De America

De America Book Cover De America
Guido Piovene
Garzanti
1953

Cronache, note di viaggio e osservazioni: argomento, la vita degli States negli anni Cinquanta; protagonista e autore, il giornalista e scrittore Guido Piovene (1907-1974), all'epoca inviato del Corriere della Sera. Ventimila miglia al volante tra autunno 1951 e autunno 1952: cento articoli pubblicati, man mano, sul quotidiano, e poi rivisti e adattati per questo volume, originariamente apparso per Garzanti nel 1953.

Si parte da zero: dalla convinzione che gli USA siano un Paese poco conosciuto sia dai suoi abitanti che da noi europei: dalla sensazione che l'America non sia cosciente nemmeno della sua “speciale bellezza”...

“Che l'America sia un Paese tuttora in gran parte inconscio a se stesso, l'ho ripetuto molte volte; vorrei aggiungere che anche il resto del mondo è di fronte all'America in situazione non diversa da quella degli americani. Il mondo contiene l'America, ma la 'sa' poco o male. Per l'europeo l'America è per lo più una somma di nozioni libresche, oltre a un certo numero di giudizi convenzionali, ed in alcuni casi un'esperienza puramente vitale; difficilmente è un'esperienza vissuta della cultura e della mente. Si direbbe che questo enorme essere fisico appartenga in piccola parte, per se stesso e per gli altri, alla sfera dell'intelligenza” (p. XV)

Conosciamo New York e Washington, Los Angeles o la Florida: restano fuori, insegna Piovene, “la parte maggiore, e più americana, di questo sterminato Paese”: quei milioni di yankee per i quali “Europa” e “Asia” sono soltanto parole (p. 5). E quei milioni sono uniti da un vincolo soltanto: l'americanismo. L'americanismo raccontato da Piovene è una strana miscela di generico neo-patriottismo, culto del lavoro e dell'uguaglianza; a dispetto, paradossalmente, delle condizioni della minoranza nera, decisamente “meno uguale”. Erano gli anni Cinquanta, sembrano cinquecento anni fa.

Piovene impara ad amare gli States – per sua diretta ammissione – solo quando lascia le città e comincia la “vita della strada”: “Qui ho sentito l'America – scrive – l'originalità del suo destino, l'errore di chi imposta il problema America sui dati abitudinari (conservatori e progressivi, borghesia e proletariato, libera iniziativa e socialismo). La vita americana, fondamentalmente diversa, sfugge a questi criteri di giudizio” (p. 230). E allora proviamo a sprofondare in questo (difficile, e complesso) abnorme reportage, per scoprire cosa ha osservato lo scrittore veneto, e quanto possa, ancora oggi, a sessant'anni dalla pubblicazione, tornarci comodo. Naturalmente, non potendo sintetizzare le oltre 500 pagine di articoli in una scheda organica, ho preferito – come per il suo successivo Viaggio in Italia - procedere per campionature di passi peculiari, fascinosi, o a mio avviso necessari. Buon viaggio.

La città europea più simile a quelle americane? È italiana: è Milano. “Nel carattere degli abitanti; nel gusto per gli automi e le macchine meravigliose; nel lavoro accanito, e nella credenza che tutti gli altri siano fannulloni; nel modo di vedere il Sud, e di riceverlo; nella self-consciousness per cui gli americani credono che l'America sia l'unico paese al mondo in cui si possa vivere e lavorare” (p. 11). Per Piovene, Milano è “una New York un po' addolcita”. Mentre una Londra deformata in sogno, una “vecchia Londra”, somiglia a Boston. Filadelfia talvolta ricorda Londra, talvolta Bruxelles. Charleston è “un matrimonio tra una cittadina britannica e un giardino orientale; nitida come l'Inghilterra e segreta come l'Oriente”. La Virginia ha una cucina che ricorda quella del Veneto del primo Novecento: entrambe derivano, sostiene Piovene, dalla grande cucina internazionale settecentesca. Per il paesaggio, stesso discorso: è “Il Veneto dell'America”.

AMARCORD. I vecchi che incontra Piovene ricordano, con emozione, “l'acrobatica costruzione del primo grattacielo” a Times Square, New York; già negli anni Cinquanta, non si costruiscono più palazzi più grandi di trentacinque piani. Potrebbero costituire un pericolo per gli aeroplani. Già.

