Balaklava. Una confessione

 

Non ho mai creduto all’uguaglianza. Quando ero piccolo, presto sopraffatto dalle prime premurose sovrastanti epifanie di madre ingiustizia, sospettavo l’uguaglianza fosse una formulazione chiassosa e retorica, poco più che uno slogan. Propaganda; quel quadro di Delacroix, o giù di lì. Crescendo ho scoperto che quel dogma francese è stato periodicamente vandalizzato e sfigurato dalle ideologie e dalla pubblicità; brutalizzato e sgualcito, negli anni mi sono spinto a considerarlo, al limite, una sapida e malinconica provocazione, o meglio un livoroso paradosso; tutta la mia vita è stata quindi un faticoso riconoscimento delle diversità, delle differenze, delle atipicità, dell’individualità, dell’opportunità o meglio dell’inevitabilità della disuguaglianza (è forse questo uno dei segreti più complicati da interiorizzare, che non c’è niente di giusto e di saggio in tutto ciò che discende dal dogma dell’uguaglianza, niente; è un’iperbole sentimentale, questo sì; è un’inclinazione, penso tra le più nobili). E cosa mi ripete il daimon da stamattina? “Dipingi i maestri, così capisci”.

Allora questa sarà una galleria prodigiosa, l’incontro col monstrum, nell’accezione originaria. E questa galleria prodigiosa non vorrò dedicarla agli scrittori – forse è troppo facile o forse è troppo presto, o mi innervosisce; vado a dedicarla ai lettori, ai lettori straordinari, o meglio a quei geni della letteratura che in questi 43 anni ho incontrato, rimanendo più o meno prima stupefatto, poi ammutolito, poi provocato (cos’era quell’incontro, era forse una sfida, uno scontro, una prova? Dovevo dimostrare qualcosa, pareggiare almeno, cercare di… quali erano le parole da dire, quale era lo sguardo da mantenere, quale era il tono dovuto?)… e poi ammirato e meravigliato, infine abbagliato (e poi rovinosamente demoralizzato, per un lasso di tempo indefinibile; e infine eroicamente motivato, pronto a una nuova Balaklava). In questo momento della mia vita penso che se avessi ceduto – se mi fossi arreso: se mi fossi assuefatto alla mortificazione, all’inadeguatezza, all’amarezza confortante della coscienza dell’inferiorità – sarei diventato un altro. Magari mi sarei trasformato in un giallista o in un cinico direttore commerciale, o (chissà), sarei diventato uno di quelli che non vedevano una differenza tra gli editori zombie, gli sputtanati e una Adelphi sotto Bazlen, o magari una Skira.

SERGIO AMANZIO F.

Aveva una biblioteca eccezionale. Ovviamente mi sembrava un labirinto, per via degli scaffali; in realtà prendeva grossomodo uno studio e un corridoio. Archiviava i libri senza pensare a come farmeli consultare; genericamente teneva storia da una parte, filosofia dall’altra, narrativa e poesia tutta insieme; ogni tanto si divertiva a disporre i libri in ordine di acquisto (comprava dove fiutava; libreria Tilopa, bancarelle, mercatini. Era un segugio, fiutava letteratura dovunque andasse, capiva i francesi quasi fosse uno di loro, sbracava stranamente sugli italiani; aveva gli austriaci nel sangue e sugli americani prendeva cantonate siderali). Mio padre intellettualmente mi umiliava e mi spaventava molto facilmente – invecchiando mi sono accorto che non potrò mai pareggiare le sue competenze su certe questioni perché non mi appartengono (cosa cercavi davvero in Saint Just, padre mio, tu?) o non mi infiammano (tieniti dunque sia Spriano che Pisanò) o mi esasperano e mi stomacano (i totalitarismi) o non hanno a che fare con la mia vita (le questioni sindacali). Invece, in certi altri contesti, adesso penso che se potessimo conversare avremmo ore da giocare al gioco delle bibliografie, delle liste e degli elenchi, dei libri mancati e di quelli che dovranno rimanere, come già cominciava a capitare attorno ai miei ventiquattro, ventisette anni. Furono anni fertili. Fantasma da dodici anni, ogni tanto mi appare in sogno, per lo più ramingo per il quartiere o al limite assorto a contemplare le nostre varie e pittoresche vicende, magari da un terrazzo o da un corridoio. Non mi parla più di libri e non legge giornali (forse da morto si è stancato. Strano).

