Apologia del critico militante

Apologia del critico militante Book Cover Apologia del critico militante
Giorgio Manacorda
Castelvecchi
2000
9788876151521

La coscienza estetica, come la coscienza morale, è disarmata e non può combattere: solo la critica è armata e combattente” (Croce)

Accolti gli auspici della perduta, ma non rimossa Croce della letteratura italiana, sostiene il professor Manacorda che la critica militante sia l'attività laica per eccellenza. Da monaco, o da guerriero: ma senza chiesa, e senza esercito. Il critico non ha una religione con santi e gerarchie: è al di là della storia della Letteratura. Il suo partito è la poesia. È un mediatore tra cielo e terra. Il critico militante è solo, e decide della vita letteraria (della vita, in assoluto) e della fortuna di un'opera. Senza mezze misure. È “assoluto” in accezione Latina, ossia “sciolto”: non risponde ad altro che non sia la sua coscienza. Respira con il testo, se il testo è poesia. È colui che “legge, inventa e quindi media, dando un nome alle cose, così facendole esistere nel mondo: se la poesia fosse ineffabile non ci sarebbe, non sarebbe nella vita – sarebbe come una meravigliosa scultura creata da uno speleologo perso nelle viscere della terra e mai più ritrovato” (p. 57).

È un “sogno inappagato dell'umanità: è un androgino. Deve essere maschile e femminile” (p. 39). L'artista è Prometeo: crea per fare i conti con Dio, con il critico militante (p. 40). Senza critico non c'è artista.

Il critico militante sbaglia, ma è inappellabile. Perché il gusto è “un organo innato che funziona automaticamente”, “un talento”: “è per il critico ciò che l'ispirazione è per il poeta” (p. 16). È il prodotto di una civiltà, non il servitore del lettore o delle istituzioni (p. 31). Per lui, il pubblico non esiste. Ha problemi di identità, il critico militante, perché è amato “rapsodicamente e per brevi periodi”, ritrovandosi odiato per il resto dell'anno (p. 38).

Sostiene il poeta Manacorda che i filologi siano il contrario dei critici militanti. Perché la loro disciplina s'avvicina alla scienza. Pretendono la verità. “La filologia applicata alla letteratura contemporanea”, scrive, “è una pura mistificazione”. Estremamente godibile, devo dire.

Sostiene Manacorda che lo Zeitgeist, lo spirito del tempo, non sia necessariamente un'ideologia. Perché “lo Zeitgeist colora ogni nostro pensiero senza che noi lo si sappia, è la luce che ci circonda e si riflette nei nostri occhi, e ci fa vedere solo certe cose e ce le fa vedere solo in un certo modo. Per questo, un'idea della letteratura non è inevitabilmente un'ideologia (...) È un concetto avulso dall'idea di progresso, esprime solo una temperie culturale” (p. 30).

Reperita fortunosamente una copia di questo libello, ho passato almeno qualche ora di divertimento autentico, lieto di perdermi e di disorientarmi tra i richiami a Fortini, Croce, Lukacs e letteraria compagnia cantante. Mi sembra che la qui tentata sintesi delle posizioni del Manacorda serva a ribadire un aspetto principe e fondante: è possibile fondare la critica letteraria del tempo nuovo nella consapevolezza del prepotente potere romantico dello Zeitgeist, bandendo definitivamente i crismi marxisti che hanno fracassato l'intelligenza e la libertà della critica novecentesca. Mi sembra sia possibile restituire alla critica la sua originaria, necessaria autonomia e indipendenza rispetto ai dogmi, alle chiese, ai libri sacri – rossi o meno che siano – e la sua obbligata dipendenza e derivazione dalla creazione artistica e da essa soltanto.

La solitudine magnifica del critico militante, solo con la sua coscienza e la sua visione del mondo, di fronte a un'opera nuova, è un momento divertente, delirante e determinante. È un'operazione alchemica ed empatica, a ben guardare; a un passo dalla magia. Letteratura pura. È la ricostruzione di un dna, e un posizionamento nel tempo e nella storia di qualcosa di apparentemente unico e “assoluto”. È una prova di coraggio e di intelligenza: di comprensione dello spirito del tempo, e di appartenenza a movimenti, correnti; di derivazione da opere, e movimenti; di discendenza da editor, ed editori.

Apologia del critico militante” è un'opera sacra e buffa, per chi come me crede che esistano solo letterati, e non critici o romanzieri o poeti; o ibridi critico-poeta, poeta-romanziere. Io non vedo differenze e distanze. È un gioco di ruolo che non può annoiare: perché il letterato autentico è a tuttotondo.

È opera sacra perché ribadisce, con eroica incoscienza, la natura (almeno ideale) dell'identità e della missione di chi dovrebbe essere al di là delle parti, e delle richieste (del pubblico, dell'editore, dell'autore); è buffa perché inverte, con convinzione, la relazione tra dei e prometeo, per rivendicare libertà e creatività d'un'arte che non è scienza e scienza mai potrà essere.

È una dichiarazione di guerra. Un attacco frontale. Da leggere, e (privatamente) meditare. Infine, ricreare.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Giorgio Manacorda (Roma, 1941), poeta, critico letterario e germanista. Cura “L'annuario di poesia” per Castelvecchi. Docente di letteratura tedesca presso l’università della Tuscia di Viterbo e La Sapienza di Roma.

Giorgio Manacorda, “Apologia del critico militante”, Castelvecchi, Roma 2006. Collana etcetera, 5. Prima edizione: 2000, come introduzione a “La critica militante” a cura di Paolo Febbraro, IPZS.

Gianfranco Franchi, dicembre 2008.

Prima pubblicazione: Lankelot.