C’era una volta il Muro

C'era una volta il Muro Book Cover C'era una volta il Muro
Matteo Tacconi
Castelvecchi
2009
9788876153396

“L'Europa centro-orientale non si lascia addomesticare. Busso da tempo alla sua porta, ma non me l'apre mai del tutto. Domani ho l'aereo per Berlino. Inizia il viaggio. Vediamo di colmare le lacune. Tuffarsi nell'89 e provare a stare a Est senza più la solita sensazione di inadeguatezza. Salire sulla macchina del tempo e poi catapultarsi fuori, nel presente. Ricucire, rammendare, dare profondità. Annusare l'odore della vecchia cortina e inquadrare il senso dell'Europa in cui vivo. Germania e Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca e Ungheria. Pellegrinare, seguire una rotta di redenzione, macinare chilometri, scavare, indagare, scoperchiare. Scoprire” (Tacconi, p. 7).

A Berlino in bici, alla Rumiz: così ha inizio il viaggio del giornalista umbro Tacconi, classe 1978, nelle nazioni della vecchia mitteleuropa, ferite da decenni di regime comunista e nel pieno d'un ritorno all'antica agiatezza: il simbolo è proprio Praga, che si può considerare “oriente” solo dimenticando dove si trova Trieste, con discreta miopia. Tacconi – come molti di noi – era bambino quando è caduto il Muro di Berlino, disumana costruzione liberticida; esplora così terre che considerava “est”, per via delle appartenenze politiche e dei regimi di allora, scoprendo – guarda caso – quanto erano e sono rimaste occidentali, e quanto detestino il violento e povero passato comunista.

Dalla sua prospettiva di cittadino e intellettuale umbro, per capirci, Magris di “Danubio” diventa curiosamente un propagandista dell'europeismo: a un tratto, nelle sue pagine su Budapest Tacconi legge “l'ambizione di scardinare i luoghi comuni dell'immaginario collettivo dell'Europa occidentale, all'epoca protesa in larga misura a concepire l'Ungheria come d'altronde ogni nazione della fascia centro-orientale del continente sulla base dei paradigmi ideologici della Guerra Fredda” (p. 240): già, peccato che era stata la Guerra Fredda, peccato che era stata l'occupazione militare sovietica, a spogliare quelle nazioni e quelle terre della loro essenza; violentandola, senza pietà. Essenza che Magris, triestino e mitteleuropeo, ben conosce e sa raccontare: come Kundera, praghese, mitteleuropeo. Altro che Est: quella era Europa: quelli erano i territori degli Asburgo. Da secoli. La russificazione, grazie a Dio, è fallita. “Danubio” insegna.

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Germania. Berlino, autunno 2008. Tacconi scrive che la capitale (dal 1999, ex novo) è viva; è tornata a essere una grande città europea. Passeggia per la piazza principe della DDR, Alexanderplatz, tornata a essere quella immortalata da Doblin: quella della più grande manifestazione di sempre contro il regime comunista, 500mila persone a chiedere la libertà, 4 novembre 1989. Ossi di seppia del passato socialista, l'orologio mondiale (Weltzeituhr) e la fontana dell'amicizia tra i popoli (Brunner der Völkerfreundschaft); tutto il resto, sta mutando: si sta adattando alla riunione, all'antico splendore. Palazzi mutano senso e funzioni con naturalezza. La riunificazione, come confida Peter Schneider, a Berlino è stata un successo; diverso il discorso per l'economia delle regioni ex DDR, ancora ben distanti dai livelli delle gemelle occidentali. La nostalgia dell'Est (“ostalgie”: cfr. film “Goodbye Lenin”) si vive soltanto, e al limite, in difesa di ricordi di giovinezza: oggetti popolari, gadget, bevande (Vita-Cola). Non c'è nessuna voglia di rivendicare la miseria, la paura e la povertà sofferte sotto regime; la ostalgie sembra il più classico amarcord generazionale, nostalgia dell'infanzia e della giovinezza: delle cose dell'infanzia e della giovinezza. Altrimenti non si spiegherebbero i tour a pagamento su una pessima Trabant (un “catorcio”). Tacconi restituisce il ricordo magnifico del giorno in cui è caduto il muro, dell'euforia dei berlinesi, del brindisi alla fine della tragedia; dell'incertezza della stampa della Germania Ovest, sulle prime, dell'incredulità di tutti. S'accenna alla nuova immigrazione – otto milioni di persone: un decimo degli abitanti della nazione tedesca – e alla sua progressiva assimilazione post legge del 2005; e all'incubo svanito della Stasi, polizia politica della DDR. Novantamila dipendenti e centomila informatori (cfr. “Le vite degli altri”): spiarono oltre sei milioni di persone. Terribile. E riemergono i ricordi delle repressioni comuniste: il massacro di Berlino, nel 1953 (oltre cinquanta morti), per mano statale e socialista sovietica; e i massacri di Budapest e Poznan, 1956, Praga, 1968, Stettino, 1970, Radom e Ursus, 1976. Triste elenco.