Mi ha iniettato Drieu La Rochelle e Guido Morselli con precisione chirurgica, nel momento giusto, disintegrando la mia scrittura di ragazzo e riposizionandola.

ANDREA C., E.T.: UN POMERIGGIO DA BIBLI

Quando uno studia Lettere Moderne, sta tra i venti e i ventuno anni, viene da letture sterminate e caotiche e anima una rivista letteraria, a un tratto il futuro sembra una prateria e la storia della letteratura un gioco da ragazzi, e tutta quella polvere che sta sui manuali del Flora, del Ferroni e via dicendo ti viene voglia di prenderla a manate, perché tanto presto stingerà e si rivelerà per quel che era. Poi, a un tratto, appare un nuovo totem. Libreria Bibli, via dei Fienaroli, Trastevere; un posto che aveva qualcosa di fiabesco, aveva anche un pergolo per prendere un tè o un aperitivo, e una sala per le presentazioni da almeno cinquanta o sessanta posti (comodi, senza contare quelli che stavano in piedi, come tendevo a fare io; perché scalpitavo, io). Presentavano, credo, un libro di Tommaso Pomilio, alias Ottonieri; alla destra del padre sedeva il suo evangelista Andrea, a sinistra la sua controparte, E.T., quello delle “Istruzioni per l’uso del lupo”. Che ci facevo là in mezzo, ragazzino com’ero? Ottonieri mi aveva degnato di consigli (lancinanti ed esatti) quando ero “giovane poeta” e fiutavo Campana e mi scornavo con la prosa lirica, e quindi adesso volevo ascoltare e volevo capire dove andava lui. Dove andasse Ottonieri forse non l’ho mai capito (ma voleva andare?), so che di quel giorno ricordo i suoi due magi. Andrea C., una lezione di letteratura, quindici o forse venti minuti di monologo strepitoso, avrà nominato trentacinque scrittori e cinquanta titoli, a un certo punto ho allargato le braccia senza nemmeno rendermene conto, probabilmente ho pensato in romanesco (“mortacci”) e ho iniziato un severo, spietato esame di coscienza che forse non è terminato nemmeno oggi, ventitre anni dopo. Ho capito quel giorno che se un giorno Andrea C. (era professore, all’epoca? Escludo; era già un monumento, era una bestia)… se un giorno Andrea C. avrebbe parlato di me così allora voleva dire che ero concluso (che avevo finito o che ero finito: kaputt!) e che probabilmente non ero passato invano. E.T. invece mi aveva riallineato perché parlava dei libri come io avrei parlato dei panini col salame ungherese (all’epoca ero ghiotto delle rosette col salame ungherese). Sembrava un fornaio che invitava a riconoscere la differenza tra il Lariano e il Roscioli (aveva la canottiera?). Non mi ero sentito in soggezione e non mi ero sentito a disagio (e a ripensarci adesso, che strano equivoco; “Qualcosa di scritto” è un libro che rimane e all’epoca doveva già essere stato almeno ipotizzato; perché non mi aveva abbacinato?).