GENTILEZZA. I cittadini di New York si mostrano estremamente cortesi e altruisti: spesso, quando Piovene sembra esitare, qualcuno s'affianca e propone aiuto: “May I Help You?” (p. 11). A detta di Piovene, questo è un esempio di “imperialismo”. Capite da voi che non considera imperialisti gli States. Annoto con perplessità.

INGENUITA'. “L'americano è ingenuo, spesso infantile, ma non semplice. Mosso da impulsi contrastanti, molto spesso è confuso, contraddittorio, impastoiato, e perciò sofferente; anche perché non sa rendersi conto della sua complicazione, meno ancora spiegarla” (p. 43). Quella americana, scrive Piovene, è la confusione dei giovani irresoluti; quella europea, la confusione intellettuale dei vecchi. Come a dire: passerà. Noi ci siamo già passati.

NAZIONALISMO. Le guerre hanno accresciuto l'unità del popolo americano, “con i suoi 48 Stati [oggi 50, inclusi Hawaii e Alaska, N.d.R.] e le sue molte razze”, stimolando l'orgoglio militare (p. 13). Piovene giustifica così la creazione di un potente esercito, dopo decenni di estraneità alle questioni belliche. Non ha nessuna ragione, purtroppo. Non si tratta di patriottismo, né di unità, ma di un prepotente imperialismo che sporcherà di sangue il Novecento.

RISPETTABILITA'. “L'onestà è la migliore furberia negli affari; bisogna essere solidali coi fellowmen; bisogna sempre dire il vero; bisogna lavorare, produrre; chi non lavora non ha posto in America; l'America è soprattutto il paese di quelli che vengono su dal nulla; tendere a un alto tenore di vita è un dovere civile. L'accettazione attiva di questi e di altri principi costituisce la rispettabilità. Il vero scopo della scuola americana è inculcarli, o meglio farli assorbire quasi inavvertitamente” (p. 162). Missione compiuta, a quanto pare.

DISOCCUPAZIONE. Altri tempi: all'epoca, “è scomparsa del tutto”. Soltanto due milioni di disoccupati. “Significa che non vi è più disoccupazione – scrive l'ottimista Piovene – perché i due milioni comprendono i detriti umani, oziosi, minorati, sconfitti, ed i disoccupati provvisori, fluttuanti, che passano da un impiego all'altro, spesso cambiando città; ossia quasi tutti, a turno, in un Paese dove cambiare impiego, in cerca di condizioni migliori, è una pratica abitudinaria” (p. 20). Magari oggi i “detriti umani”, come li chiamava Piovene, sono molti milioni in più; e queste sue osservazioni sulle fortune economiche degli States sembrano macchiate di una triste volontà propagandista. Peccato.

Altrove, asserisce che il capitalismo in America sia “ricco di valvole di sicurezza, di cuscini ovattati, che impediscono gli urti troppo forti” (p. 12). Piovene non intravede rischi. Cinquant'anni dopo il disastro sarebbe stato assoluto, e globale, grazie alle “valvole di sicurezza” americane.

E pensare che già allora c'era chi già denunciava le strategie della “linea del credito”, minacciando future catastrofiche inflazioni, tanto per cominciare. Niente da fare: la normalizzazione dei debiti, e delle rateizzazioni dei debiti, è considerata con naturalezza sia dagli yankee che dal loro apostolo Piovene.

COMUNISMO. Piovene registra una generalizzata, comprensibile “radicale avversione”. L'americano medio aborre il comunismo perché lo giudica “ingiustificato”: “fellonia di pochi che si serve dell'ignoranza di molti” (p. 14) Negli States, allora, non esisteva più il proletariato. Steinbeck sembrava un millantatore, a quanto pare: tutti i guasti sociali erano risolti. Possibile?

I rossi, negli States, erano negli anni Cinquanta soltanto mezzo milione, inclusi i simpatizzanti. Il comunismo era percepito come fenomeno “europeo”, quindi “straniero”: un male, come tutto ciò che veniva da oltreoceano (guerre, tasse e appunto i “comunisti”). Tra gli intellettuali, ad Harvard in primis, era diffusa l'affermazione: “Io non detesto il comunismo, detesto l'imperialismo sovietico” (p. 120) quantomeno confusionaria. I termini, come avremmo scoperto, erano decisamente sinonimici. Non tutti ne sono convinti, nel 2009. Peccato.

