Belli e dannati

Belli e dannati Book Cover Belli e dannati
Francis Scott Fitzgerald
Mondadori
2007
9788804567929

«Dopo quindici giorni Anthony e Gloria incominciarono a permettersi qualche discussione pratica, come chiamavano quei convegni durante i quali, sotto le parvenze di un severo realismo, procedevano in un eterno chiaro di luna. “Non quanto me” insisteva il critico letterario. “Se tu mi amassi davvero desidereresti che lo sapessero tutti”. “Ma è così” protestò lei; “vorrei fermarmi sull'angolo della strada come un uomo-sandwich per informare tutti i passanti”.

Allora spiegami tutte le ragioni per cui mi sposerai a giugno”. “Beh, perché sei tanto pulito. Sei pulito come il vento, come sono io. Ce n'è di due specie, capisci. Uno è come Dick: è pulito come le padelle lustre. Tu e io siamo puliti come i fiumi e il vento. Ogni volta che vedo qualcuno sono in grado di capire se è pulito, e se lo è, di che di genere di pulizia”. Pensiero estatico.

Siamo gemelli!” “La mamma dice” disse lei esitando “la mamma dice che due anime a volte vengono create insieme e... e si amano prima di nascere”» (Fitzgerald, “Belli e dannati”, libro secondo, cap I, “L'ora radiosa”, p. 109. Traduzione di Fernanda Pivano).

1922. Secondo romanzo di Francis Scott Fitzgerald, “Belli e dannati” (“The Beautiful and Damned”) è la narrazione seducente e decadente del canto del cigno d'una generazione giovane, borghese e viziosa: una storia d'amore, raccontata con grande tenerezza e ingenuità, e una sorta di esorcismo al contempo; Fitzgerald, alterando e trasfigurando la sua storia d'amore con Zelda, facendo letteratura del loro stile di vita, della loro passione e dei loro problemi (meglio: dei loro guasti), sperava forse di riuscire ad arginare la possibilità del disfacimento del loro legame. Ne è derivato un libro forse meno considerato di quanto dovuto; a distanza di un secolo dalla prima pubblicazione, sembra rischiare di diventare patrimonio degli aficionado dello scrittore del “Grande Gatsby”, perdendo l'aura del “classico moderno”. Sarebbe un peccato, perché è un'opera viva, dolorosa, affascinante: è dolce e scriteriata, romantica e cattiva; paradigmatica, e generazionale.

I due protagonisti sono Anthony Patch e Gloria Gilbert. Incontriamo Anthony quando è un giovane rampollo dell'alta borghesia statunitense: il nonno ha fatto fortuna a Wall Street, la famiglia vive in grande agiatezza. È il 1913. Brillante e affascinante dandy, il giovanotto ha venticinque anni e tutto il mondo ai suoi piedi; si diletta di scrittura con studiata negligenza, da qualche tempo ha scoperto l'ironia e cerca di farsene scudo; si dedica alle buone letture (“Erewhon” di Butler è il suo pallino) e dice di voler essere sempre pigro, ma con grazia. Una laurea in giovane età alle spalle, Anthony ha già perduto tutti e due i genitori; si direbbe che abbia reagito mostrando grande cura per sé stesso, e per il suo stile di vita. La bellezza e la ricercatezza come strade maestre per anestetizzare il male di vivere. “Ordinato” e “pulito” sono i primi aggettivi coi quali viene individuato, in quel periodo della sua vita. “Pulito” è l'aggettivo che Gloria spende pensando al loro amore, e all'aspetto di lui. È un bel ragazzo con parecchi soldi, e molta voglia di vivere. Una strada spianata.

Uno dei suoi migliori amici è un altro giovane intellettuale, Maury Noble; somiglia a un grosso gatto, scrive Fitz, descrivendoci una figura snella e imponente, calma e sorniona, ammantata da un'aura di predestinazione. Noble sembra servire a confermare la grande qualità di vita dell'ambiente di Anthony: siamo dalle parti della borghesia benestante e intellettuale, quella sinceramente e definitivamente evoluta, che giureremmo destinata all'affermazione, magari a dispetto delle fortune economiche. E tutto sembra suggerire che si stia andando in questa direzione, quando Anthony incontra Gloria. E qui arrivano pagine bellissime, fulcro primo del libro: l'idolatria d'una donna amata – amata tanto che sembra l'unica che si potesse amare. Cosa rappresenta Gloria?

L'involucro che racchiudeva la sua anima aveva assunto un significato: ecco tutto. Era un sole radioso, crescente, che raccoglieva luce e la conservava: poi, dopo un'eternità, la emanava in uno sguardo, nello squarcio di una frase, a quella parte di lui che idolatrava tutta la bellezza e tutta l'illusione” (p. 60).

Come gli era apparsa, la prima volta? In un contesto – meglio: una dimensione – che subito si tinge di magia: “Era abbagliante, accesa; un'angoscia, cogliere la sua bellezza in uno sguardo solo. I capelli, pieni di un bagliore divino, erano lieti nel colore invernale della stanza. Anthony si aggirò come un mago, a trasformare la lampada in un chiarore arancione. Il fuoco riattizzato annerì gli alari di rame nel caminetto” (p. 48). Questa è poesia.

