Antistoria degli italiani. Da Romolo a Giovanni Paolo II

Antistoria degli italiani Book Cover Antistoria degli italiani
Giordano Bruno Guerri
Mondadori
1997
9788804463962

“Nella storia 'bene' e 'male', 'positivo' e 'negativo', 'giusto' e 'sbagliato' non esistono, rappresentano solo semplificazioni beatizzanti e demonizzanti, applicate dalle generazioni successive” (Guerri, “Antistoria d'Italia”, p. 5).

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Chi siamo noi italiani? Secondo Giordano Bruno Guerri, storico senese classe 1950, nasciamo dalla combinazione di Romani e barbari: su queste due componenti si fondò la nostra nuova anima, celebre “non più per i successi militari e l'efficienza amministrativa ma per le capacità mercantili e artistiche, lo spirito di avventura, la faziosità innata, la disonestà cronica, la caratteristica di privatizzare il pubblico e pubblicizzare il privato” (p. 3): molto più avanti, post Cateau-Cambrésis, avremmo perfezionato “la furbizia meschina, la morale multipla, la vuota apparenza, il fatalismo rassegnato, la falsa religiosità, il servilismo” (p. 169), rinforzando un classico individualismo qualunquista e pressapochista. Il fatalismo cominciammo a svilupparlo di fronte ai disastri del V e VI secolo: è la nostra “caratteristica peculiare”, un atteggiamento “rassegnato e rinunciatario che ancora oggi ci distingue” (p. 34). E tuttavia siamo capaci di grandi atti di eroismo: sappiamo dimostrare “intelligenza, tempismo, inventiva, coraggio, orgoglio, ironia, spirito di indipendenza. Tutte doti magnifiche, rare e preziose in un popolo, ma che prive di un progetto collettivo, di una strategia globale, portano a successi momentanei e irrisori” (p. 83).

“Antistoria degli italiani. Da Romolo a Giovanni Paolo II” (1997) parte da un presupposto relativamente estraneo alla nostra cultura: gli italiani non sono discendenti dei Romani, piuttosto hanno cercato, sempre, di stabilire parallelismi con la grande tradizione Romana: Guerri propone, man mano, tutta una serie di abbinamenti affascinanti, a suggerire che ad esempio Ettore Fieramosca e i suoi ripetevano l'antica lezione degli Orazi e dei Curiazi (p. 7), che Pietro Micca era un neo Orazio Coclite (p. 7), che Piero Capponi teneva ben presente la lezione di Furio Camillo (p. 8), e così Amatore Sciesa con Attilio Regolo (p. 8) e probabilmente Garibaldi con Cincinnato (p. 218). Insomma: “un fantasma si aggira nell'ultimo millennio della storia d'Italia: l'identificazione fra gli italiani e gli antichi romani” (p. 6). Probabilmente, deriva dalla nostalgia per la perduta, irripetibile grandezza.

Quali sono le differenze tra noi e gli antichi padri Latini? “I Romani avevano il senso dello Stato e lo spirito di popolo. Gli italiani sono, per eccellenza, ostili allo Stato e pronti a divisioni di ogni genere. I Romani erano concisi, razionali, buoni amministratori. Gli italiani sono prolissi, lunatici e pessimi amministratori. I Romani non erano artisti, gli italiani sì, ci accomuna soltanto la capacità letteraria (…). Gli italiani fondarono la loro fortuna nel commercio, che i Romani detestavano. I Romani furono gli inventori del diritto e della legge (…) Gli italiani sono maestri di diritto ma con risultati spesso discutibili (…): come l'incredibile groviglio di leggi” (p. 9).

Come se non bastasse, ci siamo impadroniti dell'insulto che gli invasori francesi ci hanno storicamente rivolto, “Furbo”: abbiamo deciso che incarnare l'astuzia e la malizia del ladro fosse una cosa buona e giusta. “Furbo”, scrive Guerri, viene dal francese *fourbe” (“ladro”), da “fourbir” (“ripulire le tasche”, p. 190): è l'aggettivo col quale caratterizziamo, spesso, chi sa fare carriera a dispetto di tutto, e chi sa restare al potere o guadagnare denaro più in fretta.