Lipsia, la “Buch-Stadt”, città del libro, ha guarito le ferite di guerra, dei tanti, terribili bombardamenti, e delle atrocità talebane dei comunisti (distruzione della Paulinerkirche, XV secolo), solo post riunificazione. È stata, nel 1989, la “città degli eroi”: “Da Lipsia partirono le grandi dimostrazioni contro il regime, culminate con la mitica parata antisocialista del 9 ottobre, andata in scena a un mese esatto dalla caduta del Muro. In quell'occasione migliaia di persone invasero le strade. Alcuni parlano di trecentoventimila, altri indicano una cifra più bassa, oscillante tra i novantamila e i centocinquantamila” (p. 62). Quando si dice “popolo ostile al regime”...

Polonia. Tacconi parte da Stettino, nell'autunno 2008. Sbarca in treno. Niente dogana: post 21 dicembre 2007, la Polonia è tornata a essere un pezzo di Mitteleuropa, fine delle odiose lungaggini burocratiche per passare oltre confine. A noi italiani, con l'eccezione di noi giuliani, forse non fa effetto: ma “ai polacchi e agli altri popoli dell'Est, chiusi nelle loro prigioni-Stato durante il comunismo, scorrazzare senza problemi da un capo all'altro del vecchio continente fa tutto un altro effetto. È una rivoluzione” (p. 80). Magnifico rilievo.

I polacchi – come altri popoli mitteleuropei – hanno riscoperto i simboli del loro nazionalismo, “croci, scettri e corone”, ripudiate dal socialismo sovietico; la libertà tornava, e assieme alla libertà tornava la Storia. Quella vera, non quella rossa. Stettino, “degermanizzata” post Seconda Guerra Mondiale con l'espulsione dei tedeschi e “polonizzata” con l'arrivo dei polacchi cacciati dalle regioni a est di Varsavia, incorporate nell'URSS (ricorda niente, compatrioti? Chi ha ripopolato Istria costiera, Fiume, Zara? Per lo più contadini slavi estranei a quelle terre...), si sta lentamente riprendendo. I tedeschi, nipoti degli esuli, s'affacciano in cerca delle loro radici. Intanto, dell'antica germanica gloria poco rimane: un porto – il più grande per tonnellaggio, in Polonia – ché monumenti e palazzi storici distrutti nella Guerra il comunismo non volle restaurarli. Cose che capitano.

Danzica, città ferita dalla barbarie del nazismo e dalla ferocia inumana del comunismo, è stata la culla della riscossa polacca nel 1980: qui nacque il grande sindacato di Lech Walesa, considerato in patria “movimento risorgimentale” (p. 96). Tacconi dedica un bell'approfondimento al significato di Solidarnosc. E si passa a Varsavia, dando sponda all'autore per raccontare cosa ha significato, economicamente, il passaggio all'Europa; e quante crisi si sono succedute, tra Chiesa e Solidarnosc, passando per la questione ucraina, e per i difficili equilibri della nascente EU.

