Agli dei ulteriori

Agli dei ulteriori Book Cover Agli dei ulteriori
Giorgio Manganelli
Adelphi
1989
9788845906770

Stamattina mia madre ha tentato di uccidermi: stavo chiuso nel suo ventre, e leggevo i classici. Una ustione mi ha cancellato una pagina, ha turbato i miei sogni. E poiché ciò mi era lecito, ho consentito che l'ustione uccidesse mia madre. Essa è ora la mia tomba. Sto chiuso nei limiti di carne di questo animale fatiscente, e solo la mia estrema esiguità mi consente di sentirmi a mio agio” (Manganelli, “Simulazioni”, in “Agli dèi ulteriori”, p. 43)

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Italo Calvino non aveva dubbi: animano questa raccolta di sei racconti manganelliani, fondati su una prosa lirica e sinceramente allucinati, “Variazioni sul tema d'una lucida esaltazione megalomane”. Definizione decisamente condivisibile. Il padre del “Cavaliere inesistente” segnalava che “al posto della violenza discenditiva e autodistruttiva della “Hilarotragoedia”, al posto dell'architettura che eleva propilei e trabeazioni su una gelida capocchia di spillo nel “Nuovo commento”, qui c'è la tensione energetica del raptus, il librare le ali nei cieli grandiosi della simulazione, il volo radente verso i vortici dell'assenza”. Che significa? Che siamo dalle parti del gran delirio letterario, derivato dall'espressionismo di un artista anarcoide, simbolo d'una magnifica renitenza alla linearità e alla razionalità, di un rifiuto assoluto di ideologie odiosette come il neorealismo, di estraneità a qualsiasi genere. Ogni scrittura di genere è una castrazione e una negazione della letteratura; l'originalità – la fantasia pura, l'invenzione a briglie sciolte, in forma elegante e ricercata – è un dono riservato al genio.

Nel primo pezzo, “Un Re”, saggiamo la megalomania raccontata da Calvino: “Ogni cosa toccata e sfiorata dal riso della regalità restituisce il suo antico, consuetudinario segno d'assenso, o anche meno, il riconoscimento di sé come legittimo obietto del riso, forse suo possesso, anzi suo schiavo. Il mio riso avverte l'intera reggia che io sono nella mia stanza, ed esercito il mio potere. E quando ritorna a me lo tocco e tento come un uccello messaggero, lo riconosco intero e intatto, fioco e compatto” (p. 22). Ogni cosa partecipa all'obbedienza alla regalità: egli pensa e plasma ogni forma, e ogni notte cerca segni dell'unica forma che non ha pensato (p. 27). L'immaginazione domina, prepotente: il Re, Dio, può abolire tutto quel che desidera, illudersi che esista un nulla così articolato da essere “niente altro che un esistente” (p. 29); e può mentire a sé stesso. “Ma queste sono le alternative della regalità: il nulla o l'inganno? O può la menzogna farmi diverso a me stesso, così che una parte di me abdichi e dimetta la sua regalità, e si faccia suddita dell'altra? Una ribellione dentro me stesso? O io delegare a me la regalità, e farmi suddito, e riluttante, se non ribelle?”

Spettacolare. La realtà è diventata qualsiasi cosa: come in “Simulazioni”, il secondo passo, in cui il narratore, convinto, sostiene di abitare un'allucinazione ben arredata, e dai limiti non valicabili. Tutto nasce, deriva e discende dalle parole del creatore: e il creatore altri non è che Manganelli stesso. Si può andare oltre, in Letteratura? Forse sognando una condanna alla metamorfosi di sé stesso in merda: vestendosi di merda, incarcerandosi in sé stessi (p. 58), e tuttavia restando miracolosamente alti, magnificamente letterari, assolutamente puri. Calvino parla del Manganelli come di un “dotto acrobata che volteggia attorno al trapezio della retorica sul vuoto atemporale dei significati (…) il più fededegno collettore delle allucinazioni e dei deliri dell'io pubblico e privato in questa nostra anticamera dell'Ade”. E noi ce lo godiamo. Manganelli, dico, non l'Ade. Non ancora.

Ade? Eccoci tra “Alcune ipotesi sulle mie precedenti reincarnazioni”, là dove il narratore avanza “per giorni variamente colorati di suicidio, talora colmi fin quasi a traboccarne, sì che una schiuma di morte ne tracima e gronda” (p. 65), in cerca di memorie d'un passato suicida, e del senso di suicidi precedenti. È un monologo ossessivo, morboso, erudito e infine alienato. Alla realtà, del tutto scomparsa. S'è proprio disintegrata. Esiste solo questo io monolitico e pazzo di sé stesso, che si straparla addosso e non conclude niente (che non sia: arte). Quarto pezzo, “Dal disonore”. Il disonore di essere stati vivi ed essere morti, si intende. Senza sapere perché. Il narratore è morto, è altrove, e da morto pensa; s'accorge infine che “forse eccitarsi fa male ai morti: vuota il loro vuoto” (p. 94). Che è facile a dirsi, meno da immaginarsi. Provate.

Ecce “Un amore impossibile”, racconto epistolare, laddove un ingegnoso e astratto amico del (sorprendente) primo narratore gli ha congegnato una “portatile catapulta verbale, con la quale oso scagliare per la nerità degli spazi questo missile devozionale, questo retorico destriero governato da un messaggero più balbo che eloquente; testa di cometa che, scarmigliata tra i fulvi cernecchi, incide un grafico infuocato su cavità tenebrose, minia un'iniziale sul ventre delle nuvole” (p. 97), e lui, fantastico e malinconioso, scrive a lei, che suppone malinconiosa e mite. Lui è Amleto, lei la Principessa di Clèves. E andiamo.

Infine, il sublime “Discorso sulla difficoltà di comunicare coi morti”. Laddove leggiamo: “Che il comunicare coi morti sia impresa difficile a pensare, paurosa quando pensata, temeraria a intraprendere, spaventevole intrapresa, e in ogni modo angosciosa, ognuno concederà agevolmente. E si consideri: i moniti, le preclusioni dei pii, dei timidi; la natura dell'interlocutore, elusivo, taciturno, remoto, o quasi affatto consunto, praticamente inesistente; desideroso, forse, o anche ansioso di parlare; ma irretito nei puntigli di una etichetta vessatoria; o costretto ad ignorarci, o a nicchiare, o ad ammiccare, a scioccheggiare” (pp. 134-135). E incontriamo, man mano, la setta orgogliosa e faziosa degli antimorti, fondata da un monaco apostata; e tutta una serie di perplessità a proposito di questi metateppisti imprendibili e invisibili. La più grave di tutte: ma che lingua parlano i morti? Non so risolvermi, o forse non mi voglio sbilanciare.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Giorgio Manganelli (Milano, 1922 – Roma, 1990), narratore, critico, traduttore, giornalista e saggista italiano. Si laureò in Lettere presso l’Università di Pavia; fu consulente editoriale Adelphi, Einaudi, Mondadori.

Giorgio Manganelli, “Agli dèi ulteriori”, Adelphi, Milano 1989. Collana “Biblioteca Adelphi”, 206. Prima edizione: 1977.

Gianfranco Franchi, ottobre 2009.

Prima pubblicazione: Lankelot.