Centomila gavette di ghiaccio

Centomila gavette di ghiaccio Book Cover Centomila gavette di ghiaccio
Giulio Bedeschi
Mursia
2011
9788842538684

«“Cosa ti ho detto questa notte?” - diceva Brogli. “La situazione è tremenda, siamo d'accordo” - rispondeva Serri. “Ma non bisogna disperare finché siamo vivi”. La temperatura divenne meno rigida, cominciò a nevicare sui cappotti degli alpini, sulle groppe dei muli e sulle coperte dei feriti. La sosta era angosciosa, la fame mordeva tutti, i muli addentavano gli spinosi arbusti del bosco, gli uomini silenziosi guardavano con invidia le bestie pensando all'ultima distribuzione di cibo avuto a Sslawianka. “Quando ci hanno dato l'ultima galletta e scatoletta?” - chiedeva il conducente Pilon, morto di fame. “Il diciassette gennaio” - diceva il sergente Fraita. “E oggi quanti ne abbiamo, Clerici?” “Ventuno”. “Quattro giorni senza mangiare, santa Madonna!” - mugolava Covre [...]» (Bedeschi, “Centomila gavette di ghiaccio”, pp. 309-310).

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Il medico e alpino Giulio Bedeschi (1915-1990) esordì in narrativa nel 1963 pubblicando, per Mursia, “Centomila gavette di ghiaccio”, memoir della sua sofferta esperienza sui fronti di Albania, Grecia e Russia scritta “dalla parte dei morti, che non hanno conti da rendere e posizioni da sostenere”, come annunciava nella prefazione. È davvero così: non c'è niente di partitico, in questo libro. Non c'è ombra di apologia d'uno o d'un altro regime. Non c'è nessun amore per la guerra (figuriamoci) e nessuna sinistra fascinazione per la violenza, o per la morte. C'è soltanto la descrizione dolorosa e triste del macello dei nostri soldati, mandati a combattere in condizioni allucinanti.

L'artista voleva il suo libro fosse un omaggio al sacrificio straordinario di quei nostri soldati che seppero varcare “i limiti estremi della capacità di sopportazione umana oltre i quali s'affaccia, quasi a sollievo, la morte”. Era stato uno di loro. E sapeva che la loro tragedia era stata condivisa dai loro famigliari, a casa. Più ancora, si sentiva fortunato per essere stato uno dei pochi superstiti: e a tutti i caduti voleva restituire dignità, e giustizia. Questo lo spirito del libro. Questa la ragione della sua fortuna, nel tempo.

Centomila gavette di ghiaccio” oggi vanta circa 130 nuove edizioni e traduzioni in francese, olandese, portoghese e spagnolo, a fronte di tre milioni di copie vendute, secondo quanto riferisce la Biblioteca Civica Bertoliana. Il libro incontrò diciotto anni di estenuante ostracismo nell'editoria: tra 1946 e 1963 il manoscritto subì una valanga di rifiuti, derivati – è la vulgata – dalla successiva esperienza repubblichina di Bedeschi. Peccato.

Per provare a capire cosa possa significare la guerra, e cosa sia stata l'allucinante vicenda delle truppe italiane in Russia, e in misura minore in Grecia e Albania, Bedeschi racconta cose al limite dell'incredibile, per noi borghesi del 2010. Ci racconta di soldati parsimoniosi che hanno conservato un tozzo di pane secco, e che con quello combattono la fame, dopo quattro giorni. E più ci s'avvicina alle questioni russe più quel tozzo di pane sembrerà saporito, e miracoloso. Bedeschi ci racconta di soldati feriti, pazzi di sete, che si riducono a bere l'acqua putrida d'un pozzo avvelenato, a rischio di tifo. E delle famose scarpe rotte delle ballate di tutti i soldati, quelle scarpe che ti piagano i piedi mentre marci per miglia e miglia, magari nel fango, magari nella neve. E di tremila soldati morti assiderati in due mattine consecutive, dalle parti di Mosca. “Erano di pietra”. E di soldati morti ubriachi, perché combattevano il freddo polare bevendo cognac a tutto spiano. E di impronunciabili istinti sedati a stento, quando la fame diventa un assedio.