Rispetto ai Romani, non abbiamo ereditato il metodo di distruzione del nemico: “Uccidere i superstiti, bruciare le città e spargere sale sulle rovine in modo che, anche simbolicamente, niente vi potesse rinascere” (p. 14).

Cosa ci ha uniti, dopo 1400 anni, dalla caduta di Roma al Risorgimento? “Non era stata la religione della patria, la fedeltà allo Stato, o una comune presa di coscienza, erano stati fatti concretissimi come la miseria, la fame, l'aumento del prezzo del pane, il superamento dei limiti di sopportabile sofferenza” (p. 256).

Nessuno di noi se sente italiano se non all'estero, scrive Guerri, pure se tendiamo sempre ad aggiungere “romano”, “veneziano”, “milanese” per farci riconoscere. Secondo lo storico, dobbiamo alla nostra radice comunale il nostro cosmopolitismo: appena fuori dalla città, siamo in terra straniera, esattamente come nel Medioevo comunale (p. 71). In quei tempi, tra un Comune e l'altro c'erano non più di 40 chilometri: chi usciva dalle mura per 15-20 km andava in territorio straniero e ostile: eccettuati i periodi di Fiera, come ricorda Luzzatto, uscendo dai confini ci si esponeva alla perdita degli averi o della libertà (p. 69).

Tutto chiaro, sin qua? Avanziamo. Prima di passare al gran nemico degli italiani, secondo Guerri – la Chiesa – può essere divertente campionare tutta una serie di giudizi ricevuti da illustri artisti e intellettuali stranieri, nel corso degli ultimi secoli. Potrebbe aiutare il neofita dell'italianità a orientarsi nella nostra essenza. Cocteau: “Tutti gli italiani sono grandi attori tranne quelli che recitano in teatro” (p. 190); Shelley: “Gli uomini sono a malapena uomini; sembrano una tribù di schiavi stupidi e inflacciditi... Gli italiani moderni appaiono come un popolo miserabile, senza sensibilità o immaginazione” (p. 188); Montesquieu è ancora meno tenero: “Tutti sono a loro agio eccetto quelli che lavorano, quelli che hanno delle industrie, quelli che coltivano le arti, quelli che hanno delle terre, quelli che fanno del commercio” (p. 176); Lawrence: “Odio e detesto gli italiani. Non discutono mai, si limitano a ripetere frasi pappagallescamente, alzano le spalle, reclinano la testa da una parte, e agitano le mani. Come può regolarsi con loro un onest'uomo?” (pp. 167-168) e Ruskin: “Detesto gli italiani in modo indicibile... sono il teschio di Yorick pieno di vermi, dell'umanità non rimane che il fetore” (p. 167). 

Godetevi intanto quest'ultima perla anglosassone: c'è una storiella molto diffusa secondo la quale Gesù era italiano: “Non solo visse con la famiglia fino ai trent'anni, ma credeva che sua madre fosse vergine e che suo padre fosse addirittura un Dio” (p. 10). Questa visione è parte della nostra considerazione all'estero. Esecrabile.

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Chiesa. Pur avendoci protetti dai barbari, ci ha lasciati per secoli “disuniti in balia di padroni stranieri” (p. 4); diseducandoci “ai valori civili e laici, alla razionalità e alla critica su cui, prima con Lutero e poi con l'Illuminismo, si sarebbe costruita nei principali paesi europei la nozione stessa di Stato Moderno” (p. 4). E a proposito di “protezione dai barbari”, Guerri ricorda – notizia poco nota, devo dire – che Leone I non seppe fermare Attila: “In realtà Attila tornò indietro – dopo essersi fatto versare molto oro – perché l'Italia era resa inappetibile dalla carestia e dalla malaria, i suoi soldati morivano di dissenteria e l'imperatore d'Oriente, Marciano, aveva minacciosamente attraversato il Danubio invadendo il territorio unno. Forse nella ritirata unna giocò anche la superstizione: Attila sapeva che Alarico era morto subito dopo aver saccheggiato la città del pontefice” (p. 30).