A riprova che non sono ancora concluso o che forse come autore non ho capito un klinz, Andrea C. non mi ha mai nominato, nemmeno di striscio, nei 4-5 anni in cui ho pubblicato narrativa, preferendo contemporanei che a volte ho giudicato suoi amici (ha fatto bene? Guardati nella coscienza, Franco, e tu non hai quella fraternità o quei sentimenti?), altre volte invece ho giudicato “esatti” (e il bello è che di loro se ne è occupato per tempo, nel tempo: Pincio, Permunian, Tuena, la Babsi Jones; et al.). Andrea C. invece mi ha nominato come critico, qua e là, sebbene io non abbia né cattedra né giornali (non ho casa, o come mi diceva quel bolognese “non ho mai trovato una famiglia”, carattere difficile, sangue bastardo, politicamente equivoco anzi sospetto, etc).

Quando – negli anni – mi sono sentito bravo, o quasi stanco o esausto delle mie ricerche di autori “difficili”, laterali o esordienti, rimossi o fraintesi, mi è bastato pensare di essere suo contemporaneo per ricordarmi che sono soltanto a metà strada e che quel pomeriggio, da Bibli, a 20 anni, io mi credevo di essere qualcosa e invece ho capito che ero ciò che sono.

SIMONE B.

Quando uno comincia a collaborare davvero con le case editrici, dimostrando timidamente di saper (poter) riconoscere la differenza tra una collana e un’altra e tra un catalogo e un altro, e di saper scegliere dove va messo quel libro e quando (e così via), e quando uno inizia a fiutare prima del tempo o prima degli altri il libro giusto da pubblicare o da restituire, senza nemmeno mettere piede a Milano, e a un tratto pensa che l’editoria sia un contesto in cui non serva particolare genio, servano piuttosto competenza, mestiere, socialità (spinta) e fortuna (soldi)… invece a un tratto appare una casa editrice con un catalogo d’avanguardia – dal niente, o almeno così sembra, a chi sta distante; e così d’avanguardia appare che adesso più di una scelta è ancora d’avanguardia, soprattutto americani e inglesi (l’estetica dei libri è stupefacente, è nuova e avvincente. Modernissima; e il tiro delle collane è ben calibrato). Una mia vecchia amica lavora col loro demiurgo, e mi racconta cose superbe e spaventose di lui – che è di un’intelligenza disumana, che umilia gli arroganti e disintegra i mediocri con mezza battuta, che quando fa i colloqui legge con velocità disarmante l’intelligenza e la sensibilità di chi ha di fronte, che forse decide subito da come ci si guarda con chi ha a che fare. Che è un uomo eccezionale, che sa incenerirti. Abbastanza per incutermi reverente rispetto e un pizzico di soggezione. Il destino gioca a rinviare il primo incontro. E quando ci incontriamo la prima volta forse ero ancora troppo giovane e probabilmente impreparato. Qualcuno ha detto che il maestro si presenta quando l’allievo è pronto. Abbastanza vero. Con me si è ripresentato, più avanti. Non so perché non siamo poi mai riusciti davvero a lavorare insieme, adesso, probabilmente destino stupido ed editoria italiana marcita e collassata, o forse insolenze del karma (stupidità di chi fa gli investimenti? Oppure non siamo abbastanza governabili o peggio non siamo caratterialmente accettabili, in certi frangenti, in certi ambienti? Non sono presentabile, non siamo presentabili? Non c’entriamo niente? Non serviamo a niente?).

Simone B. è uno dei pochi maestri dell’editoria, un uomo rinascimentale, traduttore d’eccellenza, anima di collane rimaste esemplari (saccheggiate e imitate, tanto, dappertutto, ancora adesso: quanto). Quando parla di libri tendo a stare volentieri zitto e ad ascoltare. Una volta, sono stato seduto vicino a lui e ad Andrea C., e per uno scherzo del destino era proprio da Bibli. Cosa presentavamo non ricordo. Ricordo il senso di meraviglia di essere là, dall’altra parte della sala, seduto vicino ai miei due fari letterari d’adolescenza e giovinezza. Mancava mio padre e poi eravamo tutti (l’infanzia è un’imboscata). Meritavo d’essere là? Appartenevo a qualcosa, a qualcuno? Cosa facevo là? Ero degno di essere là? Tu che mi guardavi dall’altra parte della sala come mi hai giudicato, ti ho rovinato, ti ho confuso, ti ho illuso? Che ci facevo là in mezzo? E perché poi ho continuato a non appartenere a qualcosa? Non ho meritato? Non merito? Non sono abbastanza?