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Fitz parla spesso di “anime”, di “destino”, di “predestinazione”; addirittura, parla di “anime antiche” e “anime giovani”. Gloria è un'anima giovane. Significa che non si è mai reincarnata, in passato; che questa potrebbe essere la sua prima volta da essere umano. È innocente, fresca, seducente; capricciosa, indisponente, presuntuosa. Adorabile: bella e spietata.

Anthony diventa presto geloso. Soffre l'indifferenza di lei, come una bestia: e non importa essere cosciente che durerà qualche minuto. Quei minuti sono terribili. Vanno raccontati. “Più che innamorato di Gloria, era pazzo di lei. La sola cosa che desiderava dalla vita era di averla di nuovo accanto a sé, baciarla, tenerla stretta e condiscendente. Nei tre minuti di suprema, inequivocabile indifferenza la fanciulla si era sollevata dalla posizione alta ma per così dire indifferente che occupava nella sua mente fino a diventare la sua preoccupazione totale” (p. 95). E allora, in quel frangente, Anthony desidera di possedere “l'anima trionfante” di lei: altro non ha senso. Si innamorano, vogliono sposarsi; l'eredità di Anthony prima o poi arriverà, e sarà gigantesca. Intanto, s'arrangeranno. Certo è che lui non sembra avere una gran voglia di lavorare. Lui vuole vivere oziando – amando, e desiderando. Bevendo, e dimenticandosi di sé. I soldi, un giorno, arriveranno. Lei non è diversa. Frequentano feste, si disintegrano con l'alcol, man mano, giocano a farsi del male senza forse averne coscienza. Sperperano quel che hanno, vendono le azioni, si giocano tutto.

Il nonno di Anthony, invecchiando, è diventato moralista. Viene a sapere di tutte queste storie, e non gradisce. Non vuole un nipote dissoluto. Non vuole che succeda niente del genere. Ma è vecchio, non può capire. Non può capire cos'è Gloria. Gloria è una giovane “maledettamente bella”. Irresponsabile, ma stupenda. Non vuole invecchiare, non vuole avere figli, non vuole sposarsi, dice nelle prime battute. Ha voglia di essere pigra, e di avere attorno persone. Persone che “fanno cose”, dice.

Ho voglia di essere pigra e ho voglia di avere intorno qualcuno che faccia le cose, perché questo mi fa sentire comoda e al sicuro; e ho voglia che qualcun altro non faccia niente perché mi possa tener compagnia. Ma non ho mai voglia di cambiare la gente che mi sta intorno, o di interessarmene” (p. 55).

Ha un po' di passato. Le piace pensare di essere stata una “coppa d'amore”, una coppa che passa di mano ma ha lo stesso un suo valore (p. 150). Anthony è geloso, ma le perdona tutto. È così innamorato di lei – e così intenso diventa il loro amore – che tutti gli oggetti che vivono e vedono e condividono assumono un altro senso. Sono sposati da poco, stanno in viaggio; è Gloria che a un tratto, con la voce bassa, roca, sussurra:

Ma non sarà... come i nostri due lettini... mai più. Dovunque andiamo e traslochiamo e cambiamo, qualcosa sarà perduto... qualcosa resterà dietro di noi. Non si può mai ripetere nulla e sono stata così tua, qui...” (p. 140).

Gloria e Anthony sembrano coscienti dell'irripetibilità di tutto quel che stanno vivendo. Del resto, purtroppo, è sacrosanto quel che lei dice di quei lettini in un piccolo albergo. È proprio così. Non si può mai ripetere nulla. I primi anni di matrimonio volano via, nonostante le scoperte dei piccoli difetti di tutti e due; l'egoismo di lei, gli spettri dell'immaginazione di lui, scrittore mancato, inespresso; Fitz dice che è “vigliacco” di fronte a quei suoi fantasmi. Concetto molto affascinante. I primi anni di matrimonio volano via, dicevo, e portano via i soldi, la gioia e l'effervescenza della giovinezza, i nervi di lui – va anche in guerra, e torna irritabile e infastidito e impaurito, debole e povero – e un po' della magnifica bellezza di lei.

C'era il problema dei soldi, sempre più fastidioso, sempre più sinistro; c'era la percezione che l'alcol era diventato praticamente una necessità per il loro divertimento; fenomeno da un centinaio d'anni non insolito nell'aristocrazia britannica, ma vagamente preoccupante in una civiltà che andava diventando sempre più moderata e più circospetta. Inoltre parevano entrambi indeboliti nella fibra, non tanto nei loro gesti quanto nelle loro segrete reazioni alla civiltà circostante. In Gloria era nato qualcosa di cui fino allora non aveva avuto bisogno: lo scheletro incompleto e tuttavia inconfondibile del suo antico orrore: la coscienza. Questa concessione a se stessa coincise col lento declino del suo coraggio fisico” (pp. 226-227).