La Chiesa s'è servita del Latino, per secoli, perché era una lingua ormai incomprensibile: “Il suo mistero aumentava il mistero della fede (…). Ai governanti italiani il latino serviva per uno scopo analogo: rendere il popolo addirittura incapace di capire la lingua del potere. Ma se il Vaticano non avesse adottato la strategia di fare del latino la lingua di Dio, le autorità civili non avrebbero potuto usarlo tanto a lungo nei documenti ufficiali (…). Il grande potere della Chiesa ha creato una grave stortura nella società italiana creando complessi d'inferiorità nei parlanti e uno iato insanabile tra parlanti e scriventi” (p. 179).

Guerri indaga il culto dei santi: “La Chiesa ha vinto solo in parte la sua battaglia contro le superstizioni laiche, e solo in parte è riuscita a sostituirle con il culto dei santi: gli italiani sono un popolo di cattolici pagani che, oggi, dà lavoro abbondante a 200mila religiosi, a 150mila maghi professionisti e a poche decine di santi venerati in redditizie basiliche meta di pellegrinaggi e circondate da venditrici di souvenir più o meno benedetti. La maggior parte degli altri santi viene ignorata in quanto scarsi ‘produttori’ di grazie. Attraverso una precisa politica della santità, da secoli la Chiesa sceglie i santi in base all’orientamento che vuole dare ai fedeli: nel Medioevo erano di preferenza re e regine, perché re e regine avevano potere sulla religiosità popolare; in epoche ritenute particolarmente corrotte potevano essere esempi di castità e povertà (sono pochissimi i santi sposati” (p. 50; cfr. anche pp. 48-49).

Spiega cosa significassero le frequenti “monacazioni forzate”, da cui nacque la fantasia tutta italiana di avere rapporti sessuali con una suora: “nessun rispetto della clausura, celle fatte costruire e arredate personalmente, nobildonne con seguito laico, feste e pratiche sessuali (…) I monasteri erano la meta prediletta dei donnaioli, felici di avere a disposizione amanti così poco mobili” (p. 134; cfr. anche più avanti per documenti d'epoca).

Deplora l'istituzione del primo “Indice dei Libri” (1559) per mano vaticana, raccontando che da allora sino alla fine del secolo “fu vietata la diffusione dell'intera produzione di sessanta editori stranieri, e le biblioteche private e pubbliche vennero purgate anche di libri come il religiosissimo 'De Monarchia' di Dante, colpevole di propugnare la separazione del potere temporale da quello spirituale. I libri sequestrati erano messi al rogo” (p. 153). Tutto ciò mise in ginocchio, tra l'altro, la fiorente industria editoriale fiorentina, come racconta lo storico. Guerri accenna all'applicazione della censura preventiva, alla forma di difesa della “dissimulazione onesta”, e infine congettura:

“La persecuzione culturale ha lasciato segni profondi nell'inconscio nazionale: non si spiega altrimenti perché, per la maggior parte degli italiani, il libro sia un oggetto con cui non si desidera avere confidenza, un segno di casta o addirittura di pericolo incombente e sicura malvagità” (p. 154)

Toccante la commemorazione del “piccolo Lutero” Sarpi, scomunicato e aggredito più volte, e ferito a pugnalate. Dichiarò: “Agnosco stilum romanae curiae” - a suggerire che entrambi gli attentati erano stati ispirati dalla Santa Sede (p. 158).