Ogni tanto io e il totem Simone B. parliamo di piante e di etruschi. Di piante, e di etruschi.

IL DOPPIO ALBUM DI ARTURO M.

Quando uno ha tenuto un centinaio almeno di eventi o di conferenze, tra presentazioni, commemorazioni, restituzioni, sperimentazioni, profanazioni, a un tratto si può domandare se ha senso sentirsi così a proprio agio in certi contesti, anche difficili; così a proprio agio che ci si sente ormai difficili da disarcionare, assuefatti alla complessità (alle ostilità, alle provocazioni, alle smancerie, alle ripetizioni, alle fanfaluche, alla slealtà della noia, ai tempi morti; alla necessità di sapere cosa ripetere e cosa mai più ripetere), assuefatti a una complessità sostanzialmente normalizzata. A un tratto uno si può domandare se si può andare oltre: se c’è un’altra strada. La risposta è che al di là di quei limiti c’è un maestro e al di là di quella strada c’era il sentiero delle sue lezioni; c’è un vecchio comparatista che parlando di Paul Valéry, del “Porto sepolto” di U. e di non ricordo chi altro (Boitani e la sua fatica ellenica e iniziatica, forse) un giorno ci fece sentire il mal di mare, perché in quella sala di via Torino le finestre erano piccole come oblò, e ciò che lui raccontava non era soltanto critica letteraria e non era soltanto poesia, era teatro ed era vicino alla magia, una magia ancestrale, primitiva. Tanti miei compagni e soprattutto tante compagne avevano paura di quel professore incantatore, esteta: aveva fama di nevrastenico, aveva fama di provocatore (c’erano tutta una serie di aneddoti sui suoi esami; io li trovavo divertenti). So di aver frequentato due anni le sue lezioni, cercando più volte di capire dov’era il suo segreto, perché durante certi monologhi capitava qualcosa di meccanico, era come se andasse in trance, una trance letteraria (era infestato?); posso dire, adesso che ho circa 25 anni di più, che ho osservato fenomeni simili nei mistici, in certi politici dei vecchi partiti di massa o in certi don, capaci a un tratto, durante il monologo (spesso: chiudendo gli occhi o fissando un punto, altrove, “in lontananza”, come in lontananza)… durante il monologo, dicevo, capaci di andarsene (letteralmente) e di sospendere chi ascolta in un’atmosfera indefinibile, a volte praticamente scolpita dalle parole pronunciate. Io credo che quello sia il momento in cui si sta a contatto col Logos – con la scintilla che ha fatto eterne le nostre anime e forse così trascurabili e passeggere le nostre vite.

Poco prima di laurearmi, ho sognato che il professor Arturo M., virtuoso comparatista, era in realtà un cantante; avevo comprato un doppio cd che conteneva una sorta di suo “best of”, una confezione tipo le vecchie Ricordi, quelle nere (erano le Ricordi?). Dovrei avergli domandato perché non ha mai scritto versi o racconti o romanzi, allora – la risposta mi aveva deluso (perché mi sentivo artisticamente vivo e volevo sentire una risposta da artista: presumo). Credo adesso che il totem Arturo M. fosse parte di altro e ben differente e distante circuito – a giocare al gioco di Wittgenstein, di Meister Eckhart, di Borges. Quegli anni erano nomi famigliari anche per me, poi mi sono distratto; adesso li posso evocare, se guardo dove devo forse li so ancora evocare. O forse con certi mondi non ci si deve giocare…

Gianfranco Franchi, aprile 2021