periodo difficile, e cupo; perché Danica è borghese, è la figlia del famoso Pepi – quello del buffet di via della Cassa di Risparmio, gloria locale e internazionale sin dal 1897 – e a loro, come coppia, non dovrebbe mancare niente, né benessere né ordine, né prospettiva. Ma non è questa la vita che il destino prepara. Incombe il disastro della guerra tra Italia e Jugoslavia, e poi d'una guerra nella guerra, tra slavi, combattuta sempre meno nell'ombra, e con sempre più sangue.

Perché? Perché non può esserci nessuna compatibilità tra chi crede in una linea laico-progressista, e si riconosce nella Chiesa, e chi crede nel socialismo, e nella legittimità della violenza. Nessuna compatibilità che non sia provvisoria, e comunque funzionale.

Stanko Vuc, scrive Tomizza, era “un cattolico discontinuo ma non leggero e tanto meno ipocrita. La sua incostanza religiosa, dovuta al temperamento tra ingenuo e caparbio, veniva compensata da lealtà e coerenza sul piano civile” [p. 119]; pieno di fiducia nella democrazia parlamentare, e nei principi umani e civili che essa ispiravano, era un combattente sloveno nemico del fascismo e ostile al comunismo. Poteva finire nell'OF, l'Osvobodilna Fronta, il Fronte di Liberazione – con altri liberali e altri cattolici. Difficilmente avrebbe potuto finire tra i partigiani comunisti. Comunisti come il fratello di Danica, Pino. Uno che si si ritroverà in galera con lui – nemico dell'Italia proprio come lui – ma che sognava qualcosa di diverso: una “repubblica sovietica slovena”, “l'unione di tutte le repubbliche sovietiche del mondo”, intrisa della memoria di tutti i caduti del comunismo, e si sentiva pronto a dare la vita per il partito e per il suo sogno. L'avrebbe data: salutando con un beffardo pugno chiuso, poco prima d'essere condannato, una piccolissima parte dei suoi concittadini – quella che condivideva le sue idee.

**

Sin dall'inizio Tomizza racconta che Stanko e Danica sono morti. Sono morti ammazzati, assieme a un amico, in casa, e sui carnefici ci sono tanti dubbi. È un giallo, da sempre, e di quel giallo, nella comunità slovena e in generale nelle comunità slave, vengono date due versioni. Per chi veniva dal partito di Stanko, sono stati i partigiani comunisti, i rossi. Per i comunisti, sono stati i democratici, i bianchi. L'unica certezza è che il delitto è maturato nella stessa comunità etnica: quella slovena. Di Trieste. Una comunità che, in quegli anni, spesso intendeva resistere all'oppressione a tutti i costi: “a costo di eguagliarla in intensità e determinazione. Liberali, clericali, cristiano-sociali e comunisti, ognuno sembrava differente dall'altro come le dita di una mano. Ma stavano maturando i tempi perché quella mano si chiudesse per annullare o nascondere le diversità e divenire un pugno” [p. 46].

Tomizza ci accompagna nel cuore della comunità slovena dell'epoca, e ci insegna a riconoscerne credenze e antagonismi; ci racconta dei Domobranci, i Belagarda, le guardie bianche nazionaliste slovene, nemiche dei bolscevichi, e dei Cetnici, le guardie blu, vale a dire i vecchi reparti monarchici jugoslavi, restati fedeli al governo riparato a Londra. Ci racconta l'amore di una coppia di sposi che potè godersi il matrimonio per una manciata di mesi, e poi si ritrovò a comunicare per lettera, Stanko in prigione; e proprio quando sembrava tutto stesse prendendo la piega giusta, dopo tanti anni, e la libertà fosse a un passo, ha finito per cadere vittima dell'odio politico. Stanko, il capo morale dei cattolici sloveni di Trieste e del Carso, cade per generosità, forse; per difendere un nemico dei comunisti, uno sloveno bianco. Oppure, cade per gelosia: perché sta per unirsi ai partigiani comunisti, e questo per i cristiani è inaccettabile. Stiano come stiano le cose, la sua vita termina drammaticamente, e senza giustizia. Tomizza decide di farne letteratura. A volte, ne fa poesia. Ne fa poesia quando racconta l'estinzione del ghenos: morto il figlio comunista, Pino, condannato a morte come nemico della nazione italiana, morta la figlia comunista, Danica, uccisa come nemica della rivoluzione, il povero Pepi, triste e depresso, perde la vita di lì a poco sotto i bombardamenti angloamericani. A tenere viva la memoria rimane sua moglie, Emma. Così: “Trascorse il resto dei suoi anni raccogliendo lettere, attestati, discorsi, col senso dell'ordine e il rispetto per le cose scritte propri delle donne del Carso educate sotto amministrazione austroungarica. Le era rimasto soltanto ciò che in antico aveva dato nome al suo popolo e ad altri del medesimo ceppo: la slava, la gloria” [p. 216]

