Bambino bruciato

Bambino bruciato Book Cover Bambino bruciato
Stig Dagerman
Iperborea
2011
9788870910452

È un romanzo doloroso e commovente, straziante e acuto, scritto con uno stile vitale, fluido, mai scoraggiante. È un romanzo spirituale, senza la zavorra di credi o ideologie. È un romanzo, infine, che nonostante l’inettitudine umana, nonostante le avversità, i vuoti incolmabili, le verità inaccettabili, dice sì alla vita. Nonostante tutto” (Simone Buttazzi).

Stig Dagerman aveva certo letto molto quando ha scritto Bambino Bruciato, e aveva certo letto gli autori giusti. La sua rivolta è chiara e cosciente. È la rivolta contro i limiti della società che l’uomo edifica, delle convenzioni di cui si fa prigioniero e che lo piegano e in cui si specchia la sua imperfezione. Ma è anche rivolta, ben più generale e faticosa, contro i limiti stessi della condizione umana. L’esistenzialismo di Dagerman ha, se così si può dire, la freschezza della prima bruciatura” (Goffredo Fofi, “Introduzione”, p. 11).

In morte della madre: in morte della fede nella verità, in morte della giovinezza. Elegia dell’innocenza, epinicio del suicidio: espressione dell’innesco dell’autodistruzione, della coscienza del divario tra l’io puro e l’alterità contaminata dalla menzogna e dalla mediocrità. In morte del senso, e dei significati dell’esistenza – di quei significati che sembravano essere veicolati da tutto quel che aveva vita, e in realtà soltanto letterari potevano essere e nella dimensione letteraria continuare ad esistere. In morte dell’amore, celebrando la passione e incontrando la macabra e amara gioia del tradimento – esperienza che non può avere senso per il puro, a meno che non si tratti d’una prima, consapevole rinuncia a se stesso (e dunque: promessa di renitenza al futuro, rivendicazione della negazione della patetica egida della sopraffazione del presente: non resa, ma consegna alla dannazione). In morte della luce, e della speranza: in morte della memoria, e dell’inconsistenza e dell’inaccettabilità della diversità: s’intona il canto del non è, del ritorno sul binario delle norme che reggono e governano le interazioni sociali, per schizzarle del proprio sangue e maledirle riconoscendone la meschinità. Bruciare e scintillare di grazia e grandezza letteraria: l’arte come motore primo e perfetto per sbarazzarsi dell’accettazione dei compromessi, della mascherata dei ruoli; infine, della carcassa – che sempre pesa, e davvero nessuna zavorra può avere chi è puro: tu, estraneo all’umanità, uomo perfetto.

Bengt, venti anni, studente di Lettere e Filosofia. Ha pianto tutta la notte. Consanguinei e conoscenti lo lasciano solo: non per rispetto, ma per paura. Le persone hanno paura di chi piange (p. 22). Cerca la mano della fidanzata, Berit. Trova un guanto freddo e bagnato (p. 30): segno e simbolo d’una donna mediocre e vuota e anonima. Lei appartiene ad un uomo che non potrà amarla – potrà solo prenderla, e dirottarla altrove, nell’attesa dei suoi ritorni. Bengt legge dei versi sulla tomba della madre. Strappa il foglio in piccolissimi pezzi (come fiocchi di neve cadano adesso sulla lapide: intatti).

Soltanto adesso capisce. Ed è duro da capire. Avanzare di un passo e poi piangere. Ancora un passo, per sapere che questa è la fine. Un fazzoletto premuto sugli occhi e poi la certezza che le proroghe sono finite. Non più annunci mortuari da formulare. Non più inviti da scrivere. Nessuna poesia da pensare nelle notti insonni. Nessuna consolazione e nessun rifugio e nessuna fine e nessun principio. Rimane soltanto una certezza, vuota come una tomba, che laggiù giace sua madre, ed è morta, irrimediabilmente perduta, irraggiungibile dalle preghiere e dai pensieri, dai fiori, dalle poesie, dalle lacrime e dalle parole. E, con il fazzoletto premuto prima su un occhio e poi sull’altro, piange per il vuoto che ha dentro, piange senza poter smettere, perché il vuoto ha più lacrime di qualsiasi altra cosa” (p. 36).