EZRA POUND. Piovene va a visitarlo nel manicomio in cui è stato internato dagli americani, a Washington, suprema punizione per la sua adesione al fascismo. Quando si dice: “democrazia”. I pazzi possono uscire nel parco, per camminare e rilassarsi un po'; Pound è costretto a restare sempre dentro. “Mi appare grasso e stanco; le gote gonfie e rosse, la barba grigia e cespugliosa, gli danno un aspetto di fauno malato. La moglie gli siede accanto, con volto patito. Da cinque anni questa coraggiosa donna sta accanto a lui nel manicomio sempre, quando è possibile, sempre sforzandosi di trattenere le lacrime” (p. 155). Ha smesso di scrivere; studia cinese; ha la sua edizione delle poesie di Cavalcanti sul comodino, e una piccola edizione di sonate di Vivaldi, scampati al bombardamento di Dresda. Piovene non si sofferma a parlare di Dresda. Per sentire qualcuno parlare di Dresda, in IT, avremmo dovuto attendere Vonnegut; per capire cosa abbiano significato, la traduzione dei reportage di Dagerman. Curioso.

MEDIA. I giornali statunitensi, nei primi anni Cinquanta, assorbivano due terzi della carta da giornale di tutto il mondo; “Il New York Times, da solo, ne impiega più che l'India e il Pakistan messi insieme” (p. 31). Possibile? Possibile.

TASSE. “Le tasse americane non arrivano ai vertici di quelle inglesi, ma sono utili allo scopo, e pesanti specie per un Paese che fino a Roosevelt era quasi esente da tasse, e considerava questo un aspetto essenziale della sua libertà” (p. 59). L'evasione è punita da processo, condanna pubblica e tremende multe. Mica come in Italia. Che sia una questione svizzera?

AUTOMOBILI. “L'automobile qui corrisponde alle nostre gambe. Non so se si potrebbe andare a piedi di città in città, come gli antichi pellegrini, ma ritengo di no. La passeggiata presuppone l'automobile per recarsi nel luogo adatto a passeggiare. Se dovessi dire che cosa qui mi manca di più, direi: la passeggiata in campagna, solitaria e meditativa” (p. 63). A quanto pare, già allora andarsene a spasso per certe città o certe strade significava essere ribelli, o almeno pericolosamente stravaganti. Fenomeno estremamente americano.

FENOMENI NATURALI. “Qui prendono proporzioni ignote da noi: la forza della natura, e delle sue burrasche, si sente dovunque in America, e questo si avverte anche negli uomini, nella loro politica” (p. 43). E questa è letteratura.

MUSEI. “Fino al 1900 esistevano solo due grandi musei, quello di Boston e quello di Filadelfia: oggi esiste un immenso numero di musei, pubblici e privati” (p. 115). Glossare non serve.

MAMAAS. “Vecchie attrici che raccontano storielle (un po' scollacciate) ed impartiscono i consigli della loro esperienza; simili a mezzane sentimentali e materne, di fronte alle quali il pubblico ha una impressione di riposo, di caldo e di vacanza insieme legittima e licenziosa” (p. 55). Questo è molto americano.

CARAMELLE E CIOCCOLATINI: Gli americani sono i primi consumatori al mondo di caramelle e cioccolatini, negli anni Cinquanta: “innocue droghe per attutire l'urto dell'esistenza”, glossa Piovene (p. 45). Approfondiamo.

DROGHE. “La diffusione delle droghe, specie nei quartieri più poveri, è altissima (…) il vizio è penetrato in molte scuole, tra i bambini e le bambine di dieci-dodici anni” (p. 203). Non mi sembra si possa chiamare “progresso”.

FORTUNA DELLA CULTURA ITALIANA. In primis, è gastronomica: “La migliore cucina è chiamata francese; benché mi sia stato osservato che, mentre a Nuova York si chiama cucina italiana quella dell'Italia del Sud, viene definita francese quella dell'Italia del Nord” (p. 21). Vecchio trucco: oggi, in Italia, è pieno di ristoranti giapponesi: tenuti da cinesi. Curioso.