Infine, si prende gioco delle “guerre sante”, spiegando che per la Chiesa ogni guerra risorgimentale fu ingiusta (!): solo dopo il Concordato del 1929 lo Stato italiano rientrò nelle grazie della Chiesa, e le guerre ricominciarono a essere 'giuste': “quella d'Etiopia, per convertire un barbaro popolo africano; quella di Spagna, per salvare il cattolicissimo paese dal pericoloso rosso; infine la Seconda Guerra Mondiale, dal momento in cui le armate nazifasciste tentarono di schiacciare l'anticristo annidato in Unione Sovietica” (p. 230).

Micidiali le pagine sulla condotta della Chiesa nel Novecento – sino a Giovanni Paolo II; vedrò di accennarne più avanti, parlando dell'unico momento storico in cui gli italiani sono stati uniti, e si sono sentiti popolo, prima di stare seduti di fronte al televisore (p. 183): sotto il fascismo.

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“Antistoria degli italiani. Da Romolo a Giovanni Paolo II” è un libro ricchissimo di notizie, aneddoti o osservazioni davvero affascinanti e interessanti. Prima di passare a discutere degli ultimi capitoli, dedicati al fascismo, campiono qualcosa qua e là, per stuzzicare il lettore.

Vado in allegro disordine. Quale fu la prima manifestazione di genio artistico sul territorio italiano? Guerri non ha dubbi: è la statuetta di bronzo etrusca, conservata a Volterra, nota come “L'ombra della sera” (nome scelto da D'Annunzio). “I tratti del volto – scrive – hanno un'ironia, una consapevolezza, una vita spirituale ignota all'arte antica” (p. 12).

Cos'era l'amore all'italiana? L'amore omosessuale, “vizio greco”: ne parlava tutta Europa. Accadeva nel Cinquecento e nel Seicento. Nel 1526, a Roma c'erano 50mila abitanti e 4900 prostitute: ossia, una ogni cinque donne. Dovevano soddisfare i pellegrini e un clero “celibe ma non casto” (p. 123). 20mila di quei 50mila abitanti furono massacrati dai Lanzichenecchi, di lì a poco. I 30mila rimasti corrispondevano, più o meno, agli abitanti del 556, in epoca di assoluta decadenza (p. 41) Al termine del Rinascimento, in “Italia” eravamo in 13 milioni.

Per chi volesse scoprire come la cortigiana Lucrezia di Clarice scommetteva sul futuro papa, segnalo la lussuriosa nota a p. 141.

Qual era il vero titolo del “Milione?” In nota, a p. 91, scopriamo che “Milione” era il soprannome dato a Marco Polo in famiglia – è un'aferesi di “Emilione”. Il vero titolo era “Il libro di messer Marco Polo cittadino di Venezia, detto Milione, dove si raccontano le meraviglie del mondo”; e proprio come “Le meraviglie del mondo” fu a lungo conosciuto.

Quanti erano gli analfabeti in IT nel 1910, cento anni fa? Appena il 38% della popolazione.

D'Azeglio disse – tutti lo sappiamo - “Fatta l'Italia bisogna fare gli italiani”. Ma Guerri aggiunge che proprio D'Azeglio considerava gravissimo il trasferimento della capitale a Roma, e scrivendo a un amico aggiungeva: “Unirsi ai napoletani è come andare a letto con un lebbroso” (p. 222). Curiosamente, questo a scuola non ce l'hanno insegnato. In compenso, abbiamo spesso studiato l'antico Editto di Caracalla, che estendeva la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell'Impero, come un atto postitivo: secondo Guerri, fu la vera tragedia dell'Impero. “Un popolo è un io” - scrive la Magli - “perché possiede tratti che lo identificano in una 'personalità'” (p. 23): da allora, nessuno si sentì più realmente “civis romanus”, spezzando un incantesimo durato secoli. Tutti quei popoli non si riconoscevano in nient'altro che nei loro privilegi.