Bedeschi non nasconde nessun particolare sanguinolento o truculento. “Centomila gavette di ghiaccio” ti mostra le ferite più atroci, ti spinge a guardare vene e arterie scoperte, ti fa sentire l'odore del sangue, “graveolente, grasso, dolciastro, nauseabondo” (p. 40), t'avvicina a guardare la materia cerebrale d'un tuo compagno morto. E se non ti basta ti racconta che quel sangue nutrirà i topi e le bestie di campagna, la notte. E tutto questo ti spinge a chiederti se sei cosciente di quel che hai, di quel che sei, di tutti i vizi che la tua società t'ha concesso, di quanto infantile e vergognoso sia stato il tuo lamento per quel che la sorte non t'ha dato. E di quanto sia tremendamente ingiusta la differenza, in questo senso, tra te e quella generazione sciagurata, tra noi e quella generazione sciagurata. Come tante troppe altre.

Bedeschi, proprio come Ugo Pirro nel suo memorabile “Le soldatesse”, non ha paura di raccontare come ci accolsero i greci sconfitti. Ci accolsero chiedendo “psomì”, “pane”. E intanto “supplicando, piangendo, ridendo, rinnegando, proponendo tutti i mercimoni, i baratti e le sozzure; allettando, contaminando, tradendo” (p. 77). Per comprendere a dovere tutti questi verbi, leggere la buona sintesi di Pirro. Ma potrebbe bastare leggerli e soppesarli, e servirsi d'un pizzico di fantasia nera.

I russi sono descritti con analoga semplicità. Ad esempio, in questo frangente si parla di bravi e onesti contadini: “Era buona gente, primitiva e generosa, ma soffocata anch'essa nella vastità della steppa. Adusa da infinite generazioni all'inclemenza del clima e della vita, subiva con supina sottomissione ogni singola vicenda; accettava il male in silenzio, e con un sorriso scialbo coglieva il bene che la sfiorava. Agli italiani sorrideva volentieri” (pp. 158-159).

Insomma, i popoli che allora aggredivamo non ci odiavano. Non ne avevano ragione. Sembravano semplicemente non capire perché avessimo dovuto fare una cosa del genere. Capivano soltanto che avevano fame. Capivano soltanto che volevano fosse finita. Capivano soltanto che gli invasori potevano dare loro da mangiare. Non sapevano ancora quanto fossimo miserabili, quanto fossimo loro simili.

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C'è qualche concessione alla speranza, all'allegria. Chiamiamola così. Succede, ad esempio, quando il fronte greco-albanese crolla. Com'è l'allegria dei fanti? “Semplice e primitiva”, “di gente sopravvissuta”: spumeggia “ritrovando vie e vene che fino a quel punto parevano inaridite dalla sofferenza” (p. 71). La vittoria sembra, in quei frangenti, soltanto “distensione dei nervi esasperati”. Sono descrizioni semplici. Essenziali. E durano poco. Niente.

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Nelle prime battute, il battaglione s'appresta alla partenza per l'Albania, e i soldati subito smettono d'ascoltare la vuota retorica di chi dice loro che “combattere è un privilegio cui tutti ambiscono”, ma intanto se ne rimane a casa. Sono fanti dai venti ai venticinque anni. Sanno che stanno per andare là dove si dice sia “un continuo macello”. E quando, nel porto, stanno per imbarcarsi, s'incrociano con una processione. Una processione che sembra un corteo funebre. È una processione di barelle che esce dal fianco d'una nave. “Passano uomini immobilizzati dal dolore, paiono salme. Sono i feriti, i congelati, gli ammalati che vengono dal fronte greco-albanese. Sguardi vitrei, spenti, senza luce di gioia nel rivedere la patria, tanto la sofferenza disamora e smemora. Tutti uguali, inerti nel bianco avvolgimento di bende e coperte” (p. 6). Il libro ha inizio così, con questo incontro che sembra un monito. Di lì a poco, ci ritroviamo tra i nostri poveri soldati in Albania, in pessime condizioni igieniche, con povere cose, nell'eterno bisogno di materiali da equipaggiamento e da guerra che non arrivano mai. “C'è troppo marcio nell'esercito, ai ministeri, nel partito. Non si può vincere una guerra in queste condizioni”, dice qualcuno.