In seconda battuta, questa nostra fortuna è operaia: gli italiani sono “soprattutto costruttori di strade” (p. 33), a NY e non solo. In terza battuta, è pellicciaia: “In questo commercio pullulano gli italiani. E i milanesi sono quelli che più mantengono le maniere d'origine, e creano immantinente un'atmosfera via Monte Napoleone” (p. 38).

Finalmente è artistica: a Boston, Piovene apprezza la presenza di molte tele di nostri pittori viventi, non sempre celebri, per l'epoca (Carrà, Sironi, Rosai, Campigli, Birolli, Migneco). In una biblioteca di Santa Fé, incontra libri di Dante e Boccaccio. Contemporanei? Mai nominati in oltre 500 pagine. Che mazzata.

I nostri compatrioti sembrano ancora nazionalisti italiani, (p. 74), negli anni Cinquanta; sono estremamente religiosi, e ragionano per clan (“Quanti siete in famiglia?” “Trecento”). Dimenticano le origini quando salgono al potere: allora diventano “più americani degli americani”, esasperando l'orgoglio yankee (p. 111). Oggi forse ci considerano semplicemente i cugini poveri (e stupidi).

DRAMMA DEI NERI. “Harlem, il quartiere dei negri (…). L'isolamento di Harlem si è accresciuto. Quindici anni fa andare ad Harlem era un abituale divertimento borghese, ora, dopo alcuni incidenti, i bianchi non ci vanno, fuorché qualche proprietario di negozio (di giorno), gli agenti delle tasse, gli esattori delle pigioni (…). Un altro mondo. È la luna (…). Sembra di essere in una città dell'Africa, modernamente sviluppata, non ancora raggiunta dagli esploratori” (p. 86). I suoi abitanti non sarebbero bene accetti altrove; gli affitti sono allucinanti; l'ossessione per i bianchi – per diventare come i bianchi – commuove Piovene. I tassisti di New York facevano una distinzione: “Coloured People” e “Right People”: “gente colorata” e “gente per bene”. Per capirci meglio e ultimare il quadro: secondo l'artista veneto, le condizioni economiche e politiche dei neri variano da Stato a Stato, da contea a contea; l'unico elemento costante è la loro segregazione (p. 281).

EBREI. “Nuova York è il massimo centro di concentrazione ebraica: gli ebrei sono due milioni e mezzo, probabilmente anche di più”, osserva Piovene (p. 26). La nuova emigrazione è avvenuta post-tragedie europee; si tratta di un'emigrazione di intellettuali e professionisti estremamente qualificati. Celebrano il Natale con “speciale solennità”: negli States, la festa ha perduto il suo significato sacro, tramutandosi in “modo collettivo di tornare bambini, sogno profondo del popolo americano” (p. 65)

Fermiamoci qui. Non ho parlato delle numerose osservazioni di Piovene sulla cultura imprenditoriale statunitense, né dei suoi rilievi sulle piccole chiese americane, sui Mormoni e sugli Amish; non ho accennato alle sue pagine sulle comunità amerinde ghettizzate e ridicolizzate da wasp e neri, né alla sua emozione di fronte a certe città, come New Orleans. Ecco – lascio questi appunti per quanti, tra voi, fossero interessati. La lettura è non di rado eccezionalmente noiosa e pesante, probabilmente per il nullo fascino che ha esercitato sul lettore contemporaneo, in più d'un frangente, per via della sua ripetitività; il saggione è disordinato e raffazzonato, come prevedibile considerando che si trattava di una collezione di reportage; l'argomento, invece, è sempre di grande centralità. Chi conosce, davvero, le condizioni e la cultura dei popoli confederati nella nazione padrona del mondo? Sospetto nessuno. Qui potrà trovare qualche indizio: datato, ma molto preciso.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Guido Piovene (Vicenza, 1907 – Londra, 1974), giornalista, scrittore e critico letterario italiano, discendente da antiche famiglie aristocratiche. Esordì pubblicando la raccolta di racconti “La vedova allegra” (Torino, 1931). Si laureò in Filosofia con una tesi sull'Estetica di Vico.

Guido Piovene, “De America”, Garzanti, Milano 1953. Contiene 32 fotografie (la maggior parte di Cartier-Bresson).

Gianfranco Franchi, novembre 2009.

Prima pubblicazione: Lankelot.