Infine. Quale fu il regime più sanguinoso nei confronti degli oppositori? Il fascismo? Niente affatto. Nel 1898, a Milano, il generale Bava-Beccaris prese a cannonate i cittadini – disarmati – che manifestavano per il pane: oltre 400 i morti, ben più di quanti ne fece il fascismo in vent'anni di dittatura (!). Bava-Beccaris fu decorato come “salvatore della patria” (pp. 253-254) e quindi nominato senatore da Umberto I, passato alla storia come “Re buono”.

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Sotto il fascismo, come “officianti di una nuova religione”, fummo – scrive Guerri – per la prima volta un solo popolo (p. 303). La religione era quella della patria: la patria era lo stato, lo stato era fascista, gli italiani erano in maggioranza assoluta fascisti. “Gli italiani accettarono Mussolini come modello e lo ribadirono ovunque, di continuo, dedicandogli migliaia di libri apologetici, monumenti paesani, manifestazioni e riconoscimenti di qualsiasi genere. Ogni mese decine di migliaia di ammiratori – artisti, professionisti, uomini comuni, donne e bambini – facevano un vero e proprio pellegrinaggio: andavano a Roma per sentire parlare il Duce, per vederlo” (p. 304).

Purtroppo era un'italianità fondata sul “senso della guerra” (p. 305), sulla consapevolezza di avere “una missione nel mondo” spesso fondata sulla propria indiscutibile superiorità culturale, sulla “vita vissuta pericolosamente” (p. 306): con presupposti come questi era difficile non sprofondare in un disastro di proporzioni mostruose. Certo, si veniva dalla Prima Guerra Mondiale: chi tornava dal fronte, scrive Guerri, aveva sviluppato una sensibilità fortissima a questi richiami: “La violenza come necessità, l'obbedienza ferrea alla gerarchia, le celebrazioni liturgiche, il culto dei caduti, l'esaltazione dell'azione e del sangue, l'indifferenza per la vita del nemico: tutti elementi inquadrabili perfettamente nel misticismo patriottico risorto, che faceva di Mazzini 'l'apostolo della patria'” (p. 278). Mussolini era interprete e portavoce di questo spirito. In questo senso, aveva gioco facile.

Guerri evidenzia come i meriti del regime (progressiva riduzione degli orari di lavoro sino alle 40 ore, rifondazione dell'INPS, ente allora in disuso, lotta alla tubercolosi, creazione dei 'giardini d'infanzia' per i figli dei lavoratori, bonifica delle paludi pontine, fondazione di importanti servizi sociali) potevano comunque avvenire sotto qualsiasi altro regime: “corrispondono alla logica evolutiva del capitalismo moderno” (p. 313) e oscurarono la riduzione degli stipendi e la cancellazione del diritto di sciopero. Come scrisse Gramsci, il fascismo era comunque “movimento sociale” (p. 292) e non soltanto “organo di combattimento della borghesia”.

Il disastro delle leggi razziali e dell'alleanza coi nazisti, sin dai giorni della guerra in Spagna, precipitò il fascismo nell'autodistruzione. Dopo il 25 luglio 1943 cessammo di essere nuovamente “un popolo” e uno soltanto; quella che si combattè in Italia tra settembre 1943 e aprile 1945 “non fu una guerra tra italiani-bizantini e italiani-longobardi, tra guelfi e ghibellini, tra lombardi e veneziani, ma tra italiani consci di essere tali: una vera guerra civile” (p. 334). Cominciò una terrificante crisi di identità. Nel frattempo, “L'Italia venne scaraventata indietro nel tempo e di colpo assunse di nuovo l'aspetto di paese diviso in fazioni avverse impegnate in scontri ed eccessi barbarici. (…). L'odio che intrise la vita quotidiana parve un vero ritorno al Medioevo” (p. 335)

E così, mentre tutti restiamo concentrati nella ricerca della verità sulla morte di Mussolini, deprecando lo strazio del suo cadavere, dimentichiamo che “in quei giorni” i partigiani “hanno ucciso tra i 12mila e i 15mila fascisti”: ma la strage continuò anche più avanti, “specie in Emilia-Romagna e con un numero di vittime molto maggiore” (p. 343).