**

Rimangono da raccontare diverse curiosità, a questo punto. La prima, è la presenza dello scrittore Boris Pahor tra i protagonisti di questa storia. Già: sembra sia stato amante dell'irreprensibile sposa di via Rossetti quando la solitudine per l'assenza di Stanko s'era fatta insopportabile. E in ogni caso era stato un grande amico della sposa. Pahor, tra gli sloveni di Trieste, era uno che si era fatto notare già in gioventù, mentre frequentava la scuola di teologia in abito talare; borghese, intellettuale, aveva abbandonato quegli studi per dedicarsi poi alle lettere, a Padova. Era parte di un'associazione di sloveni triestini liberali, gli Štempìhari, che “programmavano gite in montagna per sentirsi più raccolti e meno osservati, corsi di lingua slovena […] e non mancavano dell'irrinunciabile giornaletto umoristico né di un coro” [p. 61].

Tomizza descrive l'esile Pahor come un giovanotto con “l'aria da intellettuale nordico, marcata dai radi capelli biondi e dall'occhio azzurro scintillante dietro le lenti”. Accenna sia al suo servizio militare che alla sua drammatica esperienza nel lager di Dachau; infine, ricorda che le bare di Stanko e Dani vennero addirittura provvisoriamente tumulate nella sua tomba di famiglia [p. 215].

**

Quanto invece al romantico Buffet “Pepi s'ciavo”, vale a dire “Peppe lo Slavo”, Tomizza riferisce che il Pepi che appare in questa storia è il secondo Pepi proprietario del Buffet; veniva da una zona alta del Carso, intorno a Villa del Nevoso. Sceso in città sotto regime austriaco, come fornaio (“pek”), aveva comprato infine il buffet del vero Pepi s'ciavo, cioè Giuseppe Klauzič – cittadino onesto e sensibile, Pepi scriveva poesie.

**

Scriveva Italo Chiusano, su “L'Osservatore Romano”: “Tomizza ci consegna questi due sposi con mani delicate, come un dono prezioso e, nonostante alcuni elementi di acciaio, un poco fragile. Sta a noi riceverli con la stessa delicatezza, la stessa rispettosa comprensione”. È un auspicio che vale adesso, nel 2012, più ancora che nel 1986. La materia non è meno incandescente di allora – va trattata con la dovuta comprensione, e con profonda umanità.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Fulvio Tomizza (Giurizzani di Materada, frazione di Umago, Istria, Italia; 1935 – Trieste, FV-Giulia, Italia, 1999), scrittore e giornalista istriano. Esordì, come narratore, pubblicando “Materada” nel 1960.

Fulvio Tomizza, “Gli sposi di Via Rossetti. Tragedia in una minoranza”, Mondadori, Milano, 1988. Introduzione di Elvio Guagnini.

Prima edizione: Mondadori, 1986. Oggi in Mondadori, 1995. 9788804409281.

Gianfranco Franchi, maggio 2012.

Prima pubblicazione: Lankelot.

Una storia dell’altra Trieste…