Fighter

Fighter Book Cover Fighter
Craig Davidson
bd edizioni
2007
9788861231313

“… la gente ha bisogno di soffrire. La gente ha bisogno di sentire dolore e di provare desideri e di essere ferita anche solo per poi potersi aggiustare” (“Fighter”, p. 216).

Mutando la prospettiva – borghese o popolana – il risultato non cambia: nella visione di Craig Davidson, la nuova generazione pretende l’autodistruzione. Rifiuta il destino, e diffida delle predisposizioni naturali; abiura l’essenza rinnegando il proprio ruolo; altera le dinamiche dell’esistenza cancellando il futuro. Consegnandosi al niente. Il corpo, grida questa Letteratura, sta domandando di tornare a essere simbolo e senso; è il corpo invincibile ma distrutto, flagellato dalle ferite, dell’ex rampollo della buona borghesia canadese Paul Harris, divenuto combattente clandestino. È il corpo dell’atleta adolescente Rob Tully che rinnega il suo talento, fracassandosi contro il muro del presente; storpiandosi le mani per non essere più se stesso, per condannarsi a essere altro. Come forse aveva sempre desiderato, fuggendo dalla tradizione famigliare.

Due destini che derivano da due tradizioni diverse. Quella dell’azienda vinicola canadese del padre di Paul, ex povero divenuto capitano d’industria, non dimentico del suo passato ma orgoglioso della prospettiva d’un figlio erede, borghese e agiato. Quella del pugilato del padre, dello zio e del nonno di Rob, poveri che hanno combattuto la miseria scazzottandola, sin quando la promessa d’un futuro diverso e d’una gloria internazionale non s’è incarnata in quel ragazzo. Due destini rifiutati per ragioni diverse. Il ricco e viziato Paul capisce di non essere niente quando viene massacrato di botte, per la prima volta in venticinque anni di vita, da un teppista in un locale, per una donna che non interessava davvero a nessuno dei due. Il dolore e la rabbia innescano un processo totalmente autodistruttivo. Inarrestabile.

Il povero e talentuoso Rob non vuole diventare un pugile. Quando combatterà davvero sarà per vendicare il suo vecchio zio, che Paul ha mandato in coma durante un match. Spaventato dalla sua forza, e dal desiderio di morte del nemico, vincerà e infine, uscendo, smaniando di dolore e di furore, sgretolerà le sue mani, scazzottando qualcosa che assomiglia alla sua ombra.

Boxe clandestina. Il primo pensiero non può non andare a “Fight Club” di Palahniuk. Vediamo di comparare le opere. Palahniuk e Davidson puntano entrambi su un personaggio schizofrenico: qui è l’allucinato Paul, là il sedicente Tyler Durden. Entrambi gli artisti partono da un comune presupposto, ossia la percezione di decadenza, di anomia e di autodistruzione viva nella società occidentale; mentre Palahniuk vira – massimalista – su una violenza rivolta dagli ingranaggi del sistema contro il sistema (musei, locali, borghesia cittadina, metropolitana o meno) e su una ribellione collettiva, ispirata e innescata da Tyler, Davidson ripiega – intimista – sulla possibilità di fare del male soltanto a se stessi, evitando la ricerca delle cause della sofferenza e del dolore. Palahniuk ha una chiara visione delle responsabilità della fatiscenza del nostro tempo: Davidson ha rinunciato a nominarle, i suoi personaggi hanno smaltito qualsiasi sbronza d’idealismo adolescenziale e non hanno intenzione di parlare in prima persona plurale. Vivono una vita che è successa, è capitata e non ha senso, né significati: implodono, e nell’implosione sangue e schegge d’anima e d’ossa feriscono (ma è un accidente) chi li aveva amati.

Diciamo questo: quando Palahniuk scriveva: “Il disastro è un aspetto naturale della mia evoluzione sulla via verso la tragedia e la dissoluzione. (…) Sto sciogliendo i miei legami con il potere fisico e gli oggetti terreni, perché solo distruggendo me stesso posso scoprire il più elevato potere del mio spirito.(…) Il liberatore che distrugge la mia proprietà sta lottando per salvare il mio spirito. L’insegnante che sgombra tutti i possessi dal mio sentiero mi renderà libero” (“Fight Club”, capitolo 14) – stava parlando una lingua molto chiara per il Paul Harris di Davidson. Fino a che punto? Fino a un tratto. Paul non vuole scoprire il più elevato potere del suo spirito. Paul è cosciente d’aver vissuto una vita di plastica e vuole terminarsi combattendo. Dopo aver rinunciato a tutto. La sua carcassa malconcia e piena di cicatrici è un orgoglioso contrappasso. Libero non potrà esserlo se non quando morirà: ma è una morte che non può esistere, la sua condanna è quella del vecchio marinaio di Coleridge. Restare in vita e raccontarsi. E raccontare muto, mostrando il proprio corpo. Questa morte invocata e pretesa non arriva mai.