La storia della morte del futuro di Bengt nasce qui, dalla morte della madre: ed è raccontata alternando capitoli narrati in terza persona ad altri narrati in prima; si tratta di lettere, spedite – con eccezioni rilevanti, come il lettore scoprirà – a se stesso. Suo padre, Knut, è un falegname che ama la bellezza e vive di menzogna. Non piange la morte di Alma, perché nasconde un nuovo amore. Gun.

Bengt non può accettare Gun come nuova madre. Nessuna donna potrà più essere sua madre. Bengt non può accettare la bellezza di Gun con indifferenza. Non è la timida e opaca Berit: è una creatura sensuale e lasciva, è fuoco – e non fatuo, ma disperatamente attraente e vivo e dolce.

Gun può solo essere desiderata: deve essere posseduta. Bengt è così fedele alla madre che sogna, una notte, di vestire il suo abito (p. 85): il nemico della menzogna deve lavare via l’affronto del padre alla memoria di lei. La vede nel sorriso di tutte le donne. Deve distanziarla dal presente, inabissarla nella memoria, e sacralizzarla. Vendicare chi ha oltraggiato il passato e rinnegato l’amore.

Io non amo la fedeltà perché è bella, ma perché è indispensabile. Chi tradisce una persona la uccide lentamente. Perché senza fedeltà quella persona naufraga. Naufraga nella vergogna, che è una palude profonda, e nell’odio, ancora più profondo” (p. 54).

È la storia d’un contrasto tra padre e figlio che sembra insanabile e soltanto qualche goccio d’alcol, nel tempo, riuscirà ad attenuare; sono mondi che non comunicano più, se non nell’alterazione delle percezioni e nell’obnubilamento della coscienza di sé. È la storia d’un figlio che non vuole tradire la madre, e per non tradirla tradisce il padre e la compagna: non ha più fiducia in niente, e in nessuno. Tradendo s’uccide. “C’è solo una persona al mondo di cui ti puoi fidare e questa persona sei tu. È un pensiero orribile, ma dopo averlo pensato per un po’ ti accorgi che è anche un pensiero tranquillizzante. Finché puoi fidarti di te stesso, non tutto è perduto. Tutto è perduto solo quando ti accorgi che non ti puoi fidare neppure di te stesso. Per questo bisogna essere leali nei propri confronti in ogni istante, non lasciarsi ingannare da se stessi. Per questo è così importante essere consapevoli di quel che si fa, e l’unico modo per raggiungere questa consapevolezza è l’analisi minuziosa dei nostri sentimenti e delle nostre azioni” (pp. 159-160).

Sigilla l’innocenza la letteratura, e d’un immenso dolore questo rimane. Un bambino è una falena. Che, fuoco nonostante, è destinata a bruciarsi per curiosità, fame di conoscenza. Coerenza. Il fuoco è più di un canto di sirena: è un imperativo categorico. Non un capriccio, né una debolezza. Bruciarsi significa interiorizzarlo, più che esserne puniti. Questa è la storia di un ragazzo che vive il dolore per la scomparsa della madre come una scintilla, e decide di buttarsi nel fuoco che ne scaturisce” (S. Buttazzi).

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Stig Dagerman (Älvkarleby, 1923 – Stoccolma, 1954), scrittore, poeta, saggista, sceneggiatore svedese. Diresse “Storm”, giornale della gioventù anarchica. Debuttò pubblicando il romanzo “Il serpente” nel 1945.

Stig Dagerman, “Bambino bruciato”, Iperborea, Milano 1996. Traduzione di Gino Tozzetti. Introduzione di Goffredo Fofi.

Prima edizione: “Bränt barn”, Nortstedts Förlag, Stoccolma, 1948

Gianfranco Franchi, febbraio 2005.

Prima pubblicazione: Lankelot.