Slovacchia. Niente più gendarmi alla frontiera, post dicembre 2007 e accesso slovacco all'area di Schengen. Bratislava vive una nuova dimensione, “tutta frenesia, ritmo, consumi” (p. 152): finiti i tempi della “democratura” del discusso presidente Meciar. Una coraggiosa politica di riforme democratiche ha reso la Slovacchia appetibile per i capitali stranieri.

L'ex capitale provvisoria dell'Ungheria, teatro di diciannove incoronamenti asburgici tra 1563 e 1830, madre di una comunità slava dall'identità un po' schiacciata dalle glorie austroungariche, si sta risollevando; problematica principe della sua nuova democrazia è la relazione con la comunità magiara ospite d'un territorio slovacco, post caduta degli Asburgo. Tacconi documenta con precisione recenti e poco note vicende di intolleranza a danno dei magiari, auspicando che l'Unione Europea sappia e possa risolvere il problema.

Cechia. La nazione, protagonista d'una eroica resistenza anticomunista sovietica, vive un rinnovato splendore: Praga rientra tra le quindici unità territoriali più prospere d'Europa (p. 210). Diversa sembra essere la situazione delle campagne. Tacconi segnala che il nuovo Stato è ferito dal fenomeno della prostituzione, esploso post 1989, e va sistemando la dolorosa questione dell'espatrio forzato dei tedeschi dai Sudeti, con una coraggiosa politica del dialogo. In clausola, l'autore piomba nel tunnel della questione Kundera-Respekt: ossia, sulla recente scoperta d'un passato di MK da spia comunista. La sensazione di Tacconi è che sia tutto vero, nonostante “On October 14, 2008, the Czech Security Forces Archive ruled out the possibility that the document could be a fake, but refused to make any interpretation about it”, come si legge su Wiki en: ossia, che poco tempo dopo fonti ufficiali ceche hanno dichiarato che il documento su cui si poggia l'accusa potrebbe essere un falso.

Libro da leggere, principalmente per via della grande quantità di notizie e di dati in esso contenuti, e per la buona capacità di Tacconi di sintetizzarli e di divulgarli; assieme, libro da considerare alla stregua di una curiosità letteraria, per via della peculiare prospettiva culturale e regionale del narratore. Nelle ultime battute, raccontando dei tempi nuovi, accenna alla capacità dell'Est europeo di guadagnare terreno: di un futuro amalgama tra i due rami, Est e Ovest. Io sarei tentato di credere – guardando la mia antica cartina dell'impero asburgico – che i vecchi popoli confederati per secoli sotto una sola bandiera stanno tornando, dopo una parentesi insanguinata di qualche decennio, a confederarsi sotto una sola bandiera. L'architettura delle loro città parla chiaro: almeno, laddove s'è già riusciti a sbaraccare gli orrendi casermoni socialisti. E le loro letterature grondano verità storiche che nessuna propaganda potrà alterare; non c'è niente di orientale, ma proprio niente, a Praga, o a Berlino, o a Bratislava. Soltanto la suggestione nostra, che guardiamo da tanto lontano alla loro storia, recente e antica. Quella suggestione fa letteratura.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Matteo Tacconi (Perugia, 1978), giornalista e scrittore italiano, laureato in Scienze Politiche. Ha esordito pubblicando il reportage “Kosovo” (Castelvecchi, 2008). Collabora con “Europa”.

Matteo Tacconi, “C’era una volta il Muro”, Castelvecchi, Roma 2009. Copertina di Maurizio Ceccato.

Gianfranco Franchi, novembre 2009.

Prima pubblicazione: Lankelot.