Alla fine del massacro, gli italiani, pur sconfitti e costretti a perdere tutte le colonie, anche quelle precedenti alla Prima Guerra Mondiale, l'Istria, Fiume, la Dalmazia, tassati e costretti a pagare i danni di guerra a URSS, Grecia, Jugoslavia, Albania, Etiopia, secondo Guerri “erano ugualmente e incredibilmente soddisfatti perché, popolo di individualisti, nessuno dei singoli individui si sentiva battuto: per ognuno, a perdere erano stati gli altri italiani. Il popolo creato dal fascismo tornava a essere un insieme di monadi” (p. 358).

L'amnistia di Togliatti liberò i fascisti dalle carceri, ma al contempo tolse dai guai migliaia di partigiani comunisti: “l'amnistia valeva fino ai reati di guerra commessi entro il 31 luglio 1945 ed evitò di perseguire migliaia di partigiani per le vendette e i reati commessi DOPO il 25 aprile 1945” (p. 355).

Crescevamo faziosi, come pochi, come sempre: fino al 1991 studiavamo la guerra civile su “Storia della resistenza italiana” di Roberto Battaglia (Einaudi, 1953; ampliato nel 1964): Battaglia, azionista, aveva riscritto la storia “come comunista e in modo agiografico”. Nel 1991 uscì il più equilibrato “Una guerra civile” di Claudio Pavone (Boringhieri, 1991: cfr. p. 345 della “Antistoria” di Guerri).

E così, tutti i giovani studenti sapevano dei sette fratelli Cervi, antifascisti, ma non dei sette fratelli Govoni, fascisti. Eppure, “tutti e quattordici fecero la stessa fine: massacrati dal nemico” (p. 341).

E una Resistenza che contava su 1500 (mille e cinquecento) persone nel settembre 1943, 30mila nella primavera del 1944, 60mila nell'estate del 1944 (Roma e Firenze liberate), 250mila nell'aprile 1945, ne vantava milioni a guerra finita. E questo, chi è nato negli anni Settanta come me lo ricorda bene: a scuola, negli anni Novanta, molti ragazzi vantavano il mitico “nonno partigiano”, gloriosamente antifascista. Italiani, furbi. E bugiardi.

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Sintetizzare questo saggio è stato molto difficile. La sua natura escludeva la possibilità di una sintesi, a meno di non cedere alla smania della semplificazione a tutti i costi. A questo punto dovrei scrivere qualcosa su Togliatti, sui fatti di Poznan, sulla DC, sugli anni della strategia della tensione e via dicendo: mi fermo, preferisco. Mi limito a consigliare la lettura dell'opera non solo agli appassionati di storia, ma ai letterati – in generale; e a ringraziare, con riconoscenza, chi una volta ancora mi ha insegnato tanto e tanto mi ha fatto meditare.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Giordano Bruno Guerri (Monticiano, Siena 1950), scrittore, giornalista e storico italiano. Si è laureato in Lettere con una tesi su Giuseppe Bottai, poi pubblicata da Feltrinelli (1976). Già direttore del mensile “La Storia Illustrata”, collabora col “Giornale”. Ha lavorato come redattore per Bompiani e Garzanti.

Giordano Bruno Guerri, “Antistoria degli italiani. Da Romolo a Giovanni Paolo II”, Mondadori, Milano 1997. Collana “Le Scie”. I Edizione Oscar Storia aprile 1999. Include bibliografia e indice dei nomi.

Prima edizione: 1997.

Gianfranco Franchi, ottobre 2009.

Prima pubblicazione: Lankelot

Un libro ricchissimo di notizie, aneddoti o osservazioni davvero affascinanti e interessanti.