Piuttosto arriva la coscienza, in questa forma: “Come può un uomo cadere giù dallo strapiombo civilizzato del pianeta, e quanto in basso può arrivare quel pendio? Penso a quegli uomini che ho visto ogni tanto, stranieri senza nome scendere da un pullman della Greyhound all’ora delle streghe, con nient’altro che una borsa di stoffa, uomini senza famiglia o amici, che devono avere trovato la loro strada per la fabbrica che produce senza sosta solo l’impiallacciatura della società civile. Penso come a come ogni fabbrica ha bisogno di forza lavoro.

E spesso penso a come tutto è fluito, così ininterrottamente e correttamente, da lì a qui e da allora ad adesso. Mi meraviglia come la mia via sia stata ineluttabilmente guidata al suo nuovo corso e mi domando: quanto siamo tutti vicini a quei momenti? Quanto vicino al nostro cuore giacciono, dietro quali porte, interno a quali angoli?” (“Fighter”, Prologo, p. 18). La coscienza nasce dalla rabbia: una “collera che montava dal nulla, una furia che gli faceva stringere denti e pugni. Ma senza direzione e monodimensionale e priva sia della complessità che delle giustificazioni dell’ira adulta” (p. 35). E dalla rabbia si propaga.

Secondo artista da comparare (meglio: assimilare) a Craig Davidson è naturalmente l’ex boxer Thom Jones. Ne “Il pugile a riposo”, ad esempio, c’è una prosa claustrofobica e nervosa, “Le luci nere”, terzo e ultimo racconto della prima parte: narra del ricovero in una struttura neuropsichiatrica del narratore, ferito in un incontro semiufficiale del corpo dei marines. Una lesione al lobo temporale ha fatto vedere, per la prima volta nella sua carriera, le luci nere al boxeur. Il testo si distende con grande efficacia, per allucinazioni e crolli verticali del narratore in una realtà esistente soltanto nella sua mente; il racconto dell’abisso della malattia mentale dovrebbe essere ben presente a Craig Davidson. Le allucinazioni del suo Paul sono fondate su metamorfosi animalesche; nel suo stesso immaginario si nascondono bestiari (cfr. epifania del grifone, nel colloquio con un agente di polizia). La capacità di tratteggiare e rappresentare l’adrenalina d’uno scontro fisico è incredibilmente sviluppata in entrambi gli autori: cavallerescamente, Jones ha dichiarato: “Quando si tratta di forza bruta, Davidson è davvero una potenza con pochi rivali”. In principio era Hemingway…

***

Ultime annotazioni. Splendide le pagine dedicate in Davidson al sogno (cfr., ad es., p. 244: “Il pugilato è un sogno, Robbie, un bellissimo sogno. Ma il sogno porta via tutto. Devi nutrirlo con ogni goccia di vita. Come il riflesso del calore sull’asfalto estivo: puoi inseguire quella roba per sempre senza mai prenderla. E un giorno ti svegli e scopri di avere dato tutto quello che hai al sogno e di non esserci più vicino di quanto fossi all’inizio”).

La scrittura dell’artista canadese è così visiva che non è difficile immaginare una prossima traduzione cinematografica della pellicola. Secondo me inizierà così: voce fuoricampo: “Ci sono tre segnali per riconoscere un vero combattente. Non sono quello che si può pensare: niente a che vedere con quanto sia grosso il tizio, o con le dimensioni dei suoi pugni. Una calma, quasi torpore, negli occhi. La sua insistenza a volerti stringere la mano senza sforzarsi di stritolartela. Quando chiede scusa per quello che succederà dopo” (p. 17).

Buona lettura. E buona – futura – visione. Scrittura di carne e sangue, per restituire carne e sangue al presente. Allegoria della decadenza, della nostra prevedibile inadempienza, del quotidiano falò delle nostre vanità; della nostra essenza.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Craig Davidson (Toronto, 19**), scrittore canadese. Ha esordito pubblicando “Rust and Bones”, raccolta di racconti. Questo è il suo primo romanzo.

Craig Davidson, “Fighter”, Edizioni BD, Milano 2007. Traduzione di Marco Schiavone.

Prima edizione: “The Fighter”, 2007.

Gianfranco Franchi, dicembre 2007.

Prima pubblicazione: Lankelot