E così Gloria, più avanti, sognerà di tornare a essere “una ragazzina, di avere qualcuno che si prendesse cura di lei, indulgente ma dominatore, più stupido e più saldo di lei. Le pareva che l'unico amante che avesse mai desiderato fosse l'amante di un sogno” (p. 320). Ha ventinove anni, fallisce un provino cinematografico, si rende conto che un periodo è terminato, e che non è più invincibile, e forse ha perduto l'incanto assurdo della sua bellezza. Ma il loro amore resiste. Resiste a tutto. Deve essere così. Si ritrovano in causa per avere l'eredità che il nonno ha rifiutato; una causa snervante, durata anni. L'esito positivo di questa battaglia arriva forse con troppo ritardo. Troppo, davvero. E intanto assistiamo alle rovine individuali del sogno d'un grande amore: all'ubriachezza necessaria per sopportare tutte le menzogne e le ipocrisie dell'ambiente borghese (p. 338), o forse per accettare che qualcosa di perfetto – la bellezza: il possesso – si possa incrinare. I due innamorati non sono più ragazzi, e non hanno più il controllo assoluto su ogni cosa; non soltanto del denaro, ma dei sentimenti, e della realtà. Lo scotto si paga, e si paga caro. Leggerlo così ben descritto è – in ogni caso – un sollievo. L'arte, una volta ancora, attutisce e piega il male. Raccontandolo lo vince, lo dissuade a ripetersi. Almeno per un po'.

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Belli e dannati” non ha avuto un'adeguata traduzione cinematografica, ed è sinceramente un peccato; trascurabile, stando alla critica, il film diretto da William Seiter nel 1922. Prossimamente (2010) dovrebbe uscire un altro “The Beautiful and Damned”, per la regia di John Curran: il titolo sarà solo un omaggio al romanzo di Fitz, l'argomento sarà la sua magnifica e triste storia d'amore con Zelda. Aspettiamo con entusiasmo, in ogni caso. Probabile che nel film mancheranno passi come questi, che adesso vengo a condividere con voi: sembrano quasi aforismi. Cos'è un classico? “Un classico è un libro di successo sopravvissuto alla reazione del periodo e della generazione successiva. Allora è al sicuro, come uno stile nell'architettura o nel mobilio. Ha acquistato una dignità pittoresca che sostituisce la moda...” (p. 39). Sì, è la sorte che auguro a questo libro, e alla narrativa di Fitz. Già a questo livello era così cosciente della sua grandezza da infilare un richiamo autoreferenziale alla sua opera prima: troverete a un tratto un omaggio a “Di qua dal Paradiso”. Un piccolo classico già allora. Ma torniamo ai nostri aforismi.

E la felicità, cos'è? “è soltanto il primo momento che segue il sollievo da un'infelicità particolarmente intensa” (p. 104).

E la morale della vita? “C'è un'unica morale da imparare, dalla vita (…). Che non c'è morale da imparare dalla vita” (p. 208).

E ostentare l'alcol, che vuol dire? “Era una manifestazione dello stesso istinto che induceva l'uomo a coprire di gioielli la moglie. Il possesso dell'alcol era un vanto, quasi un simbolo di responsabilità” (p. 315).

Infine, la poesia. “La poesia sta morendo per prima. Presto o tardi sarà assorbita dalla prosa. Per esempio, la bella parola, la parola colorita e scintillante, e la bella similitudine oramai appartengono alla prosa. Per attirare l'attenzione la poesia ha dovuto sforzarsi di trovare la parola insolita, la parola rozza, terrena, che non era mai stata considerata bella finora (...)” (p. 341)

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Gran borghese, gran letterato, grande innamorato: cantore della decadenza, della bellezza e della dissolutezza, del vizio e del desiderio, Fitzgerald è una voce splendida e necessaria per interpretare il nostro tempo, e viverlo con coscienza e con pienezza. Non invecchierà: s'adatterà piuttosto al futuro, come niente fosse. Perché ha fatto arte dei sentimenti, e non delle cose; e ha fatto arte di quel che conosceva e aveva vissuto, non di quel che l'ideologia domandava, o il mercato chiedeva. Fitzgerald è un esempio di dedizione e consacrazione alla letteratura che va tenuto ben presente. Scintilla.

Io, una volta ancora, qui prendo, saluto e omaggio uno che per la letteratura, e per l'amore (della vita: d'una donna: del piacere) ha dato tutto. Con stile.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Francis Scott Key Fitzgerald (St.Paul, 1896 – Hollywood, 1940), scrittore americano, vissuto tra New York e Parigi.

Francis Scott Fitzgerald, “Belli e dannati”, Mondadori, Milano 1954. Traduzione di Fernanda Pivano.

Prima edizione: “The Beautiful and Damned”, Scribner's, New York, 1922.

Gianfranco Franchi, agosto 2009.

Prima pubblicazione: Lankelot.