Quando ci ritroveremo a leggere dei combattimenti in Russia, molto più avanti, potremo provare a immaginare cosa abbia significato “combattere una guerra in quelle condizioni”, e cosa abbia implicato lo spirito di gruppo degli alpini della Julia: “Alpini e artiglieri possedevano e sentivano ormai la linea come una parte del loro stesso corpo: i piedi s'erano congelati nello stare per notti intere sul solo nevoso delle trincee, le mani si erano congelate impugnando l'arma o servendo il pezzo nel terribile tormento del gelo; ma la linea, per il sovrumano sforzo dei difensori, viveva in tutti i suoi recessi, nei buchi, nelle tante, nei rifugi, come nelle postazioni e nei camminamenti, ed era incrollabile” (p. 264).

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Protagonista del libro è l'alter ego del narratore, il medico Italo Serri, ufficiale. È forse la sua competenza e la sua sensibilità da dottore ad aver dato vita a un memoriale così crudo, così credibile, così vivido. La scrittura di Bedeschi è così intrisa di sangue e di verità che non si capisce che senso abbia che l'edizione Mursia sia completa di una gran quantità di foto. Che bisogno c'è di quelle foto? L'accaduto narrato è forse talmente surreale in più d'un frangente che qualche lettore non crede. Non crede che l'Italia abbia mandato a morire decine e decine di migliaia di soldati costretti a una ritirata a piedi a quaranta gradi sotto zero, non crede che quella catabasi sia potuta realmente succedere in quei termini – con i soldati morti di fame, di freddo, di sonno, e nel frattempo accerchiati e catturati e massacrati dalle truppe nemiche. E allora questo lettore può guardare qualche foto per convincersi che sì, è successo. E alla vergogna d'esser scesi a patto con la violenza, umiliando l'umanità, sprofondando in guerra, s'è aggiunta la vergogna d'aver mandato al martirio tanta povera gente. Spesso i loro famigliari non hanno avuto neanche spoglie da seppellire. Non è rimasto niente. È rimasto un libro come questo.

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Un libro sacro agli Alpini. Le nostre penne nere “Erano soldati al pari di ogni altro, gli alpini della Julia; solamente, come tutti gli alpini, portavano uno strano cappello di feltro a larga tesa, all'indietro sollevata e in avanti ricadente, ornato di una penna nera [...]”. La penna, ci insegna Bedeschi, doveva essere d'aquila, ma gli alpini ci infilavano penne di corvo, di gallina, di tacchino: bastava fossero dritte e nere. In pace e in guerra, “gli alpini potevano distaccarsi da tutto meno che dal loro cappello per sbilenco e stravolto che fosse” (p. 87). Perché il cappello fa la vita dell'alpino, dalla caserma fino al fronte. Quale che sia il fronte.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Giulio Bedeschi (Arzignano, 1915 – Verona, 1990), medico e scrittore italiano. Alpino. “Centomila gavette di ghiaccio” fu la sua opera prima. Collaborò con «L'Europeo», «Gente», «Storia illustrata».

Giulio Bedeschi, “Centomila gavette di ghiaccio”, Mursia, Milano 1963. Con 60 fotografie fuori testo e 3 cartine. Oggi disponibile in Mursia, 2007.

Gianfranco Franchi, ottobre 2010.

Prima pubblicazione: Lankelot.